innovazione e tradizione

Tecnologia e genio creativo: strategie per costruire il futuro del Made in Italy



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L’innovazione e la creatività, elementi fondamentali del Made in Italy, si fondono con la tradizione per affrontare le sfide del XXI secolo. Tecnologie e nuovi modelli organizzativi vengono sfruttati per riprogettare il lavoro, mentre l’offerta formativa ITS si prepara a formare le nuove generazioni. Anche il Governo sta facendo la sua parte per valorizzare l’eccellenza italiana

Pubblicato il 30 apr 2024

Gianpiero Ruggiero

Esperto in valutazione e processi di innovazione del CNR



Innovation-in-Italy

Belli, innovativi, di qualità. Sono alcuni degli aggettivi che vengono in mente quando si pensa ai prodotti italiani che continuano ad affascinare i mercati oltre i confini nazionali.

La Giornata nazionale del Made in Italy, voluta il 15 aprile dal Ministero delle Imprese per celebrare creatività, forza di ingegno e qualità dei prodotti italiani, è stata un’utile occasione per interrogarsi su quali siano le caratteristiche di fondo del modello di innovazione italiano e quali siano i valori, i principi e i metodi del buon management, affinché i processi di innovazione possano essere guidati in modo ottimale anche in futuro.

Di fonte alla vertigine delle enormi possibilità offerte dalle frontiere della scienza e della tecnologia, il modello italiano per l’innovazione ha sempre più bisogno di scoprire nuovi legami, nuove tecniche e nuovi sistemi organizzativi.

Il modello italiano per l’innovazione: tradizione e trasformazione

Luca De Biase ha scritto il libro “Eppur s’innova” (Edizione LUISS) in cui descrive i tratti qualificanti dell’innovazione italiana. Volendo sintetizzare i connotati di un ipotetico modello italiano per l’innovazione, si potrebbe far riferimento a due componenti fondamentali. La prima ha radici secolari, che potremmo definire la “tradizione”, la seconda si connette al presente e ha a che fare con la capacità di adattamento alla contemporaneità, che potremmo definire la “trasformazione”.

Parlare di tradizione significa far riferimento alla questione dell’identità italiana e dei suoi territori. In passato, in questi contesti territoriali, nei quali i mezzi finanziari erano spesso scarsi e ridotta era la collaborazione istituzionale, gli imprenditori hanno saputo sviluppare particolari abilità. Hanno immaginato prodotti e servizi per i clienti e hanno saputo trarre un’evidente forza dalla tradizione artigiana che conduceva a fare le cose fatte bene. Avendo chiaro che l’innovazione è un gioco di squadra, taluni imprenditori hanno sviluppato servizi di welfare per i propri dipendenti. Si è diffusa una mentalità di stampo “olivettiano” che ha portato i lavoratori a partecipare alla progettualità, non tanto per incentivazione monetaria, quanto per senso di appartenenza all’azienda, di prestigio, riconoscenza e fedeltà relazionale. Quando la tradizione artigiana è riuscita a unirsi alle tecniche industriali, cioè quando si è assistito all’unione tra cultura tecnica e umanistica, anche la stessa innovazione ha preso il sapore “delle cose fatte bene”.

In questa continua rincorsa in cui il modello tradizionale è sfidato dalla contemporaneità ad adattarsi, oggi si fa strada un altro paradigma: non più un sistema di relazioni statiche in cui prevale chi ha già il potere più di chi, con le sue azioni innovative, potrebbe modificare gli equilibri, ma un confronto relazionale in cui la contaminazione diventa necessità, in un continuo incontro informato con altri sistemi. La scienza e la tecnologia, l’internazionalizzazione e la digitalizzazione, arricchiscono di conoscenze il patrimonio culturale e diventano materiale da ricombinare per gli imprenditori innovatori.

Il ruolo della tecnologia nella riprogettazione del lavoro

L’avvento della tecnologia spinge alla riprogettazione dei lavori, alla creazione di organizzazioni più produttive, collaborative, creative. Il rispetto costruttivo delle diversità diventa l’architrave dei nuovi modelli di innovazione, più densi di empatia e profondità. Si fa strada l’idea di un’innovazione come fenomeno olistico, per cui l’appiattimento dell’idea di innovazione sulle dinamiche meramente finanziarie e tecnologiche può essere efficace dal punto di vista del potere che ne deriva, ma non apre la strada alle alternative valoriali, ecologiche e sociali.

La ricerca di un modello da mettere a sistema

Per molti economisti, il sistema economico produttivo italiano oggi si posiziona all’alba di un ciclo positivo, favorito anche dal declino del ciclo che sperimenta la Germania. Sono diversi i segnali che danno evidenza di un tessuto economico e sociale aperto e combattivo, che attraversa la penisola, pronto ad accogliere e rimodellare, come gli artigiani del passato, le sfide dell’economia digitale e della conoscenza in una fase di profondo cambiamento globale.

Il nostro tessuto imprenditoriale esprime dei veri e propri “campioni”, che dimostrano grande vitalità e grande energia, spesso grande capacità di adattamento quando non di innovazione. Quello che emerge, purtroppo, è che questa attività innovativa resta a volte un’eccezione, non si diffonde nella restante platea di piccole imprese, il più delle volte ancorate a modelli sorpassati, e non trova sempre un contesto di riproduzione e di allargamento grazie a politiche di sostegno.

Il nostro è un paese di organizzazioni ineguali: c’è un’Italia di lavori precari e mal pagati, e c’è un’Italia di buone imprese che rispettano i diritti, applicano le migliori tecnologie, fanno della collaborazione la chiave del successo e che pongono la competitività come un obiettivo che accomuna la proprietà, il management e i lavoratori. Ma parliamo di un’élite, di eccezioni appunto.

Un punto di vera debolezza è proprio l’incapacità di rendere sistematica le forme organizzative di qualità, quelle che funzionano meglio. Lavorare con pazienza su questa variabile significa imparare a progettare organizzazioni e lavori di nuova concezione. È questa élite che deve diventare faro per coloro che vogliono aggiungersi e che necessitano di adottare e potenziare un cambiamento organizzativo a 360 gradi.

Se i modelli organizzativi del ‘900 (fordismo e taylorismo), fondati sul coordinamento, il potere gerarchico e la divisione del lavoro, fra chi sa e chi esegue, non sono più adatti ad affrontare le rivoluzioni economiche, tecnologiche e sociali dei tempi attuali, per gestire l’innovazione di domani occorre ben altro. Per individuare questo altro, viene in soccorso l’ultimo libro di Federico Butera, “Disegnare l’Italia” (Egea Edizioni), il quale parla di digitalizzare le organizzazioni “attraverso la progettazione congiunta di tecnologia, organizzazione e lavoro”, quella che Butera ha definito la cosiddetta Sociotecnica 5.0. Le riflessioni di Butera sono utili a cogliere cosa serve per rendere più efficace la progettazione tecnologica: puntare su nuovi modelli di organizzazione più flessibili, basati su ecosistemi e reti organizzative gestite, unità centrate su teams con competenze trasversali, con lavori più responsabili e professionalizzati, ruoli in continua evoluzione, basati sull’autonomia e sull’orientamento al risultato.

Le proposte per nuovi modelli organizzativi

Per gli architetti delle nuove organizzazioni, quello che occorre fare oggi è aprire dei cantieri di progettazione sociotecnica, contemporanea e integrata di tecnologie, che sono sempre più avanzate e sofisticate, di organizzazioni flessibili e di lavori di tipo diverso.

Molte grandi aziende già lo stanno facendo, stanno ridefinendo i processi e intorno ai processi stanno ridefinendo le tecnologie che li supportino. Anche molte startup e medie imprese si stanno muovendo in tal senso. Imprenditori illuminati plasmano organizzazioni flessibili e non si limitano a comprare la tecnologia più evoluta, ma stanno mettendo insieme queste diverse componenti: ecosistemi e reti gestite, unità organizzative sociotecniche, lavori di qualità. Riprogettando ruoli e mansioni nuove, stanno dimostrando di essere veri imprenditori, senza paura verso le tecnologie evolute, senza paura di perdere il controllo manageriale. Una combinazione di fattori che rappresentano i pilastri su cui costruire le caratteristiche dell’impresa “integrale” di domani, innovativa e socialmente responsabile.

La prospettiva del cantiere lascia indietro l’idea della omogeneità delle soluzioni. Ciascun territorio avrà le sue specificità, ciascun distretto avrà le sue caratteristiche. Ciascuno dovrà adattare la propria strategia, con l’obiettivo di aprirsi alla contaminazione. Ben vengano perciò forme sociali pattizie per regolare relazioni nei territori tra le grandi imprese e le PA, le Università, i centri di ricerca.

Il modello a rete e le forme sociali pattizie

Il modello di riferimento, tra le forme sociali pattizie, diventa il “Patto metropolitano per il lavoro e lo sviluppo economico sociale” sottoscritto dalla Regione Emilia-Romagna con le istituzioni locali, le università, le parti sociali datoriali e sindacali, il forum del terzo settore. Nessuna programmazione verticistica, ma piuttosto una capacità di recepire le istanze che vengono dal basso, trasformando quegli aggregati sociali in comunità.

I progetti di innovazione nascono già morti, se tutti gli stakeholder non sono mobilitati al loro sviluppo. L’impegno è a collaborare per realizzare le linee strategiche, le azioni e gli strumenti capaci di generare sviluppo e una nuova coesione sociale. Un modello a “rete” che, come tale, deve saper individuare il nodo centrale e riconoscerne il valore, superando quei colli di bottiglia che porterebbero all’insuccesso.

Sistemi di reti in cui dare valore alle pratiche migliori, dove le imprese danno segnali di voler essere, e non solo apparire, socialmente responsabili. Sistemi in cui anche le istituzioni pubbliche siano più orientate a creare valore pubblico, focalizzate sulla missione di fornire servizi senza limitarsi alla gestione di pratiche.

Abbandonare l’idea di una organizzazione fatta solo di norme e di regole, ma pensata come una piccola società composta da vari sistemi di regolazione, dove sono importanti i valori, la cultura, le comunità di pratica i sistemi professionali. Reti governate, in grado di connettersi tra loro, che siano anche centri di formazione per sviluppare un numero maggiore di lavori di qualità.

Sviluppare lavori di qualità

A questa ricerca di nuovi modelli organizzativi e di produzione più sostenibili, gli studiosi propongono una posizione progettualistica anche di nuovi lavori. Una riprogettazione di lavori di qualità e di lavori in chiave umanistica. Questa combinazione tra valorizzazione delle capacità umanistiche e “artigianali” e futuro tecnologico, sposandosi con il modello innovativo all’italiana, andrebbe a tutto vantaggio del sistema Italia.

Il tutto nell’ottica di una costruzione comune e condivisa, nei singoli contesti aziendali e/o territoriali di quello che vogliamo sia il lavoro sostenibile, non solo dal punto di vista ambientale, ma come un’attività possa valorizzare la persona, non lederne la dignità, e individuare per essa un compito chiaro all’interno della trasformazione stessa. Non sono solo concetti astratti. David De Cremer, Nicola Morini Bianzini e Ben Falk, su Harvard Business Review, argomentano con esperienze concrete l’efficacia della progettazione tecnologica dei lavori. E illustrano casi di applicazione in ambito sanitario di cosa vuol dire saper individuare lavori in grado di combinare l’uso della tecnologia con l’esperienza e sapienza del lavoratore. Ad esempio l’esperienza del radiologo: ciascuno di noi potrebbe accettare che una malattia polmonare gli sia diagnosticata dall’intelligenza artificiale, ma ci sentiremmo molto più sicuri se a leggerla non ci fosse un bot, ma un radiologo con esperienza, con cui si possa parlare.

Se una parte di Italia va progettata a partire dalle sue eccellenze, questo richiede che l’intera popolazione, a partire dalle nuove generazioni, sia aiutata a diventare cittadina di un mondo in cui la conoscenza è condizione essenziale per contribuire allo sviluppo del proprio paese e per avere una vita ricca di soddisfazioni.

La sfida dell’offerta formativa ITS

L’Italia, che è ancora la seconda manifattura europea, ha bisogno di un sistema di istruzione professionalizzante alternativo e parallelo alle università se non vuole restare indietro. Non a caso, oggi, il problema per molte imprese è trovare persone con competenze giuste. Il sistema formativo può giocare un ruolo determinante, soprattutto nella componente degli Istituti tecnici superiori.

Mentre altri paesi come la Francia e la Svizzera hanno iniziato 20 anni fa e ora sono al 30% di studenti iscritti nei canali professionalizzanti (la Germania che ce l’ha da sempre sta al 50%), la Spagna in pochi anni è salita al 10%, il sistema italiano non è mai riuscito a decollare. È un sistema ancora molto piccolo: 30mila iscritti su 1,5 milioni di universitari.

Aumentare la platea di studenti, garantendo una didattica capace di dare sostanza a quella professionalizzazione di tutti, è un obiettivo alla portata. Il PNRR ha stanziato ingenti risorse, l’investimento di 1,5 miliardi per 146 Its è molto generoso, ma le risorse vanno spese in poco tempo per costruire un sistema che deve stare in piedi da solo dopo il 2026. Andrebbe ora implementato il quadro di riforme: per esempio dotando il Ministero dell’Istruzione di una apposita Direzione amministrativa dedicata ai soli Its; avviata la sperimentazione del 4+2 che lega negli stessi edifici le scuole tecniche e professionali (di 4 anni come nelle maggioranza dei paesi europei) agli Its (2 anni). Andrebbe superata la resistenza di chi ancora crede che la scuola non possa “mischiarsi” con le aziende.

D’altronde i dati sul tasso di occupabilità degli Its parla chiaro. Dal monitoraggio relativo ai percorsi conclusi nel 2020, emerge che l’80% dei giovani ha trovato lavoro a un anno dal conseguimento del diploma. Di questi, il 91% svolge una professione in un’area coerente con il percorso concluso. I dati si basano su 260 corsi attivati da 89 ITS, che comprendono 6.874 iscritti (5.280 sono i diplomati e 4.218 gli occupati).

Nei territori dove ci sono grandi imprese o distretti industriali, che possono guidare la costruzione di fondazioni Its pubblico-private, è più facile ampliare la platea di studenti e attivare corsi per sviluppare nuove competenze. Negli altri territori, le regioni potrebbero beneficiare di una formazione su commissione come avviene in altri paesi. La presenza di fondi interprofessionali, che già lavorano con una formazione su commissione, potrebbe facilitare il loro ingresso nelle fondazioni Its. Bisogna che siano coinvolte maggiormente le associazioni di categoria, anche dei servizi e non solo industriali, visto che molte delle specializzazioni italiane riguardano i servizi.

L’azione del Governo per promuovere l’eccellenza italiana

Anche il Governo sta facendo la propria parte per valorizzare l’eccellenza italiana. Entrata in vigore il primo gennaio 2024, la legge n. 206/2023 detta disposizioni “tese a valorizzare e promuovere, in Italia e all’estero, le produzioni di eccellenza, il patrimonio culturale e le radici culturali nazionali, quali fattori da preservare e tramandare non solo a fini identitari, ma anche per la crescita dell’economia nazionale nell’ambito e in coerenza con le regole del mercato interno dell’Unione europea”.

La legge voluta dal Governo, collegata alla legge di Bilancio 2022, punta a coinvolgere enti statali, regionali e locali, chiamati a lavorare insieme per creare le condizioni che consentano alla progettualità italiana di continuare a crescere. La nuova legislazione è una dimostrazione concreta verso la protezione e il riconoscimento del valore dei marchi, brevetti, diritti d’autore, disegni e modelli, fondamentali per il mantenimento e la crescita del prestigio del Made in Italy sul territorio nazionale ed estero.

Il testo normativo comprende tante diverse misure, alcune delle quali stanno faticando a emergere, come l’istituzione del nuovo corso liceale o quelle per lo sviluppo del settore culturale e museale. Tuttavia, sebbene per molte delle previsioni previste occorrerà attendere i decreti attuativi per diventare operativi, il provvedimento accende un faro sulle imprese creative e sul loro contributo in termini di politica industriale.

Alcune iniziative, in particolare sul recupero dei marchi storici, sulla lotta alla contraffazione e la tutela del diritto d’autore nell’era digitale, sembrano andare nel verso giusto. Interessanti le misure sui creatori digitali, definiti come “artisti che producono opere originali ad alto contenuto digitale e riconosciuti come parte vitale dell’industria creativa e dell’innovazione tecnologica”, ai quali la norma mette a disposizione un repertorio dedicato alle opere digitali originali, che fungerà da strumento chiave per la salvaguardia dei diritti d’autore.

La legge, inoltre, ha stanziato per il 2024 una dotazione di 1 milione di euro per il cosiddetto “Voucher 3i – Investire in Innovazione”, rivolto in particolare alle startup innovative e alle microimprese, progettato per sostenere le attività legate alla brevettazione delle invenzioni e alla valorizzazione dei processi innovativi. Le aree di intervento del Voucher 3I includono servizi di consulenza per la verifica della brevettabilità delle invenzioni e la conduzione di ricerche preliminari di anteriorità, essenziali per la preparazione e il deposito delle domande di brevetto. Un aspetto significativo del voucher riguarda anche l’estensione delle domande di brevetto nazionali a livello internazionale, elemento chiave per la protezione e la valorizzazione dell’innovazione in un contesto globale.

Conclusioni

I prodotti italiani in passato hanno saputo affermarsi grazie a uno spirito imprenditoriale in grado di cogliere le opportunità e ad aziende che potevano contare su una forza lavoro dotata di una manualità artigianale di assoluta eccellenza. Un mix di artigianalità manifatturiera unita a una spiccata capacità di immaginazione, una propensione alla creatività che ancora oggi permette ai nostri prodotti di continuare a distinguersi nel mondo.

Un patrimonio da non disperdere, che tiene in piedi l’industria italiana e che, con alcuni accorgimenti, traghetterà nel futuro la nostra capacità produttiva. Un futuro in cui vincerà chi riuscirà a coniugare tecnologia e genio creativo, nel solco tracciato dal concetto di Umanesimo Digitale.

L’Italia trarrebbe vantaggio dalla valorizzazione delle virtù artigianali tipiche nella nostra tradizione combinate con il futuro tecnologico in atto, come fa già il miglior made in Italy.

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