Quella che ha dato ragione a Google contro Oracle, negli USA, è una pronuncia importantissima, da qualcuno definita addirittura storica, per gli impatti che potrebbe avere nel settore delle software house.
La Corte Suprema ha, infatti, ritenuto corretto – in punto di diritto – l’operato di Google consistito nell’utilizzare le API per integrarle in un software innovativo a beneficio della collettività.
Così la sentenza, del 5 aprile, chiude una delle più annose e interessanti vicende giudiziarie in tema di copyright degli ultimi anni, che ha avuto come oggetto, in particolare, l’utilizzo della piattaforma Java all’interno del sistema operativo Android.
API al centro della contesta
Il procedimento giudiziario è stato avviato a causa delle oltre 11.000 righe di codici API (Application Program Interface) che Google avrebbe copiato da un’applicazione di programmazione Java sviluppata da Sun Microsystems, di proprietà di Oracle, per realizzare Android.
Oracle ha per questo richiesto a Google un risarcimento danni pari a 9 miliardi di dollari, sostenendo che con tale comportamento Google avrebbe violato la normativa in materia di copyright e, quindi, i diritti di sfruttamento economico previsti per chi sviluppa programmi per elaboratore.
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Contrariamente a quanto sostenuto da Oracle, tuttavia, la Corte Suprema americana, ribaltando la sentenza di appello pronunciata dalla corte federale nel 2018, ha accolto le argomentazioni della difesa fondate sul fair use statunitense che permette, in particolare, l’utilizzo di materiale protetto da copyright per alcuni scopi come – per esempio – l’informazione, senza bisogno in questi casi di chiedere l’autorizzazione all’utilizzo a chi ne detiene i diritti.
Google, secondo l’interpretazione della Corte, non ha quindi violato il diritto d’autore preteso da Oracle su Java per lo sviluppo di Android e, al contrario, si è comportata in perfetta aderenza alla dottrina del fair use.
Le motivazioni della sentenza
Si legge, in particolare, nelle motivazioni della sentenza che Google ha usato “only those lines of code that were needed toallow programmers to put their accrued talents to work in a new and trasformative program”.
Le API, secondo la ricostruzione dei legali di Google, accolta dalla maggioranza dei giudici della Corte, sono quindi un “metodo operativo essenziale”, il cui utilizzo è necessario ai programmatori per consentire loro di lavorare su un nuovo programma.
Il principio alla base della sentenza
Il principio che se ne ricava sembra pertanto essere quello secondo cui, se si utilizzano linee di codice appartenenti ad altri ma si aggiungono abbastanza elementi di propria creatività, si realizza un prodotto che può definirsi nuovo e originale senza rischiare quindi di violare i diritti d’autore di terzi.
Se, infatti, la legge sul copyright serve ad incoraggiare e a tutelare la creatività, la stessa può tuttavia produrre conseguenze negative se applicata rigidamente, impedendo di utilizzare conoscenze già acquisite per creare e sviluppare prodotti innovativi e utili per il mercato e, quindi, per i consumatori. La dottrina del fair use (US Copyright Act, §107) prevede proprio per questo un elenco flessibile di casi in cui è possibile fare un utilizzo legittimo di materiale copiato o riprodotto. Applicato al settore delle software house, il fair use svolge quindi un ruolo importante, oggi riconosciuto chiaramente dai giudici della Corte Suprema statunitense, perché offre un adeguato supporto e un’accelerazione ai percorsi di Digital Transformation.
Non a caso, nel comportamento di Google, sono presenti tutti e quattro i fattori che devono essere valutati per stabilire l’operatività del fair use nel caso concreto: lo scopo e la tipologia di utilizzo, la natura dell’opera protetta da copyright; la quantità e la consistenza della porzione utilizzata, valutata in relazione all’opera nella sua interezza; gli effetti del suo utilizzo sul potenziale mercato dell’opera protetta o sul suo valore.
Dalla scelta Google su API Oracle nasce Android
In particolare, con riferimento allo scopo e alla tipologia di utilizzo, la copia dei codici API da parte di Google è servita a creare un sistema (Android) per un nuovo ambiente informatico (gli smartphone) diverso da quello in cui operava Java. In questo senso, Google ha fatto un “trasformative use”, cioè un utilizzo della copia con scopi e modi diversi dall’originale.
Così pure la natura dell’“opera” protetta favorisce l’operatività del fair use. Diversamente da altre opere tradizionalmente protette dal copyright, i programmi per elaboratori si caratterizzano per essere funzionali alla realizzazione di una tecnologia innovativa ad appannaggio della collettività. In questo settore, pertanto, il fair use permette di valorizzare tale funzione, facendo prevalere la libera circolazione della conoscenza e della creatività sulle pretese dei (pochi) detentori del copyright.
Allo stesso modo, anche la quantità di linee di codici API copiate da Google, benché pari ad oltre 11.000, costituisce solo lo 0,4% dell’intera API in questione, che consiste di 2,86 milioni di linee totali. Rispetto alla totalità delle interfacce Java, il principio del fair use è perciò riuscito facilmente a prevalere sul diritto di utilizzo esclusivo vantato da Oracle contro Google.
Infine, il quarto fattore si concentra sugli effetti prodotti dall’utilizzo della copia sul mercato o sul valore dell’opera protetta dal copyright.
Con riferimento a questi, è stato sufficiente per i legali di Google ricordare ai giudici della Corte Suprema che l’utilizzo di parte del linguaggio di programmazione Java è servito a Google per posizionarsi su un mercato diverso da quello in cui operava Java e che le vendite di prodotti basati sul sistema Android hanno determinato più di 42 miliardi di dollari di entrate a partire dal 2015. Dunque, un chiaro segnale di apprezzamento è arrivato anche da parte dei consumatori, beneficiari finali della tecnologia in questione.
L’importanza della sentenza sul futuro del fair use
L’importanza del pronunciamento della Corte Suprema statunitense si coglie, quindi, nell’applicazione ampia ed evolutiva che la stessa fa del principio del fair use. La sua portata sembra pertanto andare ben oltre la rilevanza che la stessa ha avuto per i due colossi protagonisti del caso concreto.
È infatti una sentenza che, per aver riconosciuto la legittimità del comportamento di Google, si prepara a diventare un precedente utile a tutti gli operatori del settore per affermare l’importanza della interoperatività, così da rendere più veloci soprattutto quei progetti di Digital Transformation che prevedono forti integrazioni tecnologiche come quelli basati su Intelligenza Artificiale, Machine Learning e IoT.
Nello stesso tempo, la recente sentenza sul caso Oracle contro Google offre un’analisi dettagliata dei singoli fattori che le software house dovranno considerare per valutare la presenza o meno di una violazione del copyright. L’intento è quindi anche quello di ridurre le incertezze ancora presenti sotto il profilo normativo ed operativo, così da imprimere un’accelerata allo sviluppo di nuove tecnologie senza correre il rischio di violare la legge sul copyright.
Fair use la regola?
La conclusione a cui giunge la Corte lascia infatti aperta la questione relativa allo status legale delle interfacce, ovvero se le stesse debbano o meno essere coperte dalla legge sul copyright, ritenendo il punto non necessario per risolvere la controversia in esame.
Tuttavia, la risposta al tema specifico relativo alla libertà di utilizzo delle interfacce potrebbe addirittura perdere di importanza a fronte dell’interpretazione offerta dalla Corte sul fair use nel caso Oracle vs Google.
Infatti, la deroga alla legge sul copyright potrebbe trovare applicazione in così tanti casi da superare i limiti fissati dalla regola sul copyright stesso. Se così fosse, il fair use diventerebbe di fatto la regola per il settore delle software house, mentre il diritto d’autore l’eccezione.
Sul punto, non ci resta che attendere le future evoluzioni giurisprudenziali e applicative del principio del fair use.