Il rifiuto della SIAE di rinnovare l’accordo con Meta ha immediatamente ricevuto una massiccia eco mediatica dal momento impedirà ai milioni di utenti di Facebook e di Instagram di abbinare alle proprie storie, siano esse immagini o video, il ricco repertorio gestito dalla società di gestione collettiva italiana. Esso rappresenta un primo segnale di protesta al potere delle piattaforme di decidere unilateralmente le condizioni di sfruttamento delle opere dell’ingegno.
E, ovviamente, la vicenda non riguarda soltanto l’Italia.
Scontro Meta-Siae: il primo test sulla tenuta della Direttiva Copyright
I fatti
É del 16 marzo 2023 il comunicato stampa con cui SIAE annuncia la “decisione unilaterale di Meta” di escludere dalla libreria di brani disponibili sui propri social network proprio quelli degli artisti dalla stessa rappresentati. In base a quanto continua ad apprendersi dal medesimo comunicato stampa, pare che ad essa sia stato “richiesto di accettare una proposta unilaterale di Meta prescindendo da qualsiasi valutazione trasparente e condivisa dell’effettivo valore del repertorio. Tale posizione, unitamente al rifiuto da parte di Meta di condividere le informazioni rilevanti ai fini di un accordo equo, è evidentemente in contrasto con i principi sanciti dalla Direttiva Copyright”. L’unica replica a questa posizione, pervenuta da parte di Meta, è stata caratterizzata da un blando stupore nel constatare che tutti gli altri soggetti interessati e allocati in altri Paesi del mondo, hanno rinnovato gli accordi di licenza alle medesime condizioni offerte a SIAE.
Chi mente, quindi? La domanda che ci facciamo è, ovviamente, retorica, poiché i termini della trattativa tra SIAE e Meta rimangono riservati e non siamo in grado di attribuire alcuna responsabilità per il mancato accordo. Allo stato di fatto, quanto meno.
Le ripercussioni sui creators
Il problema vero, tuttavia, al netto di un eventuale accordo successivo tra i due soggetti contendenti, lo hanno riscontrato i creator (e come tali intendiamo tutti coloro che creano contenuti che condividono all’interno di blog e social network) che, dall’oggi al domani, si sono ritrovati sia nell’impossibilità di impreziosire i propri lavori creativi con gli audio messi a disposizione da Meta, sia nell’impossibilità di ascoltare letteralmente i propri precedenti video; i contenuti già pubblicati e che utilizzavano musica degli autori coinvolti nella querelle, infatti, sono stati silenziati del tutto.
Pare che all’origine di questo improvviso “mutismo” diffuso dei social network, ci sia un problema tecnico che non rende particolarmente agevole separare la traccia audio della voce del creator da quella del brano per cui è scaduta la licenza. L’immediata conseguenza, pertanto, è che centinaia di migliaia di contenuti sono divenuti inutilizzabili, anche quelli frutto di collaborazioni pubblicitarie.
La posizione di Assoinfluencer
Secondo Jacopo Ierussi, presidente di Assoinfluencer: “lo stato dell’arte è delicato perché ha coinvolto più livelli che, giuridicamente e tecnicamente parlando, non si sarebbero dovuti incrociare o, per meglio dire, scontrare. L’accordo tra SIAE e META riguardava lo sfruttamento di opera musicali per scopi non commerciali. Ed invero, se un creator avesse voluto inserire come “tappetino musicale” un brano coperto dal diritto d’autore avrebbe dovuto pagare a SIAE un emolumento a parte. Il mancato rinnovo di detto accordo ha costretto META, per ragioni tecniche, a disabilitare l’archivio SIAE indistintamente tra una fattispecie e l’altro, ex nunc ed ex tunc. Non solo, il problema è riverberato anche su Soundreef – come da comunicato ufficiale di diffuso nei giorni scorsi – ossia un gestore indipendente di diritti d’autore riconosciuto dall’Intellectual Property Office del Regno Unito, avente un background italiano e rappresentante 22.000 artisti nostrani. SIAE, nonostante la percezione collettiva, resta un soggetto privato, non un monopolio di stato, e nulla vieta che, nel breve periodo, META trovi un’intesa con un gestore diverso per risolvere la questione in Italia e che ciò causi alla prima delle due una emorragia di artisti che si spostino da SIAE a chi non soltanto può rappresentarli legittimamente, ma abbia negoziato un nuovo accordo con il Gruppo che, per quanto qui interessa prevalentemente, è proprietario di Instagram. Questo è il potere dei social media di oggi, in quanto strumento di lavoro.”
Il rompicapo dell’equa remunerazione della filiera musicale negli ecosistemi digitali
L’interesse per la vicenda italiana si estende ben al di là dei confini della penisola in quanto il tema dell’equa remunerazione da parte delle piattaforme digitali di coloro che a vario titolo contribuiscono alla filiera della produzione musicale rappresenta una questione che attanaglia in modo sempre più ricorrente i Paesi di tutto il mondo.
Se è vero che nel comparto industriale delle arti e dello spettacolo l’industria musicale è stata la prima ad innovare i propri modelli di business per trasformare la piaga della digitalizzazione e della pirateria in una succulenta opportunità commerciale attraverso l’implementazione di un’offerta legale appetibile e a prezzi modici (a cominciare da iTunes e Spotify) è altrettanto vero che, al di là delle note super star in grado di vantare milioni – se non miliardi – di streaming, gran parte dei musicisti e parolieri denuncia a gran voce la scarsa trasparenza nella rendicontazione dello sfruttamento delle loro opere dell’ingegno, nonché l’inadeguata remunerazione. Invero, la percentuale di incremento del consumo di musica sembra essere ben maggiore rispetto all’aumento dei rispettivi ricavi in sede di distribuzione agli artisti.
Si stima infatti che Amazon Music, Deezer e Spotify corrispondano agli autori una royalty pari a circa € 0,004 per visualizzazione, con picchi verso l’alto di € 0,007 e € 0.012 per gli artisti ascoltati rispettivamente su Apple Music e Tidal, ma anche verso il basso, toccando il fondo di € 0,001, per le performance musicali ascoltate su YouTube. La questione della remunerazione è fortemente intrecciata con quella della trasparenza ove si tengano in considerazione le asimmetrie informative intercorrenti tra la piattaforma e l’artista con riferimento alle modalità e all’entità di sfruttamento delle opere musicali. Le opacità di rendicontazione non possono che ostacolare gli autori nella formulazione e quantificazione di pretese la cui legittimità si radica proprio sui dati circa l’effettivo consumo delle proprie creazioni intellettuali. Peraltro, sembra proprio che la mancata volontà di Meta di condividere le informazioni sullo sfruttamento delle opere rientranti nel repertorio gestito dalla SIAE a costituire la principale causa determinante l’impasse nella negoziazione.
Le soluzioni prospettate dalla direttiva “Digital Copyright”
A livello europeo, su entrambi i problemi viene in soccorso la direttiva 790/2019/UE (cd. direttiva “Digital Copyright”), ormai recepita dalla maggior parte dei Paesi europei, ivi inclusa l’Italia nonostante qualche ritardo.
L’art. 18 della direttiva sancisce infatti l’obbligo per i servizi di condivisione di contenuti online (per ragioni di semplificazione qui riferite anche come piattaforme digitali) di garantire una remunerazione adeguata e proporzionata in favore dei titolari dei diritti d’autore. Questa disposizione va letta in combinato disposto sia con il dibattuto art. 17 che con il più pacifico art. 19.
Il primo, come molti lettori sapranno, fa sorgere in capo alle piattaforme digitali il dovere di compiere i massimi sforzi (tradotti dalla controversa nozione anglosassone “best efforts”) per acquisire le licenze utili allo sfruttamento delle opere dell’ingegno, quand’anche – ed anzi soprattutto – per effetto del caricamento di contenuti da parte degli utenti della piattaforma, pena la diretta responsabilità per violazione del copyright. La legittimità della norma è stata messa in discussione dalla Polonia che, nel maggio 2019, ne aveva chiesto l’annullamento per incompatibilità con la libertà di espressione garantita, inter alia, dall’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La censura era fondata sull’argomento che l’art. 17 esigerebbe de facto un controllo preventivo dei contenuti caricati dagli utenti. Tuttavia, la Corte di Giustizia si è pronunciata nell’aprile 2022 sulla causa C-401/09 facendo salva la disposizione in quanto contenente dei temperamenti al controllo automatico degli uploads in grado di renderlo compatibile con la libertà di espressione. Una verifica iniziale di tipo algoritmico è in ogni caso necessaria per le piattaforme su cui vengono caricati migliaia di contenuti per ora.
L’art. 19 attribuisce agli autori il diritto di ricevere, almeno una volta l’anno, informazioni aggiornate, pertinenti e complete sullo sfruttamento delle loro opere, con particolare riguardo alle modalità adottate, ai proventi generati e alla remunerazione dovuta. L’obbligo di disclosure in parola è essenziale ai fini della corretta quantificazione del compenso spettante agli autori, i quali spesso non dispongono di strumenti adeguati al monitoraggio dello sfruttamento delle loro opere.
È quindi agevole evincere che uno degli obiettivi pilastro della direttiva Digital Copyright sia per l’appunto quello di assicurare che le opportunità economiche generate dai mercati digitali siano più equamente redistribuite tra coloro che creano e coloro che distribuiscono contributi creativi. Per quanto sia apprezzabile l’intento del legislatore europeo non si nascondono le criticità connesse al rischio di frammentazione endemico alle direttive (si pensi per esempio alla recente proposta belga diretta all’introduzione di un autonomo ed inedito diritto patrimoniale per lo streaming delle opere autoriali) al pari di alcuni cortocircuiti applicativi, come testimoniato dal recente braccio di ferro tra la SIAE e Meta.
Conclusioni
Ed è proprio il disaccordo tra un servizio di condivisione di contenuti online ed una collecting society ad accendere un faro sulla preziosità dei repertori musicali nel rendere maggiormente attrattive (gli inglesi direbbero “engaging”) le piattaforme digitali; tuttavia, contraddetta dalla loro sottovalutazione quando si giunge al momento di dover quantificare la remunerazione dovuta ai musicisti e alle case discografiche. Nonostante i “buoni propositi” delle varie legislazioni emanate, nei fatti, le asimmetrie informative permangono e le “posizioni dominanti” dei soggetti titolari delle piattaforme continuano a consolidarsi. Musicisti, artisti di ogni genere e creator mediante la creazione costante di contenuti alimentano un mercato che, tuttavia, non li riconosce come parti dello stesso e che, nella pratica, diventano semplici pedoni in una partita a scacchi giocata da altri.
È possibile poi che le conseguenze della querelle di cui trattasi, si spingano anche oltre a quanto sin qui considerato. Da un lato, il comportamento della piattaforma, che agisce nella propria piena libertà contrattuale nei confronti del SIAE, potrebbe portare ad una perdita di fiducia delle imprese nella creator economy: se l’efficacia di un contenuto pubblicitario può improvvisamente venire inficiata dal comportamento (a volte arbitrario) di un terzo, è possibile che tali tipi di forme di sponsorizzazione perdano del tutto o in parte la propria vis attrattiva in termini di investimenti; dall’altro, i creator che si sono trovati ad affrontare la perdita, seppur (speriamo!) temporanea, del lavoro di mesi, potrebbero trovare altre alternative – anche gratuite – ai brani proposti e licenziati dalla piattaforma Meta, con la conseguenza che si verrebbero a generare ancora meno introiti per gli artisti tutelati dalle collecting society.
Sarà interessante seguire la vicenda per vedere se altre società di gestione collettiva si uniranno all’appello della SIAE – come recentissimamente accaduto in Australia dopo che TikTok ha deciso di ridurre il repertorio musicale – ma è senz’altro auspicabile che le due parti si siedano al più presto a tavolino per concordare in buona fede un’equa remunerazione in favore di coloro che, grazie alla loro musica, rendono più coinvolgenti, e forse anche più umani, gli ecosistemi digitali.