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Spezzare Google, a cosa porterà l’ultima battaglia dell’antitrust



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La Commissione UE ha comunicato che a Google potrebbe essere ingiunto di cedere parte della suo ramo destinato al digital advertising per affrontare i problemi di concorrenza. Un’ultima mossa per un problema che nel mondo sembra al momento di difficile soluzione senza una revisione dell’impianto normativo. In Europa e USA

Pubblicato il 16 giu 2023

Barbara Calderini

Legal Specialist – Data Protection Officer



google

La redditizia attività pubblicitaria digitale di Google si è nuovamente posta al centro dell’attenzione delle autorità di regolamentazione antitrust dell’Unione europea.

Mercoledì della scorsa settimana la Commissione UE ha comunicato come al gigante tecnologico potrebbe essere ingiunto di cedere parte della suo ramo destinato al digital advertising per affrontare i problemi di concorrenza. Oltre ovviamente al rischio di sanzioni fino al 10% del fatturato annuo dell’azienda.

Antitrust UE su Google Advertising

L’invio della comunicazione e l’apertura di una formale istruttoria antitrust non pregiudica al momento l’esito delle istruttorie; infatti solo dopo che la società avrà esercitato i suoi diritti di difesa, e vi fossero prove sufficienti di un’infrazione, la Commisione potrà giungere alla decisione attesa.

La condotta contestata risalirebbe al 2014. La norma violata, l’articolo 102 del TFUE che vieta l’abuso di posizione dominante.

“Google ha una posizione di mercato molto forte nel settore della tecnologia pubblicitaria online. Raccoglie i dati degli utenti, vende spazi pubblicitari e funge da intermediario pubblicitario online. Quindi Google è presente a quasi tutti i livelli della cosiddetta filiera adtech. La nostra preoccupazione preliminare è che Google possa aver utilizzato la sua posizione di mercato per favorire i propri servizi di intermediazione. Ciò non solo potrebbe danneggiare i concorrenti di Google, ma anche gli interessi degli editori, aumentando anche i costi degli inserzionisti. Se confermate, le pratiche di Google sarebbero illegali ai sensi delle nostre regole sulla concorrenza”, ha dichiarato il commissario antitrust Margrethe Vestager alla conferenza stampa di metà giugno.

“Se la Commissione dovesse concludere che Google ha agito in modo illegale”, ha affermato Vestager, “potrebbe ordinare alla società di “cedere i suoi servizi come DoubleClick For Publishers o AdX, e in tal modo, porremo fine all’attuale conflitto di interessi”.

Google ha affermato di non essere d’accordo con le conclusioni delle autorità di regolamentazione e che “risponderà di conseguenza”.

“I nostri strumenti di tecnologia pubblicitaria aiutano i siti Web e le app a finanziare i loro contenuti e consentono alle aziende di tutte le dimensioni di raggiungere efficacemente nuovi clienti”, ha affermato Dan Taylor, vicepresidente degli annunci globali di Google. “Google rimane impegnata a creare valore per i nostri publisher e inserzionisti partner in questo settore altamente competitivo. L’indagine della commissione si concentra su un aspetto ristretto della nostra attività pubblicitaria e non è nuova. Non siamo d’accordo con il punto di vista della Commissione Europea e risponderemo di conseguenza”.

Tanto non farà cambiare idea a Margrethe Vestager, la commissaria europea per la concorrenza, che da sempre ha svolto un ruolo significativo nell’affrontare le questioni antitrust relative all’attività pubblicitaria di Google e al potenziale abuso della sua posizione dominante nel mercato.

E’ nota la sua posizione rigorosa nel perseguire e sanzionare le presunte violazioni messe in atto da Google e dalle altre piattaforme tecnologiche. In modo particolare sono ricorrenti le preoccupazioni espresse dalla commissaria nel corso delle varie indagini e delle precedenti decisioni riguardanti Google, riguardo al potenziale abuso della posizione dominante, proprio nel settore della pubblicità online.

L’importanza di garantire una concorrenza leale e un ambiente sano per i concorrenti nel mercato della pubblicità digitale è da sempre il suo leit motiv nei confronti delle attività esercitate dagli intermediari digitali.

Non a caso Margrethe Vestager è stata una figura di spicco nel processo di formulazione e sviluppo del Digital Markets Act (DMA) dell’Unione europea, la proposta legislativa dell’Unione europea presentata nel dicembre 2020, e applicabile dallo scorso 2 maggio, il cui obiettivo è quello di stabilire regole più rigide per le grandi piattaforme digitali, comprese le imprese con posizione dominante, al fine di promuovere la concorrenza e sostenere l’innovazione nel mercato digitale.

Quanto vale il settore del digital advertising per Google

Google possiede e gestisce un’ampia gamma di servizi pubblicitari, tra cui Google Ads, la sua piattaforma di annunci online, e Google AdSense, un servizio che consente agli editori di siti web di guadagnare attraverso la pubblicità.

Il digital advertising di Google è peraltro fondamentale per il business dell’azienda confermandosi il principale segmento di generazione di entrate nel 2022. L’80,2% delle entrate di Google è derivato dalla pubblicità sulle proprietà di Google e su YouTube.

L’azienda vende spazi pubblicitari su siti Web, che incanalano finanziamenti agli editori di siti e riceve anche annunci dagli inserzionisti. La pratica è nota come header bidding.

Il meccanismo si basa sulle aste in tempo reale e su algoritmi avanzati per determinare quali annunci pubblicitari vengono mostrati agli utenti in determinati contesti.

A grandi linee questo è ciò che accade: gli inserzionisti creano annunci pubblicitari tramite la piattaforma di Google Ads. Possono definire vari parametri, come le parole chiave pertinenti, il budget giornaliero e il target demografico.

Quando un utente effettua una ricerca su Google o visita un sito web partner di Google, il sistema pubblicitario di Google valuta le informazioni sulla query di ricerca, il contenuto della pagina web e altri segnali per determinare la pertinenza degli annunci.

A quel punto avviene un’asta in tempo reale tra gli inserzionisti interessati a mostrare annunci in quel particolare contesto.

Durante l’asta, vengono presi in considerazione diversi fattori, come l’offerta dell’inserzionista, la pertinenza dell’annuncio, la qualità della pagina di destinazione e altri fattori di rilevanza.

In base alle offerte degli inserzionisti e ad altri fattori di rilevanza, viene calcolato un punteggio chiamato “Ad Rank” per ogni annuncio. L’Ad Rank tiene conto del valore che l’annuncio può offrire agli utenti e determina la posizione e l’ordine degli annunci nella pagina dei risultati di ricerca o sul sito web partner.

Gli annunci con un alto Ad Rank vengono selezionati per essere mostrati agli utenti. L’annuncio può essere visualizzato nella pagina dei risultati di ricerca di Google, in siti web partner che mostrano annunci di Google o in altre posizioni pubblicitarie online.

Gli inserzionisti pagano solo quando gli utenti interagiscono con i loro annunci, ad esempio facendo clic su di essi (pay-per-click) o visualizzandoli un numero specifico di volte (pay-per-impression), a seconda delle opzioni di pagamento selezionate.

Break up Big Tech: può essere la soluzione semplice o il rimedio semplicistico?

La richiesta di separare il ramo Google Ad-Tech Business dal resto della compagnia è stata avanzata dalle autorità di regolamentazione antitrust dell’Unione europea proprio per porre rimedio alle restrizioni imposte da Google agli editori che utilizzano la sua tecnologia pubblicitaria. Alcuni competitor hanno, infatti, più e più volte, denunciato come Google avrebbe limitato l’accesso a dati e strumenti cruciali, ostacolando così la loro capacità di competere in modo equo.

La separazione del settore advertising avrebbe, dunque, l’obiettivo di ripristinare un livello di parità nel settore, consentendo a concorrenti e ad altri attori del mercato di accedere in modo più equo ai servizi pubblicitari di Google e di competere su un terreno di gioco più equilibrato.

Inoltre, nelle intenzioni dei commissari la separazione potrebbe anche garantire una maggiore trasparenza e responsabilità nell’uso dei dati a disposizione di Google e nella gestione delle pratiche pubblicitarie.

Questa potrebbe essere la prima volta che la Commissione UE si esprime con una decisione che prevede espressamente la separazione dei singoli rami di un’impresa.

L’idea che separare o smembrare le attività delle grandi aziende tecnologiche potesse costituire una misura efficace per affrontare i potenziali problemi di dominanza di mercato nel settore tecnologico era invece già stata avanzata da Elizabeth Warren: durante la sua campagna presidenziale nel 2020, l’ex senatrice degli Stati Uniti ha proposto pubblicamente la separazione di alcune delle grandi aziende tecnologiche, come Amazon, Google e Facebook. Ha sostenuto che queste aziende hanno acquisito un potere eccessivo e dovrebbero essere smembrate per ripristinare la concorrenza nel settore.

Dello stesso parere anche il senatore statunitense Bernie Sanders.

È importante notare che, sebbene proposte e teorie come questa della senatrice Warren abbiano avuto il merito di suscitare un ampio dibattito sul potere delle grandi aziende tecnologiche e abbiano contribuito ad orientare la discussione sulla regolamentazione del settore, tuttavia non hanno ancora ottenuto un sostegno sufficiente per essere attuate a livello legislativo. Tanto in Europa quanto negli USA.

Nel frattempo, è difficile immaginare come un tale smembramento offrirebbe agli utenti una maggiore scelta di servizi o un maggiore controllo sui propri dati, o come aiuterebbe a coltivare le piccole imprese e a ridurre i costi per i consumatori e la società.

Per molti esperti le lezioni apprese dal caso AT&T del 1984, noto anche come Bell System, sarebbero un monito su cui fondare la riflessione circa i vantaggi e gli svantaggi dello scioglimento delle società dominanti.

Il fronte globale dell’antitrust contro Google e le altre Big Tech

Questa della Commissione sarebbe solo l’ultima accusa, in ordine di tempo, di una serie di casi di alto profilo incidenti sulle condotte attuate dalle Big Tech e sui rispettivi modelli di business che hanno attirato l’attenzione delle autorità Antitrust, certamente non solo europee, bensì di tutto il mondo.

Negli USA, Google è ancora impegnato a rispondere all’ accusa antitrust nell’ambito della pubblicità programmatica. L’azione promossa da una coalizione di Stati guidati dal procuratore generale del Texas, il conservatore Ken Paxton, rappresenta l’ennesima mossa compiuta nel complesso scacchiere giudiziario (tre cause di cui due promosse in due giorni, inclusa una presentata ad ottobre dal Dipartimento di giustizia DOJ), in cui Google è impegnato a destreggiarsi – sebbene da diverse angolazioni e da distinte coalizioni di Stati e organi di governo – tra le diverse accuse di monopolio e pratiche di esclusione concorrenziale: dalla manipolazione della ricerca, alle collusioni per la vendita di tecnologia pubblicitaria.

Un procedimento che si pone in linea con gli attacchi bipartisan – sia negli Stati Uniti che in Europa – scagliati a suon di azioni legali contro i poteri privati dei colossi del web (Amazon, Apple, Facebook e Google) ed anche dell’importante e parallelo procedimento, promosso dalla Federal Trade Commission, nei confronti di Facebook (al momento coinvolto ma non indagato nella causa del Texas contro Google) accusato di abuso di posizione dominante a scapito della concorrenza.

Google viene ritenuto responsabile, tra le altre cose, anche di aver condotto un “accordo illegale”, risalente al 2018, che legherebbe il Golia della pubblicità e il gigante tecnologico suo rivale Facebook dando vita ad un’intesa piuttosto discutibile. Da una parte Google avrebbe potuto preservare il proprio dominio nel settore del programmatic advertising, e dall’altra Facebook avrebbe visto garantito, in cambio della promessa di non supportare alcun sistema pubblicitario concorrente, l’accesso a condizioni speciali nel mercato degli annunci on line. Il riferimento è alla pratica header bidding, un processo tecnologico impiegato nel programmatic che, sebbene automatizzato, consente spesso offerte su misura chiamate “markup” che si prestano a determinati tiri di vendita e accordi strategici discutibili.

Il nome del presunto accordo, emerso a grandi linee nelle delicate rivelazioni pubblicate su un articolo del Wall Street Journal a firma Ryan Tracy e John D. McKinnon (che avrebbe esaminato una versione non oscurata della causa), evoca atmosfere da “Star Wars”, a partire dal suo stesso nome: “Jedi Blue”.

Nel 2020, anche la Australian Competition and Consumer Commission (ACCC) ha avviato un’indagine sulla pubblicità digitale e il mercato dei servizi pubblicitari online, con un’attenzione particolare a Google e Facebook.

Nel 2021, la Competition and Markets Authority (CMA) del Regno Unito ha aperto un’indagine sul mercato della pubblicità digitale, sempre concentrandosi su Google e Facebook.

Le cose non vanno diversamente in Cina dove la stretta contro i poteri privati del web è serrata e rappresenta un fattore strategico e geopolitico considerato prioritario e cruciale.

Dal canto suo Bruxelles ha già colpito Google con multe per oltre 8 miliardi di euro in tre diversi casi antitrust[1], riguardanti il suo sistema operativo mobile Android e i servizi di shopping e search advertising. La società, come noto, ha impugnato tutte e tre le sanzioni.

Risale a maggio 2021 il provvedimento dell’AGCM, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in Italia, che ha sanzionato le società Alphabet Inc. (Holding di Google LLC), Google LLC e Google Italy S.r.l. per violazione dell’art. 102 del TFUE costringendole al pagamento di una multa di oltre 102 milioni di euro per abuso di posizione dominante relativamente all’accesso al mercato delle App.

A distanza di un solo mese, si pone sulla stessa scia l’Antitrust francese, che si è scagliato contro Google con una sanzione di 220 milioni di euro per abuso di posizione dominante nell’ambito però del digital advertisement.

Il Tribunale dell’UE[2] lo scorso anno ha leggermente ridotto la sanzione Android a 4,125 milioni di euro. Il 14 settembre 2022, con sentenza ECLI:EU:T:2022:541 confermando in larga parte la storica decisione Google Android della Commissione Europea del 18 luglio 2018.

Il ricorso[3] presentato da Google, rubricato come T-604/18, è stato sostanzialmente respinto e si è concluso con una modesta riduzione dell’importo della sanzione originariamente irrogata, fissandolo a 4,125 miliardi di euro: ciò tenuto conto di alcune specifiche circostanze del caso[4].

In particolare, la procedura sanzionatoria per comportamenti anticoncorrenziali del colosso americano era stata introdotta dalla Commissione europea nel 2015 e si era conclusa con una sanzione di €. 4,343 miliardi (la più onerosa sanzione antitrust mai comminata in Europa).

Google venne ritenuto responsabile di condotte anticoncorrenziali continuative tese a favorire restrizioni e vessazioni illegali a scapito dei produttori di dispositivi mobili Android e degli operatori di reti mobili. La violazione contestata si riferiva all’articolo 102 TFUE e all’articolo 54 dell’accordo sullo Spazio economico europeo (SEE): ovvero alla fattispecie nota come abuso di posizione dominante. Ai sensi del Diritto Antitrust europeo da una condizione di posizione dominante non scaturisce a priori una condotta di per sé vietata, bensì illegale solo se idonea a generare sfruttamento abusivo da parte dell’azienda del proprio potere economico derivante da tale posizione.

In pratica dunque le entità economiche che godono di tale posizione sono autorizzate a competere in base ai propri meriti come qualsiasi altra impresa, purché operino in ottemperanza del principio di correttezza leale tra imprenditori e di trasparenza del mercato, astenendosi dall’attuare comportamenti che possano pregiudicare il mercato degli altri Stati Membri con il risultato di falsare la concorrenza. L’applicazione dell’art. 102 prevede, infatti, la determinazione giudiziale di due step: il primo riguarda la qualifica della posizione dominante, il secondo l’accertamento dell’abuso.

Google non è solo; a fargli compagnia nella vasta prateria di accuse c’è anche Amazon, destinatario di varie comunicazioni, tra cui quella inviata il 10 novembre 2020 per conto della Commissione relativamente ad alcuni addebiti che lasciano intendere l’uso illegale dei dati in possesso dei venditori. Ed è stata la seconda accusa, sostenuta formalmente dalla Commissione UE, che si unisce alla precedente contestazione del luglio 2019 – caso n. AT.40462 – per la quale il gigante statunitense del retail online è stato sottoposto ad indagini per trattamenti preferenziali rivolti alle proprie offerte dettaglio e di quelle dei venditori presenti sul mercato che utilizzano i servizi di logistica e consegna. Il riferimento è alle famose opzioni “Offerta in evidenza – Buy Box” (che consente ai clienti di aggiungere articoli da un rivenditore specifico direttamente nei loro carrelli della spesa) e all’etichetta “Prime”, nell’ambito del programma fedeltà Prime di Amazon.

E non poteva mancare neppure Facebook che, lo scorso 4 giugno 2021, ha ricevuto la notizia di un’ulteriore indagine aperta dall’UE sulle possibili condotte anticoncorrenziali perpetrate dall’azienda di Zuckerberg.

Come l’Autorità Antitrust britannica anche la Commissione UE sta, inoltre, esaminando la regolarità dell’ accordo del 2018 fra Google e Facebook riguardante la pubblicità display online: Jedi Blue.

Le cose non vanno meglio per l’ecosistema Apple Inc., oggetto di numerosi reclami alcune dei quali sostenuti da sviluppatori software indipendenti – a partire dagli Stati Uniti con Epic Games(creatore del popolarissimo gioco battle royale “Fortnite” ), con il caso Apple v. Pepper e l’azione collettiva di Donald R. Cameron e Pure Sweat Basketball, Inc. contro Apple Inc. Oltre alle accuse dell’Unione europea principalmente legate alla sua App Store e alle politiche di distribuzione delle app.

L’inadeguatezza dell’attuale impianto normativo antitrust

Gli effetti anticoncorrenziali delle grandi aziende digitali e le ripercussioni in termini di pratiche di esclusione, abuso di posizione dominante, fusioni e acquisizioni che alterano il libero gioco della concorrenza, sono evidenti.

Il focus repressivo intrapreso, tuttavia, almeno in occidente e almeno per ora, non sembrerebbe destare particolari preoccupazioni ai colossi tecnologici del web.

Le recenti sanzioni dell’Antitrust contro i colossi digitali non sono bastate a contrastare le pratiche di concorrenza sleale adottate dalle grandi multinazionali tecnologiche e neppure sembrano intaccare le loro previsioni di guadagno.

La percezione di un’inconsistenza della risposta sanzionatoria è invero piuttosto evidente così come sempre più evidente è l’inadeguatezza dell’attuale impianto normativo antitrust.

Non solo tra gli economisti, ma anche tra le istituzioni politiche, aumentano i dubbi.

Le teorie economiche tradizionali risultano sempre più inadatte; la vaghezza delle norme del diritto Antitrust e i concetti indefiniti della disciplina della concorrenza mal si prestano, infatti, alle esigenze di giustizia e benessere sociale derivanti dallo sviluppo di un’economia digitale data-driven. Sharing Economy.

Ovvero approcci ancora fortemente legati alla teoria dei prezzi e del “benessere dei consumatori”, misurabili negli effetti a breve termine ma, del tutto disallineati, tanto in America[5] quanto in Europa rispetto alle architetture del potere di mercato dell’economia moderna.

“Con il suo zelo missionario per i consumatori, Amazon ha marciato verso il monopolio cantando la melodia dell’Antitrust contemporaneo” scrive Lina Khan[6].

Di fronte alla complessità crescente della società del XXI secolo sembra proprio che le attuali regole, poste a tutela del pluralismo e della difesa dei diritti fondamentali, entrino pesantemente in crisi.

Le leggi antitrust soggette a interpretazioni diverse contribuiscono all’incertezza sulle condotte proibite e sulle modalità di applicazione delle norme. I poteri privati sfruttano queste ambiguità: le peculiarità e le problematiche insite nella data economy, caratterizzata dalla valorizzazione dei dati, si legano a filo doppio al potere di mercato delle realtà tecnologiche dominanti le quali, con troppa disinvoltura, continuano ad abusare delle rispettive posizioni di mercato a diretto discapito del libero gioco della concorrenza.

Inoltre, casi antitrust richiedono tempo, risorse e competenze legali e investigative significative per essere adeguatamente affrontati, mentre le autorità antitrust spesso dispongono di risorse limitate e una gran quantità di casi da gestire. Tanto rallenta i processi decisionali e limita la capacità di contrastare efficacemente i poteri privati.

L’evoluzione tecnologica rapida e i nuovi modelli di business facilmente superano le norme antitrust esistenti attraverso strategie innovative e approcci commerciali che possono non essere pienamente coperti dalle stesse. Ciò rende difficile per le autorità regolamentari adattarsi rapidamente ai nuovi sviluppi e affrontarne le responsabilità.

Non ultimo, le grandi industrie tecnologiche operano a livello globale e le violazioni antitrust possono coinvolgere giurisdizioni multiple. La cooperazione tra diverse autorità di regolamentazione antitrust non sempre si rivela performante e in ogni caso richiede tempo per raggiungere un consenso e un’azione coordinata.

Queste sono solo alcune delle ragioni che possono contribuire alla percezione di inefficacia dell’attuale normativa antitrust nei confronti dei poteri privati.

La possibilità di un business etico si conferma dunque impossibile?

Conclusioni

Per comprendere cosa significherà la tecnologia per il futuro della società, del diritto e della rete stessa, sarà necessario un esame attento del modo in cui la progettazione delle tecnologie dell’informazione e della raccolta dei dati all’interno dei modelli di business dei giganti del web riflettono e riproducono la nuova dimensione del potere economico e politico. E come questi siano destinati ad incidere nella sostanza e nell’interpretazione delle garanzie legali fondamentali, intese come presidi giuridici all’interno dei quali vengono definiti i diritti, le libertà, gli obblighi e le modalità con cui vengono applicati.

L’evolversi delle relazioni, in uno spazio che non è fisico bensì digitale, rende inadeguata una visione non armonica delle condotte attuate in violazione delle norme poste a tutela della concorrenza sui mercati economici come della protezione dei dati e dei diritti e delle libertà fondamentali.

Presidiare un tale “territorio” si sta rivelando alquanto difficile: alla crisi di fiducia verso le istituzioni, rivelatesi molto spesso interpreti in affanno e poco efficaci verso i continui cambiamenti prescritti dall’evoluzione digitale, fa eco il ritardo maturato nel percorso legislativo verso la definizione delle giuste cornici normative.

Nel frattempo, i nodi irrisolti vengono affrontati a livello giurisprudenziale e gli abusi di posizione dominante sanzionabili erosi in varie occasioni dalle Corti e dalle Autorità.

Tanto non si dimostra però proficuo con le istanze promosse dall’economia dei dati e da una società digitale in costante evoluzione.

Per questo le pur giuste inchieste condotte dalla Commissione dovranno quanto prima convergere con i quadri regolatori, in particolare quelli di recente introduzione. Il Digital Markets Act per cominciare.

Note

  1. La Commissione UE, il 27 giugno 2017, aveva già sanzionato Google con un’ammenda di 2,42 miliardi di euro in relazione alle condotte illegali riconducibili al proprio servizio di shopping comparativo. Il caso Google Search Shopping è il primo, in ordine cronologico, facente capo a Google. Ha riguardato il mercato europeo dei servizi di acquisti comparativi all’interno del quale Google si è inserito nel 2004 con il motore di ricerca “Froogle”, in seguito rinominato “Google Shopping”. Il 20 marzo 2019 l’UE ha inflitto a Google un’altra multa di 1,49 miliardi di euro per abusi nella settore della pubblicità online: AdSense, la piattaforma di intermediazione pubblicitaria online, gestita da Google sin dal 2003, che fornisce annunci Google su siti web terzi, c.d. “editori”. Tutte decisioni della Commissione per le quali Google e Alphabet hanno sempre presentato ricorso in via principale presso la Corte di Giustizia Europea.
  2. Il Tribunale annulla solo la parte relativa all’abuso riconducibile alle cosiddette RSA (R evenue Share Agreements ): si tratta di accordi tra Google e produttori di hardware o operatori di telefonia mobile per condividere i ricavi generati dalla pubblicità di ricerca di Google su dispositivi specifici o un portafoglio di dispositivi. Tale revisione non ha tuttavia conseguenze pratiche dirette stante che Google aveva già smesso di utilizzare questo tipo di revenue nel marzo 2014.
  3. Il ricorso proposto da Google è stato quindi essenzialmente respinto dal Tribunale, il quale si limita ad annullare la decisione soltanto nella parte in cui essa constata che gli accordi di ripartizione del fatturato per portafoglio costituirebbero, di per se stessi, un abuso. Contro la decisione del Tribunale, entro due mesi e dieci giorni a decorrere dalla data della sua notifica, può essere proposta dinanzi alla Corte un’impugnazione, limitata alle questioni di diritto. Nel giugno 2017, la Commissione aveva già inflitto a Google un’ammenda pari a euro 2,42 miliardi per aver abusato della sua posizione dominante sul mercato dei motori di ricerca, attribuendo un vantaggio illecito al proprio servizio di confronto dei prezzi. Questa decisione è stata convalidata essenzialmente dal Tribunale con sentenza del 10 novembre 2021, Google e Alphabet/Commissione (Google Shopping), T-612/17 (v. anche il comunicato stampa n. 197/21). L’impugnazione proposta da Google avverso tale sentenza è attualmente pendente dinanzi alla Corte (C-48/22 P).
  4. Le restrizioni esaminate nel giudizio sono state di tre ordini:− in primo luogo, quelle inserite negli «accordi di distribuzione», che impongono ai produttori di dispositivi mobili di preinstallare le applicazioni di ricerca generica (Google Search) e di navigazione (Chrome) per poter ottenere da Google una licenza operativa per il suo portale di vendita (Play Store);− in secondo luogo, quelle inserite negli «accordi antiframmentazione», che condizionano la concessione delle licenze operative necessarie alla preinstallazione delle applicazioni Google Search e Play Store da parte dei produttori di dispositivi mobili all’impegno di questi ultimi ad astenersi dal vendere dispositivi equipaggiati con versioni del sistema operativo Android senza l’approvazione di Google;− in terzo luogo, quelle inserite negli «accordi di ripartizione del fatturato», che subordinano il rimborso di una parte degli introiti pubblicitari di Google ai produttori di dispositivi mobili e agli operatori di reti mobili interessati all’impegno, da parte di questi ultimi, a rinunciare alla preinstallazione di un servizio di ricerca generica concorrente su un portafoglio predeterminato di dispositivi. Crf Decisione C(2018) 4761 della Commissione, del 18 luglio 2018, relativa al procedimento a norma dell’articolo 102 TFUE e dell’articolo 54 dell’accordo SEE (caso AT.40099 – Google Android)
  5. Sul versante USA il Diritto Antitrust è caratterizzato dalla presenza di due agenzie che forniscono un doppio binario di tutela, la FTC- Federal Trade Commission ( autorità amministrativa indipendente) e l’Antitrust Division del DOJ (vicina al potere esecutivo), e dove il principale strumento di tutela contro le pratiche concorrenziali è, inoltre, attribuito al c.d. private enforcement, strumento posto a garanzia dell’iniziativa privata dei consumatori dinanzi ai giudici ordinari contro le violazioni antitrust – a quasi cinque anni dallo scandalo Cambridge Analytica – i quadri regolatori vigenti si rivelano piuttosto deboli se non incapaci di incidere positivamente sulla governance dei poteri privati forti ai vertici dello spazio digitale. Il riferimento è in particolare diretto alla disciplina Antitrust che, come noto, negli USA è stabilita in tre atti risalenti alla fine del XIX e primi del Novecento: lo Sherman Act del 1890, il Federal Trade Commission Act e il Clayton Act. La tanto attesa revisione del Diritto Antitrust si rivela infatti il grande assente della scena politica americana. E ciò, sebbene non siano mancati diversi progetti di legge, alcuni addirittura presentati con supporto bipartisan[5], come l’American Innovation and Choice Online Act della senatrice Amy Klobuchar e l’Open App Markets Act di Richard Blumenthal e Marsha Blackburn. Pesa sugli stessi la sofistica attività di lobbying sostenuta dalle multinazionali tecnologiche anche se rimane da vedere quanto la stessa sarà, infine, in grado di impattare sull’iter di approvazione delle varie proposte.
  6. Merita di essere richiamato l’articolo capolavoro di Lina Khan (dal giugno 2021 Presidente della Federal Trade Commission degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Biden) “Amazon’s Antitrust Paradox”, insignito nel 2018 dall’ Antitrust Writing Award come “Best Academic Unilateral Conduct Article”, dove viene offerta una visione esauriente e chiara dell’evidente inadeguatezza delle logiche sottese alle normative antitrust attualmente vigenti.

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