Come un tempo si sarebbe fatto con uno studente che si fosse applicato poco nel corso dell’anno, così oggi il Parlamento Europeo ha rimandato a settembre la direttiva sul copyright.
Con 318 voti contrari, 278 favorevoli e 31 astenuti, infatti, la sessione plenaria dell’Assemblea di Strasburgo ha votato contro l’avvio dei negoziati fra Parlamento, Consiglio e Commissione.
È una buona notizia perché ci sarà tempo (e mi auguro, voglia) di migliorare un testo che si presentava imperfetto e che tante polemiche aveva suscitato con particolare riferimento alle disposizioni contenute negli articoli 11 e 13, non a caso ribattezzati rispettivamente “link tax” e “the censorship machines”.
La mutazione genetica del copyright
Sarà, tuttavia, ancor di più una buona notizia se si avrà modo di riflettere sul fatto che, ormai da anni, si assiste ad una mutazione genetica del copyright da strumento di tutela della creatività a meccanismo di socializzazione delle perdite generate da Internet a scapito di alcuni settori dell’industria dei contenuti.
L’idea, ad esempio, che sta alla base del cosiddetto ancillary copyright (o link tax nella versione dispregiativa) di cui all’articolo 11 della proposta di direttiva è proprio quella di permettere agli editori di monetizzare un “non-uso” dei loro prodotti da parte degli aggregatori online, come ad esempio Google News.
Algoritmo, diritto di riproduzione e copyright
È di tutta evidenza, infatti, che l’attività che un algoritmo compie per indicizzare contenuti lecitamente disponibili in rete e successivamente mostrarli all’utente con modalità che includano un’anteprima testuale non ha nulla a che vedere con il diritto di riproduzione storicamente inteso, che rappresenta il fondamento stesso del copyright.
A conferma di ciò, la direttiva è costretta a coniare un nuovo diritto, ancillare o connesso (che dir si voglia), in forza del quale si riconosce ad una categoria (gli editori) una particolare pretesa economica per il sol fatto che un’altra categoria (gli OTT della rete) offra un sistema di ricerca dei contenuti dalla prima prodotti.
Le possibili conseguenze dannose della link tax
Sempre restando all’articolo 11, nella sua attuale formulazione, esso potrebbe comportare conseguenze dannose per diversi motivi.
- Innanzitutto, implicherebbe costi che, soprattutto per i piccoli siti, sarebbero sproporzionati e porterebbero inevitabilmente a una riduzione della quantità di informazioni disponibili online. È ovvio, infatti, che solo le aziende più grandi saranno in grado di affrontare la nuova “tassa di collegamento”: tutte le altre spariranno.
- In secondo luogo, l’introduzione di ulteriori limitazioni all’uso dei contenuti digitali avrebbe conseguenze sulla loro diffusione limitando la libertà di informare e di informarsi.
- In terzo luogo, ciò potrebbe costituire un cavallo di Troia per sovvertire uno dei principi di base di Internet: la libertà di link. Devo chiedere il permesso ogni volta che collego un contenuto del mio blog e un software genera automaticamente una piccola anteprima di quel contenuto?
L’aspetto più surreale dell’intera vicenda, però, è un altro: quando la Spagna, anni fa, introdusse una legislazione simile, il risultato è stato che servizi come Google News smisero di funzionare sul territorio iberico.
Abbiamo già testato quella legge e sappiamo che non funziona. Allora, perché la stiamo introducendo a livello europeo? Una legislazione del genere non crea innovazione e allo stesso tempo non protegge i giornali perché l’unico risultato che produce (e lo sappiamo, perché l’abbiamo visto accadere in Spagna) è di disattivare i servizi online come Google News che generano traffico per i siti collegati (e il traffico significa ricavi).
In buona sostanza, si corre il rischio di perdere tutti i benefici degli aggregatori senza ottenere nulla in cambio. Dobbiamo essere onesti: questa è una legge pensata avendo in mente solo un argomento, Google. “Prendiamo i soldi dai ricchi malvagi e li restituiamo ai poveri giornali che stanno soffrendo a causa di Internet”, la logica mi sembra abbastanza chiara. Sfortunatamente queste nuove regole possono influenzare un pubblico molto più ampio e produrre conseguenze non preventivate né preventivabili.
The censorship machines
Altra questione di assoluto rilievo è la portata dell’articolo 13 della proposta di direttiva (non a caso ribattezzato “macchina di censura”) che prevede un nuovo ruolo delle piattaforme che ospitano contenuti caricati dagli utenti.
Queste ultime sono, infatti, soggette all’obbligo di concludere accordi di licenza con i titolari dei diritti così da ottenere preventivamente licenze per tutte le opere protette dal diritto d’autore nell’eventualità che le stesse siano caricate, in tutto o in parte, sulla piattaforma da parte degli utenti.
Laddove non fossero raggiunti simili accordi, le piattaforme dovrebbero comunque implementare sistemi di filtraggio appropriati atti ad impedire la messa a disposizione del pubblico di materiale protetto dal copyright. Dunque, non (o non solo) un controllo ex post su segnalazione dei titolari dei diritti, ma un intervento ex ante, tale da impedire il verificarsi stesso della violazione.
È evidente che si tratta di una costruzione pensata per grandi piattaforme con enormi quantità di denaro da spendere ma che interesserà ogni sito che ospita i contenuti generati dall’utente, anche quelli piccoli che probabilmente non saranno in grado di implementare tale sistema automatizzato.
Un equilibrio tra diritto d’autore e diritto di innovare
Con una legislazione del genere una piattaforma come YouTube non sarebbe mai nata perché le barriere legali ed economiche sarebbero state troppo alte.
Proteggere il copyright è importante ma è anche importante trovare un buon equilibrio tra diritto d’autore e diritto di innovare senza permesso.
A tal proposito, sarebbe stato opportuno inserire nella proposta di direttiva una disposizione simile a quella presente nel Copyright Act Canadese, dove è prevista un’apposita eccezione per i c.d. user generated content.
In particolare, la sezione 29.21 della normativa summenzionata autorizza la creazione di opere derivate da opere protette già pubblicate quando manchi una finalità commerciale. Affinché l’uso sia lecito, la disposizione impone altresì la citazione della fonte e l’attribuzione dell’autore, la liceità del lavoro originario o della copia utilizzata per produrre l’opera derivata (anche se non in termini di certezza assoluta, ma di ragionevole probabilità), nonché l’assenza di un sostanziale effetto negativo sullo sfruttamento del lavoro originale.
La UGC exception
Come ricorda la studiosa Teresa Scassa nel saggio “Acknowledging Copyright’s illegitimate Offspring: User-Generated Content and Canadian Copyright Law”, la Corte Suprema Canadese, nel caso Society of Composers, Authors and Music Publishers of Canada v Bell Canada, ebbe modo di affermare che “users’ rights are an essential part of furthering the public interest objectives of the Copyright Act”.
Scassa sostiene, allora, che la UGC exception è parte integrante di quell’equilibrio normativo volto a perseguire l’interesse pubblico alla base del copyright e serve, allo stesso tempo, a garantire la creazione e la diffusione delle opere dell’ingegno.
Poiché ogni user generated content implica l’esistenza di due autori (quello dell’opera “sorgente” e quello dell’opera “derivata”), l’equilibrio che la disposizione in commento realizza è quello di garantire solo al primo la possibilità di sfruttare commercialmente la propria opera, mentre il secondo potrà utilizzare e diffondere l’opera derivata unicamente per finalità non commerciali e solo fino a quando ciò non abbia un impatto negativo in termini economici sull’opera sorgente.
L’eccezione di cui sopra, laddove introdotta nell’ordinamento comunitario, consentirebbe lo sviluppo di un ecosistema culturale più favorevole alla diffusione tanto dell’opera “sorgente” che di quella “derivata” e ciò in perfetta linea con quanto affermato dalla Corte Suprema del Canada, sempre nel caso Bell, secondo cui la diffusione di opere artistiche è fondamentale per lo sviluppo di una solida cultura e di un pubblico dominio intellettuale.