Con i primi anni 2000 e il lancio di The Pirate Bay, l’industria musicale è stata forse la prima a subire in maniera tanto massiccia quanto inaspettata l’avvento del digitale. Con esso si è quindi dovuta adattare, non senza significativi danni economici, ad un cambio repentino del modello di business, imposto dallo sviluppo tecnologico e dalla pirateria dilagante. Imparata quella lezione, con la nuova rivoluzione tecnologica dell’AI, il comparto musicale si sta dimostrando plasmabile e poco interessato a iniziare battaglie contro i mulini a vento.
Ciò non toglie, tuttavia, che gli effetti nel lungo termine dell’AI potrebbero essere dirompenti nel delicato e complesso ecosistema musicale, non solo per gli artisti, ma per tutti i soggetti in gioco. Tra questi ci sono anche le piattaforme di streaming, nate per l’appunto dalla crisi del primo decennio del 2000.
Il ruolo delle piattaforme di streaming nel panorama musicale
Negli ultimi anni, infatti, le piattaforme di streaming hanno giocato un ruolo fondamentale nel ridefinire il panorama dell’industria musicale, offrendo agli ascoltatori un accesso senza precedenti alla musica e agli artisti un nuovo modo di raggiungere il loro pubblico. Queste piattaforme offrono agli utenti un’ampia gamma di brani e album disponibili istantaneamente su diversi dispositivi. Grazie a questo accesso immediato e pratico alla musica, gli ascoltatori generalmente hanno la possibilità di creare proprie playlist, con i rispettivi brani preferiti, ma anche di esplorare nuovi generi, artisti e brani con una facilità senza precedenti, grazie ad algoritmi già sofisticatissimi.
Il ruolo delle piattaforme di streaming va, però, oltre il semplice consumo di musica. Esse hanno anche cambiato il modo in cui gli artisti e le case discografiche promuovono e distribuiscono i propri prodotti. Con circa 120.000 nuove tracce pubblicate quotidianamente sulle varie piattaforme, viene da sé che il mercato musicale è molto saturo e che il successo di un brano passa in larga parte dalla strategia promozionale, dal suo inserimento all’interno di playlist e, soprattutto, dal fatto di venire individuato dagli algoritmi di raccomandazione e inglobato in playlist create dalla piattaforma stessa.
Quando si parla di successo del brano è poi fondamentale tenere in considerazione che il successo in termini di ascolti è correlato – più o meno direttamente, trattandosi di modelli di revenues piuttosto complessi – alle royalties generate. Più un brano viene riprodotto frequentemente dagli utenti sulla piattaforma, maggiori sono le royalties che artisti, editori ed etichette discografiche ricevono.
Occorre poi considerare che negli ultimi anni alcune piattaforme di streaming musicale hanno espanso il portafoglio di prodotti offerti a podcast e audiolibri: anche questi sono prodotti che potrebbero subire di cambiamenti con l’avvento dell’AI.
AI e piattaforme di streaming: casi d’uso
Ad oggi sono in commercio svariati software che consentono agli utenti di generare brani musicali grazie a sistemi di AI. Addirittura, si stanno sviluppando a macchia d’olio società e start-up il cui oggetto principale è proprio la creazione di musica con AI generativa, musica che viene poi immessa sulle piattaforme di streaming o integrata sui maggiori social network.
Nel maggio del 2023 una delle più note piattaforme di streaming musicale si è trovata a dover rimuovere dalla propria libreria decine di migliaia di canzoni caricate da Boomy, start-up musicale californiana. Questo intervento era stato richiesto da Universal Music Group che, secondo la ricostruzione del Financial Times, aveva segnalato a tutte le principali piattaforme la presenza di attività di streaming sospette sui brani di Boomy. In altri termini, gli ascolti dei brani sarebbero stati “dopati” da bot che si fingevano ascoltatori umani, così gonfiandone artificialmente le performance.
La stessa major, nell’aprile dello stesso anno, aveva richiesto ai vari servizi di streaming musicale di attivarsi per impedire lo scraping del proprio catalogo agli sviluppatori che lo usano nei processi di training delle tecnologie di AI. Parallelamente, la major aveva inoltrato un numero consistente di richieste di rimozione in relazione agli upload di canzoni generate da AI disponibili sulle piattaforme.
Uno dei casi che ha riscosso maggior clamore è stata la creazione del brano “Heart On My Sleeve“, apparente collaborazione musicale tra Drake e The Weeknd, diventato virale sui social e realizzato in maniera totalmente artificiale, clonando le voci dei due artisti.
Se da un lato le piattaforme di streaming subiscono il moltiplicarsi di canzoni generate da AI e in certi casi devono attivarsi per arginare la loro diffusione (quando ad esempio questa viola diritti d’autore o di immagine di terzi), dall’altro lato stanno a loro volta sperimentando i vantaggi che possono derivare da questa tecnologia.
L’obiettivo principale delle piattaforme è infatti quello di rendere il più piacevole possibile l’attività di ascolto dei propri utenti, offrendo servizi migliori agli abbonati premium, così da convertire a tale servizio il maggior numero di utenti, posto che sono proprio gli abbonamenti a rappresentare la maggior parte delle loro entrate. Per farlo, questi player stanno utilizzando l’AI per creare nuove funzionalità, ossia algoritmi che conoscono sempre meglio i gusti musicali degli utenti e riescono a scegliere, tra i milioni di contenuti disponibili, quelli che potrebbero piacere a chi ascolta o addirittura creare playlist personalizzate sulla base di prompt inseriti dall’utente.
Algoritmi di questo tipo possono essere utilizzati anche per le raccomandazioni di altri contenuti, come audiolibri e podcast. In questo contesto, l’AI può essere utilizzata anche per generare automaticamente trascrizioni dei podcast, facilitando la ricerca di contenuti specifici all’interno degli episodi e rendendo i podcast accessibili a persone con disabilità uditive. Ancora, l’AI potrebbe consentire di tradurre immediatamente podcast stranieri in italiano o italiani in altre lingue, mantenendo la medesima voce narrante o scegliendo la voce di un personaggio famoso.
A tal proposito, abbiamo raccolto il punto di vista di Maddalena Bernardi, Senior Legal Manager di Chora Media, secondo cui “ad oggi tradurre un podcast italiano in un’altra lingua, ad esempio in cinese, comporterebbe mettere in campo risorse significative, trovare un traduttore per rendere lo script in cinese e un host madrelingua che sia in grado di recitare il podcast in un modo coerente con la versione italiana, in termini di timbro, pause, eccetera. L’AI in linea teorica potrebbe velocizzare enormemente questi passaggi, perché in un attimo non solo si potrebbe ottenere uno script, ma anche una registrazione vocale che utilizza la medesima voce e il medesimo timbro dell’host italiano. Per il momento si tratta però di potenzialità solo teoriche, sia perché lo sviluppo tecnico non consente ancora di ottenere risultati soddisfacenti, sia per ragioni etiche. In Chora Media c’è un’attenzione sartoriale per ogni aspetto della produzione, che quindi richiede necessariamente una componente “umana” ed è proprio quest’ultima, cioè le persone, che vogliamo valorizzare. Del resto, occorre tener presente che gli utenti ascoltano i posdcast non solo per il contenuto, ma anche per la persona che c’è dietro il microfono: un podcast generato da AI non potrebbe generare lo stesso risultato”.
Inoltre, se in futuro si iniziasse a utilizzare l’IA per tradurre i podcast, ci sarebbe certamente una riduzione parziale dei costi, ma l’operazione non sarebbe a costo zero. Si renderebbe comunque necessario ottenere i diritti dagli autori del podcast per la traduzione e dall’host per l’utilizzo della sua voce anche nelle versioni straniere, ciò che comporterebbe un adeguamento del compenso per tali utilizzi, che deve essere sempre “adeguato e proporzionato” (cfr. artt. 107 e ss. della Legge sul Diritto d’Autore). Inoltre, secondo Maddalena Bernardi “l’adeguamento peraltro andrebbe valutato caso per caso: ci sono voci che hanno un particolare appeal o personaggi che hanno un vasto seguito non solo in Italia. In questi casi, l’utilizzo di quella specifica voce per creare un podcast in un’altra lingua dovrebbe essere valorizzato. Certo, se si aprisse questo scenario, ci sarebbero moltissime attività da contrattualizzare”.
Input e output: che responsabilità per le piattaforme di streaming?
Oltre agli innegabili aspetti positivi, questa tecnologia porta con sé alcune problematiche legali, relative sia ai set di dati sui quali viene addestrata l’AI, sia agli output da questa generati.
La prima questione riguarda il sistema di training dell’AI, che per creare nuove canzoni e contenuti analizza, immagazzina e rielabora enormi quantità di dati. In abito musicale, questi dati si traducono in centinaia di migliaia di brani, che vengono “ascoltati” dai sistemi di AI per poter generare nuova musica.
La legittimità di questi training passa necessariamente per l’applicabilità delle eccezioni relative al cd. text and data mining (TDM), disciplinate agli articoli 3 e 4 della Direttiva Copyright 2019/790/UE, recepiti in Italia con l’introduzione degli articoli 70-ter e 70-quarter della Legge sul Diritto d’Autore. La seconda eccezione, disciplinata dall’art. 70-quater, è quella più rilevante in questo contesto perché consente l’attività di mining anche a scopo di lucro, a condizione che:
- chi effettua l’attività di mining abbia legittimamente accesso a tali contenuti e
- l’utilizzo delle opere e degli altri materiali non sia stato espressamente riservato dai titolari del diritto d’autore e dei diritti connessi nonché dai titolari delle banche dati, attraverso modalità adeguate, ad esempio con mezzi a lettura automatica nel caso di contenuti diffusi online (cfr. articolo 4, para 3 della Direttiva Copyright).
Da ciò discende che se le piattaforme di streaming intendono – propria sponte o su richiesta della major – escludere la possibilità per i sistemi di AI di allenarsi sui propri database, queste devono implementare misure legali (ad esempio, termini e condizioni) e tecniche (strumenti di lettura automatizzata) adeguate.
Quanto poi agli output, ossia ai contenuti generati dall’AI e diffusi sulle piattaforme di streaming, questi potrebbero in ipotesi essere stati creati violando diritti di terzi, dai diritti sui database musicali, al diritto d’autore dell’opera originaria da cui è tratto il nuovo brano, ai diritti della personalità sulla voce dell’artista coniata dall’AI. In questi casi i titolari dei diritti possono agire anche indipendentemente dalle piattaforme, ma molto spesso affinché l’azione sia rapida ed efficace è necessaria la collaborazione di queste ultime.
Il ruolo di fondamentale intermediario che ricoprono le piattaforme è stato riconosciuto dal legislatore europeo, che con il Digital Services Act, direttamente applicabile in tutti gli Stati Membri dallo scorso 17 febbraio, ha voluto introdurre obblighi proporzionati alla dimensione della piattaforma, inquadrare i rischi sistemici e rendere lo spazio online più sicuro.
In questo contesto, le piattaforme di streaming gestiscono una serie di servizi che rientrano nell’ambito di applicazione del DSA e sono quindi soggette, a seconda della dimensione e delle caratteristiche, agli obblighi ivi previsti, tra cui l’implementazione di procedure per la segnalazione dei contenuti illegali, che costituiscono ad oggi il canale più rapido per utenti o ai titolari dei diritti per segnalare violazioni.
Deepfake e ascolti falsi: concorrenza sleale?
Come accennato, uno dei temi che preoccupano maggiormente artisti e discografiche è la possibilità di generare canzoni sound-alike, ossia canzoni e playlist che riprendano lo stile di questo o quel cantante. In questo senso, i titolari dei diritti d’autore potrebbero in ipotesi agire per concorrenza sleale, posto che – anche a prescindere dalla violazione di tali diritti – si potrebbe sostenere che gli ascolti generati dalle canzoni “artificiali” confondono il pubblico e falsano la concorrenza deviando gli ascolti da canzoni e playlist del cantante in carne ed ossa a quelle create da AI. In questo contesto, le piattaforme potrebbero essere chiamate in causa qualora, ad esempio, i loro algoritmi qualifichino erroneamente le canzoni “artificiali” come brani provenienti dall’artista, inserendole dunque all’interno di playlist specifiche e contribuendo, anche indirettamente, a generare ascolti per la canzone sound-alike.
Ancor più problematica è la diffusione di audio e video falsi che sembrano autentici (cd. deepfake), realizzati tramite manipolazione da parte di sistemi di AI di performance live o della voce degli artisti. Oltre al tema degli ascolti “deviati”, la diffusione di questi prodotti sulle piattaforme potrebbe minare la fiducia del pubblico sulla genuinità delle opere musicali e sulla credibilità degli artisti, che potrebbero a loro volta chiedere alle piattaforme di avere un ruolo collaborativo nell’identificazione di contenuti falsi, o comunque chiedere di rimuovere tali contenuti con tempistiche molto rapide.
In quest’ottica, preme ricordare che, almeno nell’Unione Europea, l’AI Act imporrà di indicare chiaramente quando un contenuto è stato generato da AI, con l’effetto che ove ciò non avvenisse, la piattaforma potrebbe rimuovere il contenuto perché non correttamente etichettato e dunque non conforme alla normativa (sia a valle di segnalazioni di terzi sia direttamente).
Un’ulteriore pratica illecita che potrebbe trovare terreno fertile nello sviluppo di sistemi di AI è la cd. streaming fraud, ossia l’atto di gonfiare artificialmente gli ascolti e i follower al fine di generare ricavi o manipolare la popolarità del lancio di un certo contenuto nelle classifiche, nelle playlist o nei risultati di ricerca. La diffusione di ascolti falsi generati da sistemi di AI su piattaforme di streaming musicale presenta rischi significativi non solo distorce le metriche di successo delle canzoni, ma può anche influenzare in maniera errata le decisioni di promozione e di finanziamento da parte delle piattaforme stesse. Diventerà quindi fondamentale per le piattaforme rafforzare i sistemi già in essere per individuare ascolti falsi generati da bot o programmi automatizzati ed intervenire per eliminarne gli effetti.
Il futuro dell’AI sulle piattaforme di streaming (e non solo)
L’introduzione dell’intelligenza artificiale nelle dinamiche delle piattaforme di streaming musicale è un fenomeno che solleva profonde riflessioni sulle delicate bilance finanziarie che regolano il compenso degli artisti. Gli algoritmi alimentati ad AI potrebbero infatti agevolmente generare playlist di musica d’ambiente o le classiche playlist di “musica per concentrarsi” e “musica per studiare”. Diventerà poi cruciale l’inclusione dei brani nelle raccomandazioni della piattaforma, specialmente per gli artisti emergenti, la cui visibilità e, di conseguenza, le entrate, dipendono fortemente da tali meccanismi. Parallelamente, emergono rischi legati alla responsabilità delle piattaforme, sia nel caso di violazioni dei diritti d’autore da parte di brani generati da AI, sia nell’eventualità di attività di scraping non autorizzate.
Quanto ai podcast, secondo Maddalena Bernardi “l’AI può sicuramente velocizzare certi processi, ma per il momento gli output dell’AI non possono sostituire nessun apporto umano. Basta considerare il sound design, che per noi è centrale: la sigla del podcast “Dove Nessuno Guarda” non riprende semplicemente il tema di Per Elisa, ma i nostri sound designer lo hanno rielaborato in modo da renderlo un brano nuovo, coerente con la narrazione, mantenendo però due note della canzone originale affinché fosse riconoscibile. Al momento questo tipo di lavoro è difficilmente sostituibile dall’AI. Ciò non toglie che per realtà diverse o podcast in cui, per contenuto o linea editoriale, il sound design è meno rilevante, l’AI potrebbe invece essere molto utile”.
Quali che siano gli usi dell’AI, di certo gli utilizzatori dei sistemi di AI saranno fortemente impattati dall’AI Act, che introduce un quadro normativo che classifica i sistemi di intelligenza artificiale in quattro livelli di rischio: rischio inaccettabile, alto rischio, rischio limitato e rischio minimo. Questa classificazione basata sul rischio determina in modo significativo i requisiti normativi e gli obblighi che le piattaforme di streaming devono soddisfare. Comunemente, le applicazioni AI su queste piattaforme, come la raccomandazione dei contenuti, la personalizzazione o la moderazione, sono considerate all’interno della categoria di rischio minimo. Tuttavia, data la varietà degli impieghi dell’AI, è essenziale che le piattaforme di streaming valutino attentamente ogni caso d’uso, riconoscendo che determinate implementazioni dell’AI potrebbero rientrare in categorie di rischio più elevate, imponendo così obblighi aggiuntivi.
In particolare, nei casi in cui l’AI è impiegata per l’interazione diretta con l’utente, come nei chatbot o assistenti virtuali, le piattaforme di streaming sono tenute a rispettare specifici obblighi di trasparenza. Questi obblighi esigono che le piattaforme informino chiaramente gli utenti quando stanno interagendo con un sistema guidato dall’AI. Sebbene l’AI Act richieda un controllo umano e l’istituzione di sistemi di gestione del rischio principalmente per sistemi di AI classificati al di fuori del rischio minimo, esso promuove un approccio proattivo alla conformità per tutte le funzionalità dell’AI, sottolineando la necessità per gli operatori di effettuare valutazioni del rischio rigorose.
Conclusioni
In conclusione, le piattaforme di streaming che adoperano sistemi di AI, a seconda della tipologia e uso specifico dei sistemi, potrebbero essere soggette ad obblighi specifici, quali quelli di istituire solidi framework di gestione del rischio, predisporre documentazione accurata e istituire protocolli rigorosi di governance dei dati per assicurarsi l’allineamento con le disposizioni dell’AI Act, garantendo così l’aderenza legale, etica e tecnica e rafforzando la fiducia e la sicurezza degli utenti nelle interazioni guidate dall’AI.