Siamo tutti molto impegnati nel pensare a come i musei devono raccontarsi, come devono imparare a comunicare, come devono cambiare le loro connessioni con la società utilizzando tutti gli strumenti che appartengono a quella che chiamiamo innovazione sociale: le tecnologie digitali, la dimensione collaborativa e partecipativa nell’incidere sul presente.
Se un tempo tutto questo aveva il suo territorio fuori dalle mura del museo, ora la sua eco vive nelle sue sale e si declina in progetti di vario genere.
Oggi ci preoccupiamo di fare parlare il museo con i loro ospiti condividendo strumenti, dispositivi, che nell’insieme formano una rete a maglie sempre più fitte e che ha permesso di dare voce sul tema dell’esperienza di visita a competenze sempre differenti.
C’è una competenza spesso poco considerata: quella del visitatore, colui il quale è “legge” il museo. La lettura è la competenza che, una volta tradita, ha la qualità di cambiare il senso di qualsiasi discorso.
Il dispositivo museo è sempre più un luogo dove le differenti forme di scrittura si intrecciano per poter permettere a chiunque di leggere i contenuti, nel rispetto del più sincero spirito dell’inclusione: scritture visive, non visive, tattili, LIS ecc.
In tutto questo si deve tenere conto che c’è chi legge e non tutti leggono nella stessa maniera. Qualsiasi scrittura deve accogliere la diversità come una componente fondamentale: contesti, bisogni, culture, esperienze e altro ancora.
Quando entriamo in un museo ci portiamo dietro tutta la nostra esperienza, tutto ciò che abbiamo già visto e conosciuto. Associazioni di pensiero, ricordi, esperienze che si contaminano con il presente in qualsiasi momento.
Vedere comporta l’attivazione di una catena di pensieri che riportano alla mente saperi ed emozioni che non hanno una natura sempre e solo visiva. Così ascoltare e toccare.
Chi legge non fa che rileggere in parte cose che riconosce e affianca a questo le nuove conoscenze. Le nostre percezioni e il nostro pensare si sono sviluppati all’interno di una necessità di sopravvivenza ma nel tempo è diventata una facoltà di esprimere giudizio sul mondo.
Per questo motivo, a prescindere dalla tecnologia che usiamo negli spazi, quello che conta infine è la scrittura che usiamo per raccontarlo, descriverlo, comunicarlo.
Attraverso la scrittura che utilizziamo, possiamo fare rinascere le sorgenti dell’immaginazione di chi affronta l’esperienza museale che non si esaurisce nelle sale ma attraversa diversi momenti della propria vita.
È pensiero comune che il patrimonio culturale in genere non si esaurisce con una esperienza diretta ma che lo si conosce già a partire dalle sue tracce nella comunicazione.
Per chi scrive è importante conoscere come leggono le persone, cosa leggono e come si innesca nella mente del lettore la possibilità di riconnettersi alle radici della propria creatività, che permette di vedere nelle cose non solo informazioni ma un’espansione cosciente del proprio pensare.
Scrivere, raccontare è sempre il condurre l’attenzione di chi ci legge verso un fremito di attenzione, di conoscenza. L’innesco si genera quando la scrittura è chiara, mostra la via per chi legge, non la descrive. Se prendiamo in prestito la definizione dalla letteratura immersiva anglosassone “show don’t tell” (mostra non raccontare), comprendiamo che in letteratura già Mark Twain ha posto il tema delle emozioni e del coinvolgimento del lettore all’interno di una narrazione che deve permettere di calare la propria coscienza nell’esperienza all’interno un proprio ruolo.
In sintesi, quello che di nuovo sta accadendo è che, volendo parlare a un pubblico sempre più differenziato e vasto del nostro patrimonio culturale, la soluzione non risiede nei singoli dispositivi ma in una inventiva e pragmatica capacità di costruire un ecosistema narrativo che innerva i differenti ruoli che agiscono in lui.