regolamenti europei

Strategia Ue sui dati: il problema del “doppio giudicato” nel DMA e altri dubbi sul pacchetto

È alto il rischio che il DMA possa comportare doppi giudicati e creare confusione all’interno di un mercato che dovrebbe tendere ad una certa uniformità di regole e sanzioni. Il DSA sembra invece non riuscire a convincere del tutto gli operatori giuridici circa l’efficacia repressiva delle condotte illecite. Il punto

Pubblicato il 21 Lug 2022

Lorenzo Quadrini

Legal Counsel - Privacy presso Aris

bandiere ue italia

Con il Digital Markets Act (DMA) e il Digital Services Act (DSA), la Ue sta compiendo un grande sforzo politico e normativo verso un mercato digitale all’insegna di regole di concorrenza e di tutela della privacy più incisive.

Ma tra gli addetti ai lavori circolano molti dubbi su questo pacchetto di norme, in particolare riguardo l’efficacia degli impianti sanzionatori, il rischio di doppio giudicato (ne bis in idem) e la convivenza con le normative antitrust già in vigore in Europa.

Prende forma la strategia europea sui dati, ecco l’importanza di DSA e DMA

DSA e DMA, i punti chiave dei due Regolamenti

Prima di entrare nel vivo della trattazione è necessario ricordare al lettore alcuni punti chiave dei due Regolamenti, DMA e DSA. Innanzitutto, la loro natura, appunto, di Regolamento e non di Direttiva. Come noto, quest’ultima necessita di un comportamento “attivo” da parte del Paese europeo recepente, il quale si assume l’onere di inserire la stessa all’interno dell’ordinamento. Il Regolamento, invece, è direttamente applicabile, spiegando i suoi effetti in maniera immediata all’interno dei sistemi di diritto dei membri UE. Come noto, anche un Regolamento può essere integrato all’interno dell’ordinamento di ogni singolo Stato, favorendo una maggiore sinergia tra le normative nazionali e la subentrante normativa europea (è il caso, per esempio, del GDPR e dell’ancora in vigore codice della Privacy nel quale il primo è tecnicamente confluito).

I due fronti contrapposti del dibattito

Il DSA si pone il chiaro obiettivo di responsabilizzare i fornitori dei servizi di hosting, oggi da parte della dottrina definiti come servizi di hosting 2.0, stante la loro capacità non solo di immagazzinare e mettere a disposizione i dati degli utenti, ma anche di affinare la loro ricerca e le diverse interazioni tra fruitori.

Il dibattito italiano, almeno prima del Digital Services Act, ha visto due “fronti” contrapposti: un primo orientamento strettamente collegato alla lettera normativa dell’art. 16 della Direttiva 2000/31 CE (c.d. “direttiva e-commerce”), sostenente l’esenzione di responsabilità per i fornitori dei servizi hosting dei contenuti inseriti dagli utenti; un secondo diametralmente opposto, forte anche di una più recente giurisprudenza della Corte di giustizia europea – la quale pur non avendo rivoluzionato l’interpretazione dell’art. 16 ha iniziato a gettare le basi per alcuni dei concetti riproposti dal DSA.

DSA, un apparato sanzionatorio severo ma nebuloso

In maniera più critica, si sottolinea la presenza di un apparato sanzionatorio severo, ma nebuloso nella sua configurazione attuale. L’articolo 42 consegna la responsabilità del quantum in materia di sanzioni direttamente agli Stati Membri. Un approccio seguito già varie volte dal legislatore europeo, che può comportare un ingiustificato allungamento delle tempistiche di armonizzazione delle legislazioni comunitarie, le quali dovrebbero, gioco forza, risultare compatte nel fronteggiare le irregolarità paventate dal DSA. Ancora, gli articoli 59 e 60 si riferiscono direttamente alle piattaforme online di “dimensioni molto grandi”, senza dare indicazioni troppo precise su come identificare l’effettiva mole della piattaforma, nonché i presupposti qualificanti tale definizione (struttura, volume di utenza, locazione dei server, ecc.).

L’impianto sanzionatorio del DMA

Passando al Digital Market Act, si tratta senza dubbio della proposta maggiormente analizzata all’interno di questo “doppio pacchetto”. Il motivo è dato non tanto da una valutazione qualitativa tra i due, riferendosi a settori tangenti ma certo non sovrapponibili, quanto dalla mole delle imprese sotto la lente del DMA. Quest’ultimo concentra la sua forza innovatrice sulle aziende gatekeeper, ossia su tutte quelle imprese capaci di assumere posizioni di rilievo all’interno del mercato, tali da poter sollevare barriere di ingresso per le nuove aziende. Ovviamente la proposta normativa si indirizza, nomen omen, ai mercati digitali (messaggistica, social network, streaming, ecc.), pur se distinti e notevolmente differenti tra loro. L’obiettivo è quello di impedire l’adozione di comportamenti anticompetitivi, lesivi della concorrenza e anticoncorrenziali attraverso l’adozione di regole preventive, che possano quindi aiutare il mercato ad assestarsi su posizioni d’entrata ben definite, nonché concorrenzialmente corrette.

Dal punto di vista sanzionatorio il DMA introduce misure di rigore, come stabilito dall’art. 26 Ammende, il quale enuncia una serie di situazioni, mancanze e violazioni che possono comportare, su propulsione dell’Autorità, sanzioni dal 1% fino ad un massimo del 10% del fatturato totale dell’azienda all’interno dell’esercizio solare. Numeri immensi, nonché necessari per poter rendere efficaci le disposizioni della normativa in questione, la quale riferendosi ai colossi del settore ha bisogno di strumenti che possano seriamente impensierirli.

La convivenza tra DMA e normativa Ue antitrust

Si presenta a questo punto dell’analisi un problema circa la sussistenza della normativa del DMA e la già presente normativa europea antitrust. Come noto, l’Unione Europea è da sempre molto attenta al monitoraggio ed all’intervento all’interno del mercato unico, con l’obiettivo di eliminare e correggere le storture economiche che possono crearsi per colpa di manovre aggressive o delle ingerenze anticoncorrenziali dei grandi gruppi d’impresa. In tal senso sono di fondamentale importanza gli articoli 101 e 102 del trattato sul funzionamento dell’UE (“TFUE”) vietano varie pratiche anticoncorrenziali. In base all’articolo 103 il Consiglio europeo può stabilire un sistema di applicazione che preveda anche l’imposizione di ammende. Il regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio conferma tale approccio, contribuendo a creare una vera e propria impalcatura di misure antitrust, che colpiscono, analogamente al DMA, con multe che arrivano ad un massimo del 10% del fatturato totale, attraverso numerose valutazioni caso per caso circa la recidività o meno dell’azienda (oltre all’aggravio in caso di mora).

Il problema del doppio giudicato (ne bis in idem)

Se dal punto di vista meramente economico le sanzioni antitrust e le sanzioni del DMA sono sovrapponibili, ci si deve porre il problema se le stesse lo siano anche da un punto di vista giuridico. Un interrogativo non solo formale, ma anche sostanziale, nel momento in cui ben si potrebbe arrivare a parlare di doppio giudicato.

Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio: i paletti della Corte costituzionale

Si parla di doppio giudicato, o meglio ancora di divieto di doppio giudicato (ne bis in idem) nel momento in cui si presentino due distinte statuizioni del Giudice, o dell’Autorità nel caso di antitrust e privacy, riferite però alla stessa situazione fattuale. In linea generale questo fenomeno si verifica soprattutto nel momento in cui diverse legislazioni o diverse norme, intrecciandosi, colpiscono fattispecie formalmente separate (tali, comunque, da aver azionato distinti giudicati) ma sostanzialmente circoscritte alla stessa serie di eventi. Nel contesto penale, il divieto di doppio giudicato rappresenta un caposaldo del diritto, a partire dall’articolo 649 c.p.p., passando per numerosi arresti della Corte costituzionale, arrivando infine all’art. 4 protocollo 7 aggiuntivo della CEDU. Un principio quindi, pur nella sua non sempre agevole individuazione, inamovibile dei sistemi giuridici europei. Questa inamovibilità, però, non si riscontra con la stessa enfasi al di fuori del diritto penale e della tutela della persona fisica nei confronti delle eventuali storture dei sistemi giudiziari.

In particolare, la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, in materia di ne bis in idem ha delineato tre requisiti per poter parlare di doppio giudicato:

  • identità del fatto
  • identità del contravventore
  • unicità dell’interesse giuridico tutelato dalle norme di cui si lamenta la violazione.

Risulta evidente che il nodo principale da sciogliere, al netto dell’identità fattuale e dell’identità del “reo”, è proprio quello dell’interesse giuridico tutelato ossia del contesto normativo e sociale entro cui l’evento lesivo si pone e spiega i suoi effetti negativi. In altre parole, la Corte precisa che uno stesso evento ed uno stesso contravventore, ben potrebbero spiegare effetti lesivi sia per la materia antitrust, che per la materia privacy, ecc. Certo, questa elucubrazione logica è presente anche nel diritto penale, pur se con statistiche nettamente inferiori ed interpretazioni più votate al cosiddetto assorbimento delle fattispecie.

Il punto di domanda più importante riguardo i ragionamenti della Corte, intercorsi durante una serie di sentenze tutte in linea con questo processo evolutivo, è però capire se la presenza di due normative antitrust, una europea ed una nazionale, siano concorrentemente applicabili oppure no. La Corte ha invero già risposto affermativamente a riguardo, permettendo un’applicazione duplice del diritto antitrust UE, assieme a quello interno di ogni Stato membro. Un’interpretazione data alla luce della paventata differenza di tutele e interessi che intercorrono tra gli ordinamenti in parola e le rispettive scelte normative in materia di concorrenza. A questo si aggiunge addirittura la possibilità, stante la diversa concettualizzazione di interesse giuridico, di attribuire alla stessa condotta lesioni antitrust rispetto al TFUE, nonché lesioni antitrust rispetto al DMA.

Questa applicazione “morbida” del ne bis in idem, giustificata anche dalla distinzione tra diritto penale – all’interno del quale si parla di vero e proprio diritto fondamentale – e diritto antitrust, ove l’evento sanzionato rappresenterebbe per giunta un illecito distinto per ogni ambito geografico di applicazione, è stata tacciata da parte della dottrina come repressiva e inutilmente severa.

Conclusioni

Giungendo alla conclusione di questa riflessione, non si può nascondere che, stante la recente giurisprudenza della Corte europea, il rischio che il DMA possa comportare doppi giudicati è elevato. A questo si aggiunge anche il rischio di creare confusione all’interno di un mercato che dovrebbe tendere ad una certa uniformità di regole e sanzioni.

Parallelamente il DSA sembra invece non riuscire a convincere del tutto gli operatori giuridici circa l’efficacia repressiva delle condotte illecite che si prefigge di combattere.

Entrambe queste posizioni, necessarie per arrivare al momento dell’approvazione definitiva con le giuste correzioni, rimangono comunque parziali se non suffragate dalla prova dei fatti. Nel frattempo, comunque, è evidente il grande sforzo politico e normativo della UE verso un mercato digitale all’insegna di regole di concorrenza e di tutela della privacy più incisive.

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