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Sbloccare produttività e crescita in Italia: l’IA è la risposta?



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Le considerazioni del Governatore Panetta evidenziano la stagnazione economica italiana e il ruolo cruciale dell’innovazione tecnologica per la futura produttività. L’IA potrebbe rompere il paradosso della produttività, con stime di crescita contrastanti. Per l’Italia, l’adozione dell’IA è essenziale per superare la stasi e affrontare la sfida demografica

Pubblicato il 11 giu 2024

Stefano da Empoli

presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)



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Le considerazioni finali del Governatore, svolte come di consueto nell’ultimo giorno di maggio e che quest’anno hanno rappresentato il battesimo del fuoco per Fabio Panetta, che guida la Banca d’Italia dallo scorso novembre, ci hanno ricordato come l’economia italiana sia quella cresciuta di meno della zona euro nell’ultimo quarto di secolo, conseguenza di una produttività totale dei fattori e di una produttività del lavoro rimaste ferme.

La stasi di quest’ultima a sua volta ha bloccato l’evoluzione dei salari, con la conseguenza che il reddito reale disponibile delle famiglie è fermo al 2000, mentre in Francia e Germania è aumentato da allora di oltre un quinto.

D’altronde, e su questo le parole del governatore sono di una chiarezza cristallina, dall’innovazione tecnologica derivano gran parte dei possibili incrementi di produttività futura.

La storia ci dimostra che per molti millenni la stagnazione è stata la norma e la crescita un’eccezione. E in particolare l’accelerazione registratasi negli ultimi due secoli, prima nel Regno Unito e poi a seguire nel resto d’Europa e in Nordamerica, è stata del tutto inedita, guidata da invenzioni rivoluzionarie come il motore a vapore, l’elettricità, il telegrafo, il telefono, le automobili, ecc.

La relazione (fin qui) non corrisposta tra informatica e produttività

Paradossalmente, più tormentato risulta il rapporto tra produttività e informatica, con ogni probabilità il campo a più elevato progresso tecnologico dal secondo dopoguerra in avanti.

Come ha documentato qualche anno fa l’economista statunitense Robert J. Gordon, il tasso di crescita media del prodotto orario negli USA è stato annualmente dell’1,5% tra il 1890 e il 1920, del 2,82% tra il 1920 e il 1970 e dell’1,62% dopo il 1970. Dunque, proprio mentre la rivoluzione informatica era agli albori, non essendo ancora entrata in gran parte degli uffici e nella quasi totalità delle case, la crescita della produttività tornò indietro tutta d’un tratto. Un bel paradosso, anche perché i computer, al pari di macchine a vapore ed elettricità – le tecnologie che hanno dato la spinta decisiva alle prime due rivoluzioni industriali – non rappresentano una semplice innovazione al pari di tante altre ma quella che gli economisti definiscono una general purpose technology, in grado di produrre sulla carta un impatto sulla produttività e sulla crescita decisamente più pervasivo rispetto a innovazioni tecnologiche di nicchia, soprattutto in presenza di salti di paradigma, come per l’appunto l’avvento dei personal computer oppure, più tardi, la diffusione di Internet e la nascita del web.

L’enigma appariva così misterioso che il premio Nobel per l’Economia e padre della teoria della crescita, Robert Solow, in un editoriale sul New York Times della seconda metà degli anni Ottanta, commentò ironicamente che «possiamo vedere l’era informatica ovunque tranne che nelle statistiche sulla produttività».

A Solow era forse sfuggita una relazione, preparata per una conferenza sul futuro dell’educazione, di un altro premio Nobel per l’Economia, Herbert Simon, considerato uno dei padri fondatori dell’IA. Nel suo intervento, Simon fece un parallelo interessante tra il motore a vapore e il computer. Una prima versione del primo fu inventata già nel 1712 da Thomas Newcomen, ma solo con sviluppi successivi, a partire da quello introdotto nel 1769 da James Watt, la sua invenzione venne resa efficiente, rendendone possibile l’applicazione in tanti campi, dall’industria ai trasporti.

Peccato che nel frattempo passò più di un secolo perché gli effetti diventassero pienamente visibili. Simon dunque concludeva che tutto sommato il fatto che dopo quarant’anni la rivoluzione informatica non avesse ancora prodotto effetti significativi sulla produttività e dunque sulla crescita non avrebbe dovuto stupire più di tanto.

La stessa dinamica fu osservata per l’elettricità, che ebbe finalmente un impatto sulla produttività solo a partire dagli anni Venti del Novecento, dunque a circa quarant’anni dall’accensione della prima centrale newyorchese di Edison, con il suo ingresso massivo nelle fabbriche. Reso possibile dalla discesa dei costi industriali dell’elettricità e da tanti piccoli miglioramenti tecnologici intervenuti in corso d’opera.

Dopo pochi anni è sembrato che in effetti le opinioni di Simon, basate sull’osservazione degli effetti di precedenti cambiamenti tecnologici, fosse premiata dai dati. Tutto d’un tratto, a partire dalla metà degli anni Novanta, la crescita annuale della produttività statunitense rimbalzò da una media dell’1,44% nel periodo 1977-1994 a una del 2,05% in quello 1995-2004. Peccato che il sollievo durò poco (oltre a non riguardare quasi per nulla l’Europa ed altre economie mature) visto che nel decennio successivo (2005-2014) la produttività tornò ad aumentare negli USA soltanto dell’1,3% in media all’anno.

La teoria dei rami più bassi e la sindrome di Baumol

Come spiegare dunque questo evidente paradosso? Tyler Cowen, economista della George Mason University e grande osservatore dei trend tecnologici, ha sostenuto già in un libro del 2011 che, dopo un periodo di notevole progresso dovuto alla capacità dell’umanità di cogliere facilmente i frutti tecnologici più a portata di mano su un metaforico albero dell’innovazione, gli Stati Uniti (e non solo) fossero entrati fin dagli anni Settanta in una fase di relativo declino derivante dalla difficoltà a passare ai rami più alti (che per gli economisti si traducono soprattutto in costi più elevati o rendimenti minori della stessa unità di spesa).

Se escludiamo problemi di misura, invocati da molti economisti ma rifiutati da altri, un’altra spiegazione possibile (che peraltro non si esclude a vicenda con la prima) al rallentamento dell’economia negli Stati Uniti e negli altri Paesi più ricchi va sotto il nome di «malattia dei costi», concetto introdotto parecchi decenni fa da William Baumol che notò un vero e proprio paradosso: l’innovazione, riducendo i costi dei settori più esposti all’automazione (per esempio, manifattura e agricoltura), abbatte il peso nell’economia di questi ultimi mentre indirettamente favorisce la crescita in termini relativi e assoluti proprio di quei comparti meno scalfiti dal progresso tecnico, anche grazie a una maggiore domanda derivante da un’economia che comunque continua a crescere e a una popolazione più educata e colta.

L’esempio classico che rende meglio questa idea è quello di un concerto di musica sinfonica (ma lo stesso vale per qualsiasi rappresentazione culturaleo anche sportiva): se ne misuriamo l’efficienza guardando alla velocità di esecuzione, quest’ultima non potrà cambiare, risultando per la gioia degli appassionati sempre la stessa dai tempi di Bach o Beethoven. Una dinamica non troppo dissimile riguarda altri servizi come per esempio la sanità, l’assistenza sociale o l’istruzione, che nei Paesi più industrializzati hanno visto un incremento continuo della spesa, che si è andato ad accentuare nell’ultimo mezzo secolo, a fronte di un trend di crescita della produttività mediamente molto più basso rispetto al settore primario e secondario.

D’altronde, prendendo in prestito un esempio dal mio libro L’economia di ChatGPT. Tra false paure e veri rischi (Egea, 2023), pensiamo a una fabbrica e a un’aula scolastica di cento anni fa e compariamole con quelle di oggi; la prima non sarebbe di fatto più riconoscibile (probabilmente, ne potremmo indovinare a fatica solo le mura esterne, sempre che nel frattempo non sia stata interamente abbattuta o abbandonata), la seconda ci apparirebbe quasi identica (la principale differenza potrebbe essere una lavagna elettronica su un muro che ha sostituito o affiancato quella tradizionale). Dunque, l’innovazione in un determinato Paese c’è e magari è anche elevata ma opera principalmente su una fetta dell’economia sempre più piccola. A meno che non si trovi una general purpose technology in grado di rendere più produttivo l’intero sistema economico o quantomeno la gran parte dei settori che lo compongono, producendo quei guadagni di efficienza che magari aiuteranno i compositori se non a fare esecuzioni più veloci, almeno a trovare le sequenze di note di loro gradimento più rapidamente. E a rendere le aule scolastiche uno spazio (e soprattutto un metodo) totalmente diverso da quello quasi immutabile al quale siamo stati abituati da innumerevoli generazioni fino a oggi. Ecco perché le migliori speranze per spezzare questo rapporto non consumato tra informatica e produttività si sono appuntate da più di un decennio sull’intelligenza artificiale.

Le speranze di crescita riposte nell’IA: le stime di Goldman Sachs e McKinsey

Cercando di capire se l’IA riuscirà finalmente a sfatare il paradosso della produttività enunciato da Robert Solow, bisogna partire con onestà intellettuale dall’osservazione che delle fantasmagoriche previsioni di crescita trainate dall’IA, che specialmente le grandi società di consulenza hanno dispensato dopo i primi successi del deep learning dello scorso decennio, si è visto ben poco, almeno fino ad ora. Non abbiamo osservato né la crescita esplosiva prefigurata da qualcuno né un salto in alto più modesto ma pur sempre positivo. Le spiegazioni possono essere soprattutto due (e probabilmente sono entrambe valide). L’innovazione uscita dai laboratori di IA non è stata ancora così trasformativa o quantomeno non lo è stata per un numero sufficiente di settori e di applicazioni. Inoltre, il tasso di adozione è stato finora piuttosto basso un po’ ovunque, al di là di applicazioni di base non troppo diverse dall’informatica avanzata. Basti pensare che, in base alle ultime statistiche ufficiali, fornite da Eurostat, che si riferiscono al 2023, solo l’8% delle imprese europee adottano almeno una tecnologia IA e in Italia va ancora peggio, con appena il 5%.

Dopo il lancio di ChatGPT e dei suoi simili, le speranze si sono riaccese e con esse le stime prodotte dalle grandi società di consulenza.

Secondo uno studio di Goldman Sachs, pubblicato nel luglio del 2023, un’ampia adozione dell’IA generativa potrebbe portare a un aumento annuale del PIL globale di circa 7 mila miliardi di dollari, pari al 7%, su un periodo di dieci anni.

McKinsey&Company, dopo aver analizzato 63 possibili casi d’uso, approda a numeri abbastanza simili, ipotizzando benefici economici compresi tra 6,1 e 7,9 mila miliardi, con un incremento degli impatti complessivi dell’IA tra il 35 e il 70% delle stime che aveva già effettuato nel 2017. Secondo lo stesso studio, sarebbero principalmente due i canali attraverso i quali potrebbero avere luogo potenziali aumenti di produttività derivanti dall’IA generativa: in primo luogo, i lavoratori in professioni parzialmente automatizzate dall’IA potrebbero essere in grado di dedicare il tempo liberato a compiti più produttivi (scenario dunque nel quale la tecnologia è complementare e non sostitutiva); inoltre, le esperienze di passate trasformazioni tecnologiche suggeriscono che la maggior parte dei lavoratori costretti a un cambio di lavoro troverà nuove occupazioni, spesso in settori abilitati dall’IA o guidati dalla domanda derivante da guadagni di produttività altrove.

Tenendo conto dei guadagni di produttività per i lavoratori non costretti a un cambiamento, dei risparmi sui costi del lavoro e dei lavoratori ricollocati in nuovi ruoli, l’analisi di Goldman Sachs stima che l’adozione dell’IA generativa potrebbe aumentare la crescita complessiva della produttività del lavoro negli Stati Uniti di circa 1,5 punti percentuali all’anno. Questo notevole incremento raddoppierebbe i recenti tassi di crescita della produttività, suggerendo dunque un impatto paragonabile a quello delle principali innovazioni passate come per l’appunto l’elettricità.

C’è anche un terzo canale di crescita, considerato in un report del 2023 della Brookings Institution, uno dei principali think tank americani. Se l’IA rendesse i lavoratori della conoscenza più efficienti nella ricerca e sviluppo tecnologico, questo potrà accelerare il progresso tecnologico e quindi aumenterà il tasso di crescita della produttività, in perpetuo, in quanto il ciclo dell’innovazione potrà essere strutturalmente accelerato grazie a scoperte scientifiche sempre più rapide e significative. Pensiamo solo ai progressi della medicina e all’individuazione delle molecole efficaci per le cure, un processo estremamente lungo e costoso.  

Il pessimismo di Acemoglu e la controreplica di Goldman Sachs 

L’ottimismo di queste previsioni è stato quantomeno scosso da un paper, “The Simple Macroeconomics of AI”, apparso poche settimane fa a firma dell’economista del MIT Daron Acemoglu, in predicato di raggiungere presto o tardi Solow e Simon nell’Olimpo dei premi Nobel assegnati alla disciplina. Il professore americano di origine turca ha infatti elaborato un modello sui possibili impatti economici dell’IA che ha prodotto delle stime decisamente più caute, basate su una previsione della frazione delle funzioni lavorative automatizzate dall’IA e dei risparmi di costo conseguenti. Attraverso una serie di passaggi che sarebbe troppo lungo replicare in questa sede, il modello arriva a una stima della variazione complessiva della produttività totale dei fattori che non va oltre lo 0,66% nei prossimi dieci anni (per un misero 0,064% all’anno) ed effetti sulla crescita del PIL che nella più rosea delle previsioni sono ricompresi per l’intero periodo dentro una forchetta tra l’1,4% e l’1,56%.

Ma queste stime potrebbero peggiorare decisamente, considerando due fattori che Acemoglu ritieni pienamente realistici.

Le previsioni di crescita già menzionate assumono infatti che gli effetti dell’IA abbiano luogo in funzioni lavorative caratterizzate da facile apprendimento, ma in realtà man mano che si andrà avanti gli effetti principali potrebbero ritrovarsi in quelle che presentano gli ostacoli maggiori, molto più dipendenti dal contesto e non basate su indicatori oggettivi di risultato, come per l’appunto nei lavori intellettuali e creativi interessati dall’IA generativa.

In questo caso, la crescita della produttività e del PIL potrebbe ridursi rispettivamente allo 0,53% e allo 0,9% in dieci anni (nel migliore dei casi).

Inoltre, a fronte di un determinato incremento delle due variabili fin qui indagate (produttività e crescita), non è detto che il benessere segua pedissequamente il loro andamento. Il motivo sta nel fatto che, al pari dei social, anche l’IA può essere impiegata per scopi distruttivi che generano valore negativo dal punto di vista sociale (pensiamo agli attacchi cyber o ai deepfake).

A poche settimane di distanza dalla pubblicazione del paper, è arrivata la replica di Goldman Sachs che si è concentrata in particolare su due differenze piuttosto macroscopiche della metodologia usata da Acemoglu rispetto alla propria.

In primo luogo, quest’ultimo presume che solo il 4,6% del totale dei compiti lavorativi sia automatizzato dall’IA generativa perché stima che solo il 19,9% di tutti i compiti sia esposto all’IA e che solo il 23% di questi sia economicamente conveniente da automatizzare nei prossimi dieci anni. Al contrario, Goldman Sachs assume che il 25% di tutti i compiti lavorativi sia alla fine automatizzato dall’IA generativa a seguito di una piena adozione. Da qui nasce dunque già una riduzione di cinque volte e mezza dell’impatto stimato da Acemoglu rispetto a quello della società di consulenza finanziaria, a parità di altri fattori.

In secondo luogo, la metodologia di Acemoglu, per ammissione dello stesso, presuppone che i risparmi sui costi siano guidati dal fatto che i lavoratori svolgano più efficientemente gli stessi compiti che attualmente fanno e ignora i guadagni derivanti dalla riallocazione del lavoro o dalla creazione di nuovi compiti. Al contrario, le stime di Goldman Sachs incorporano sia la riallocazione dei lavoratori—attraverso lo spostamento e il successivo riassorbimento in nuove professioni rese possibili dal progresso tecnologico legato all’IA e dove il lavoro ha un vantaggio comparato—sia la creazione di nuovi compiti che espande il potenziale produttivo per i lavoratori non spiazzati dal cambiamento tecnologico. Un canale di impatto sulla crescita certamente più difficile da stimare ma che non può non rappresentarne una parte significativa (come di fatto ammette lo stesso Acemoglu nel paper).

Riflessioni sull’Italia 

In effetti, guardando anche ad altri studi apparsi di recente, il numero delle task esposte all’IA stimato da Acemoglu (19,9%) appare decisamente basso. Ad esempio, nella sua ricerca sugli impatti sul mercato del lavoro, apparsa lo scorso gennaio, il Fondo Monetario Internazionale ritiene che nei Paesi avanzati la percentuale di occupazioni esposte all’IA debba collocarsi al 60%. Percentuale che sale in Italia ai due terzi dei lavoratori secondo uno studio della Banca d’Italia, apparso sempre nelle scorse settimane all’interno della relazione annuale. Le metodologie sono certamente diverse (un conto sono le mansioni che compongono i lavori, un conto i lavori stessi) ma la differenza è troppo evidente per passare inosservata.

Inoltre, non considerare esplicitamente nuove funzioni lavorative abilitate dall’IA nonché il miglioramento dell’automazione esistente rappresenta un evidente limite metodologico. Certamente, come abbiamo già detto, un canale che risulterà decisivo per aumentare la produttività e dunque la crescita sarà l’eventuale accelerazione del progresso scientifico, che secondo Acemoglu richiederà però più dei dieci anni che compongono l’orizzonte temporale del suo studio. Una prospettiva che cozza con quanto dichiarano le principali società tecnologiche, come Google DeepMind, che hanno intensificato negli ultimi mesi gli annunci di nuove scoperte in campo biologico e medico.

È vero inoltre che i rischi dell’IA possono incidere ma paragonare gli effetti sul benessere sociale dell’IA ai social appare quantomeno riduttivo. Inoltre, le soluzioni escogitate per mitigare i pericoli rappresentano anch’esse un contributo al progresso scientifico. D’altronde, è la capacità di affrontare le criticità, individuando le soluzioni più efficaci, che ha dato al genere umano lo straordinario cammino che abbiamo conosciuto e l’IA non fa eccezioni da questo punto di vista.  

Piuttosto, oltre all’evidente focus sull’adozione e sulla necessità di formare le persone all’IA, che non può darsi per scontata e che induce dubbi giustificati sulla possibilità che previsioni potenzialmente rosee possano confermarsi nella realtà, c’è un pericolo reale che ancora non appare nelle analisi ma che sembra essere confermato da un’ormai vasta pluralità di survey apparse nell’ultimo anno.  Dalle quali risulta che i lavoratori utilizzino strumenti di IA generativa non solo senza supervisione dei propri capi (il che è già di per sé un fatto che riduce i potenziali guadagni di produttività perché sappiamo che questi avvengono principalmente attraverso una riorganizzazione dei processi aziendali, al fine di massimizzare i benefici e mitigare i rischi delle nuove tecnologie) ma senza che questi lo sappiano. Dunque, la possibilità concreta è che lungi dal beneficiare realmente le organizzazioni e l’economia nel suo insieme, gli eventuali guadagni di produttività consentiti dai tool di IA si tradurranno soprattutto in benefici personali (minore impegno sul posto di lavoro).

Ecco perché è fondamentale che i datori di lavoro prendano in mano la situazone con sufficiente tempestività e anche senso della realtà, tenendo conto dell’ineluttabilità di strumenti che si stanno diffondendo con grande velocità, grazie alla loro facilità d’uso combinata con una percezione immediata dei benefici, almeno per alcune delle mansioni lavorative più comuni.

Conclusioni

Infine, qualche riflessione necessaria sull’Italia, rispetto a studi che, come quelli citati, nella stragrande maggioranza dei casi riguardano gli Stati Uniti, un Paese con livelli di innovazione tecnologica, produttività e anche situazione demografica totalmente diversi dal nostro. Per questo, le potenzialità dell’IA sono perfino superiori da noi, se è vero che dall’avvento di Internet in poi le nostre statistiche hanno registrato una stasi assoluta (al di sotto dei livelli di crescita precedenti). In particolare nei servizi e nella pubblica amministrazione, i recuperi di produttività resi possibili dall’IA appaiono enormi. E se è vero che le competenze non solo digitali sono piuttosto basse in Italia, acuendo in astratto i rischi di sostituzione, è pur vero che l’inverno demografico che stiamo vivendo ci imporrebbe l’ingresso sul mercato del lavoro di milioni di persone di cui non disponiamo (l’Istat stima in 5,4 milioni quelle che verranno a mancare in età lavorativa da qui al 2040), salvo supporre un aumento estremamente significativo dei flussi di immigrazione. Ecco dunque un altro fattore che ci dovrebbe spingere a valutare più positivamente che altrove gli impatti dell’IA. Sempre che si lavori tutti insieme per tradurne in realtà le potenzialità.

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