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Tassare le multinazionali tech, come fare? Le soluzioni in campo



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L’economia digitale cresce rapidamente, ma i sistemi fiscali tradizionali faticano ad adattarsi. L’OCSE e l’UE cercano soluzioni globali per tassare le multinazionali digitali, bilanciando equità e sviluppo economico. In questo contesto si inserisce la web tax italiana

Pubblicato il 16 dic 2024

Eleonora Poli

Head of Economic Analysis, Centro politiche europee – Roma (CEP)



web tax (1)

La web tax italiana rappresenta una tra le tante iniziative che mirano ad adattare le politiche fiscali alla crescita esponenziale dell’economia digitale e risponde alla questione di come tassare le aziende digitali nei paesi in cui generano profitti, anche senza una presenza fisica.

La crescita esponenziale dell’econmia digitale

L’economia digitale ha infatti registrato una crescita esponenziale negli ultimi 10 anni e oggi rappresenta il 15,5% del PIL globale. Secondo i dati del World Economic Forum, nei prossimi dieci anni costituirà il 70% di ogni nuovo valore creato nell’economia mondiale. Questa rapida crescita ha però posto significative sfide alle politiche fiscali della maggioranza dei Paesi.

Infatti, tradizionalmente le tasse sono legate alla presenza fisica di un’azienda in una giurisdizione, escludendo quindi i profitti dei giganti digitali che non sempre hanno una presenza fisica nei paesi in cui operano. Per far fronte alla questione di come far pagare le tasse alle aziende digitali nei paesi in cui generano profitto, negli ultimi anni sono state lanciate diverse iniziative sull’economia digitale. Il Centres for European Policy Network (cep) ha recentemente analizzato lo stato delle cose in due proprie distinte pubblicazioni; un cepAdhoc , più incentrato su una analisi delle nuove decisioni annunciate per quanto riguarda la web tax italiana, ed un cepStudy, più ampio e articolato, che presenta anche alcune ipotesi per quanto riguarda lo sviluppo di un sistema di Digital Tax, promosso dall’UE stessa.

Come “svecchiare” il sistema di tassazione tradizionale: l’approccio di OCSE

La difficoltà di tassare aziende che non hanno presenza fisica, dipendenti o asset tangibili in un paese, ma che generano profitti in quella giurisdizione ha messo in difficoltà diversi governi, incapaci di garantire delle politiche fiscali adeguate.Per questo motivo, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), in collaborazione con i paesi del G20, ha avviato già nel 2013 una serie di negoziati per trovare una soluzione globale al problema. Ad esempio, il framework sviluppato dall’OCSE nel 2015, intitolato Base Erosion and Profit Shifting (BEPS) Inclusive Framework, è infatti considerato come uno strumento strategico per informare i Paesi sulle pratiche di alcuni giganti digitali per evitare di pagare tasse nei paesi in cui generano profitto.

I pilastri della strategia Ocse

Partendo dal BEPS, l’OCSE ha poi sviluppato una strategia basata su due pilastri.

Il Pilastro 1 si concentra sulla riallocazione dei diritti di tassazione per le multinazionali digitali altamente redditizie che generano profitti attraverso servizi digitali.

Il Pilastro 2, invece, prevede lo sviluppo di una tassa globale minima per evitare che i paesi sviluppino una competizione fiscale tra di loro per attirare le aziende.

L’approccio europeo

Anche l’Unione Europea ha supportato queste iniziative e nel 2022 ha implementato una direttiva sul Minimum Corporate Taxation per portare maggiore equità e stabilità al panorama fiscale nell’UE e a livello globale. La direttiva, approvate all’unanimità dai paesi membri nel 2022, formalizza l’implementazione da parte dell’UE delle cosiddette regole del “Pilastro 2” ed entrerà in vigore il 31 dicembre 2024. Allo stesso tempo, paesi membri dell’UE come Francia, Spagna, Austria e Italia hanno progressivamente iniziato ad adottare delle regole fiscali sui servizi digitali (Digital Services Taxes, DSTs). Tuttavia, in assenza di un accordo globale, la reazione di paesi, come gli Stati Uniti, dove la maggior parte delle multinazionali digitali ha la propria sede, è stata forte e ha comportato la minaccia di ritorsioni economiche.

Gli accordi bilaterali Usa-Italia

Nel 2021, con l’inizio dell’amministrazione Biden, gli Stati Uniti raggiunsero accordi bilaterali con l’Italia, così come con altri paesi, su un approccio transitorio all’applicazione della web tax. L’accordo ha portato a una sospensione temporanea delle tariffe punitive che gli Stati Uniti avrebbero potuto imporre sui beni italiani. In cambio, l’Italia si sarebbe impegnata ad armonizzare la propria web tax con il Pilastro 1 dell’OCSE fosse diventato operativo. Tale accordo è stato poi esteso fino a giugno 2024, quando il Pilastro 1 avrebbe dovuto entrare in vigore. Tuttavia, ad oggi le trattative dell’OCSE sono ancora in corso emolti paesi hanno iniziato a implementare le proprie legislazioni nazionali. Ad esempio, nel giugno 2024, il Canada ha autorizzato l’attuazione di una Digital Services Tax con effetto retroattivo dal 1° gennaio 2022.

La Web Tax italiana e le piccole medie imprese

A fronte della mancanza di un accordo globale, il governo italiano ha iniziato a indagare la possibilità di introdurre una nuova DST o Web Tax per aumentare le proprie entrate fiscali da un lato, includendo anche le piccole e medie imprese (PMI). La proposta ha di fatto suscitato non poche critiche da parte di associazioni di categoria, organizzazioni e membri del parlamento, oltre che da forze politiche della stessa coalizione, in particolare, Forza Italia.

La posizione dellePMI

Ad esempio, secondo Assodigit, l’associazione nazionale che promuove la digitalizzazione e il progresso tecnologico per le PMI italiane, applicare la tassa alle PMI digitali e alle start-up avrebbe compromesso la loro capacità di competere in un ambiente sempre più digitalizzato. Sebbene lo stato ne avrebbe ottenuto un introito aggiuntivo di 51,6 milioni di euro, ciò sarebbe avvenuto a scapito dell’innovazione digitale delle piccole e medie imprese. Al contempo, l’impatto sulle PMI sarebbe stato particolarmente grave, poiché la tassa sarebbe stata calcolata sul fatturato e non sul reddito effettivo, riducendo ulteriormente le loro già limitate capacità di investimento. Ad oggi, sebbene le 4 milioni di PMI italiane impieghino circa 13 milioni di persone e generino oltre il 65% del valore aggiunto del paese, queste già faticano a competere con le controparti europee, specialmente nel settore digitale. Solo il 18%, rispetto alla media del 22% nell’Unione Europea, opera nel settore dell’e-commerce e, per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, le PMI italiane sono anche sotto la media UE: solo il 6% utilizza l’intelligenza artificiale e solo l’8% analizza Big Data per implementare strategie di marketing. Per questi motivi, la proposta di legge revisionata sulla WEB Tax che includeva le PMI è stata eliminata e non farà prevedibilmente parte della manovra finanziaria per il 2025.

Web Tax, geopolitica e la necessità di azioni europee

Il tentativo di estendere la tassa anche alle piccole e medie imprese era giustificato dal fatto che, così facendo, il governo avrebbe risposto a una delle critiche mosse dagli Stati Uniti, che accusavano l’Italia di usare la propria Web Tax per colpire principalmente le multinazionali americane. Tuttavia, con o senza PMI, gli Stati Uniti sembrano aver già avanzato delle richieste di abolire la tassa nazionale sui servizi digitali per evitare ritorsioni. Al momento, l’Italia, come altri paesi europei, dipende dagli Stati Uniti per l’importazione di beni digitali, mentre esporta beni tradizionali. Poiché gli Stati Uniti hanno una bilancia commerciale negativa nei confronti dell’Unione Europea, la nuova amministrazione di Trump potrebbe cercare di ridurre questa situazione negoziando accordi bilaterali, anche sulla tassazione. In questo contesto, la sfida sulla tassazione dei servizi digitali potrebbe risultare difficile da risolvere in modo isolato.

Necessaria una maggiore cooperazione a livello europeo

È quindi necessaria una maggiore cooperazione a livello europeo per spingere per l’adozione dei pilastri OCSE in modo che siano globalmente accettati. Allo stesso tempo, l’UE deve agire. Nel 2018 l’Ue aveva infatti lanciato l’idea di una tassazione del 3% sui ricavi derivanti dalla pubblicità online, dalle commissioni di vendita/acquisto transate da intermediari online e dalla vendita e trasmissione di dati raccolti sugli utenti e generati dalle attività degli utenti sulle interfacce digitali. L’obiettivo era quello di stabilire uno standard fiscale moderno, equo ed efficiente per l’economia digitale. Tuttavia, la proposta incontrò l’opposizione di diversi paesi UE, in particolare dell’Irlanda, che ospitava la sede di molti giganti digitali. Allo stesso tempo, l’ idea fu messa da parte, in attesa dell’esito dei negoziati BEPS del G20/OCSE, poiché la loro conclusione e un successivo accordo avrebbero reso obsoleta la proposta europea.

Una possibile soluzione per l’Europa

Secondo il proprio studio il cep, in mancanza di un accordo OCSE, suggerisce che l’Unione europea dovrebbe ripensare a un proprio modello di tassazione digitale. Una possibile soluzione, sarebbe lo sviluppo di un sistema che consideri diversi elementi relativi ai servizi digitali, come: la fornitura di software, l’accesso alla rete di telecomunicazioni e l’interazione con gli utenti e scomponga, quindi, la creazione di valore digitale, con l’obiettivo di risalire alle sue fonti ultime e tassarle di conseguenza. Infatti, ogni anno, l’UE perde circa tre o quattro miliardi di euro per la mancata tassazione sul digitale e la tendenza sta crescendo rapidamente, con una stima totale di circa 30 miliardi di euro dal 2018 ad oggi.

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