Abbiamo un grosso problema con il risparmio gestito in Italia.
L’Italia come è noto è un Paese con una fortissima propensione al risparmio: in calo negli ultimi anni, rimane tra le più alte al mondo. Allo stesso tempo, il risparmio è così importante nell’ordinamento giuridico italiano da meritare un articolo della Costituzione ad hoc.
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L’articolo 47 infatti recita: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”.
È uscito ad inizio ottobre un report dell’ufficio studi di Mediobanca Securities dal titolo “Italian Asset Gatherers” (purtroppo non accessibile dal sito) che prende in esame in modo puntuale i vari prodotti relativi al risparmio gestito in Italia dalle cinque maggiori società, quotate in borsa: Banca Generali, Anima, Azimut, Banca Mediolanum e Fineco. Il risultato fa pensare che più che tutelare il risparmio, nel nostro ordinamento si tutela il gestore a scapito del risparmiatore.
La sintesi è che l’industria del risparmio gestito in Italia è una “macchina-distruggi-soldi”, con schemi piramidali molto stratificati e una moltitudine di soggetti che ne vuole una fetta: la colpa non è quindi solo delle società di gestione, ma il risultato finale è disastroso. Il report ci mostra come, per molti prodotti, i rendimenti finiscono dal 50% all’89% in tasca alla rete di gestione (o alla banca) mentre solo una parte minoritaria in realtà finisce a remunerare il capitale investito dal risparmiatore.
Tutto questo avviene in un mondo in cui sarebbe entrato in vigore MIFID II, dove quindi il mantra del mercato dovrebbe essere la trasparenza. Dove ogni risparmiatore dovrebbe ricevere sia un prospetto informativo ex ante, per capire quanti siano i costi preventivati, che ex post, ogni anno, su quali sono stati i costi reali.
Gran parte dei risparmiatori italiani, in realtà, questi report non li ha mai visti. È tutto così opaco e di difficile comprensione che neanche la stampa economica italiana in questi anni è riuscita ad accendere un faro: è servito l’ufficio studi di Mediobanca Securities per capirci qualcosa.
Tutela del risparmio: le storture del sistema
La grande autoassoluzione è stata: l’alfabetizzazione finanziaria degli italiani è tra le più basse dell’area OCSE. In realtà, viene il sospetto che il sistema sia complice di questa incompetenza: il modo migliore per non insegnare la matematica è continuare a fornire materiale sulle equazioni differenziali invece che spiegare le tabelline.
Tra il lungo elenco di storture, quella che più salta all’occhio è il fatto che in molti casi le commissioni di performance vengano calcolate anche se il rendimento annuo è negativo. Attraverso un meccanismo monstre per cui, nel caso dei fondi azionari, quando la borsa sale si incassa la commissione, ma quando scende perde solo il risparmiatore. Performance fee che si sommano alle elevate commissioni di gestione, tra le più alte al mondo. Questo, nel 25% dei casi, è avvenuto di fronte ad una perdita netta per il risparmiatore.
La somma di tutti questi fattori, sommate a commissioni di trading, fa arrivare il costo per il risparmiatore, in alcuni casi, ad un 6% annuo che per una famiglia benestante può essere facilmente la principale voce di spesa del nucleo familiare ma senza che questa se ne accorga.
Tutte pratiche che però, sia secondo l’ESMA che la CONSOB, sarebbero vietate: a questo punto, viene da pensare che siano dei semplici suggerimenti facoltativi o che sussista un patto tacito per puntellare il traballante sistema finanziario e bancario italiano.
A questo si aggiunge quello che è successo invece negli ultimi anni nei PIR- Piani Individuali di Investimento, strumenti il cui equivalente esiste in quasi tutti i principali mercati al mondo e servono per incentivare l’investimento sul mercato domestico. Con una eccezione, in Italia il beneficio fiscale è utilizzabile sono se transita da banche e reti, mentre altrove anche il risparmiatore fai da te può usufruire dei benefici, che consistono in esenzione sia dell’imposta sul Capital Gain sia dell’imposta di successione.
I PIR sono un oggetto ritenuto così strategico che lo Stato italiano in questi anni ha investito decine di miliardi in detrazioni fiscali. Molto più che per salvataggi Alitalia e Reddito di Cittadinanza, per avere un metro di paragone. Da strumento di veicolo del risparmio verso le PMI italiane, sono diventati utili principalmente per tre operazioni: quotare le SPAC che con la PMI non hanno niente in comune; operazioni sul secondario senza cambiare però i multipli con cui le società italiane vengono oggi pagate; trattenere il risparmiatore per almeno cinque anni (durata obbligatoria del PIR) con commissioni che sono comunque minimo del 2-3% annuo.
Tutela del risparmio: gli effetti delle worst practice
L’effetto di tutte queste worst practice non si limita al risparmio ma purtroppo viene pagato dall’intero sistema-Paese. Non esiste la possibilità oggi di vivere in una nazione evoluta senza che questa performi in modo decente nel suo settore finanziario, che a sua volta vuol dire mettere a terra (in modo efficiente e con bassi margini di intermediazione) le risorse del risparmio degli italiani a servizio del sistema produttivo del paese. I risultati sono evidenti.
Il primo è una fortissima diffidenza delle imprese di produzione di beni e servizi nei confronti del mondo finanziario: da sempre, la responsabilità di questa ostilità è ricaduta sugli imprenditori. A ben vedere però, un sistema che brucia così tante risorse può sopravvivere e quindi continuare a convincere i risparmiatori in un unico modo: pagando multipli bassi e chiedendo tassi alti.
Esempio: il risparmiatore investe 100€ in azioni e comunque, al netto delle operazioni sul secondario, si aspetta un rendimento. Se più del 50% di questo rendimento rimane tra le dita del gestore, per avere un rendimento tollerabile queste azioni devono essere pagate 50 euro. Il risultato sarà però che l’imprenditore non svenderà mai quote per aprire il capitale, sapendo che tramite meccanismi privatistici ha un triplo vantaggio, maggiore libertà, minore controllo e prezzi di vendita più alti. Il caso delle aziende tech è molto più grave: il patrimonio immateriale, che è molto difficile da iscrivere correttamente a bilancio, nel mondo finanziario “evoluto” viene in realtà direttamente valorizzato con multipli elevati. Se questi sono bassi, ecco che il tech rimane fuori da questo mondo.
Il risultato però è sotto gli occhi di tutti: abbiamo una borsa italiana che vale tra il 35% ed il 40% del PIL. Esattamente come tra gli anni ‘50 e ‘60, anni del boom economico. La vicina Francia ormai è verso il 110% mentre gli USA siamo al 200%.
Esiste però un altro effetto molto distorsivo che colpisce direttamente il mondo della nascita di startup tecnologiche. Qual è l’incentivo per chi si occupa di finanza a lavorare in un settore impegnativo, rischioso e problematico come il Venture Capital se si hanno le stesse commissioni di gestione rispetto a un semplice fondo obbligazionario? Perché una rete o banca dovrebbe costruire fondi evoluti? Perché il fuoriclasse, quello che fa grandi raccolte, dovrebbe impegnarsi per un rendimento analogo a prodotti collocabili facilmente a sportello?
Tutto questo però si aggiunge con un’ulteriore aggravante. Se un semplice prodotto collocato a sportello oggi palesemente non è trasparente, tanto che nessuno è in grado di dire qual è il proprio Total Expense Ratio del suo risparmio gestito, questo diventa il grande alibi del “liberi tutti”, per cui oggi in Italia quasi nulla è trasparente. Provate a sapere mediamente quali sono i valori di exit da una startup? È un dato nella maggior parte dei casi segreto: nella migliore delle ipotesi, viene dichiarato un rendimento senza sapere da dove arriva, se dalla generazione di valore oppure il gestore si è preso tutto il rendimento attraverso meccanismi elaborati di liquidation preference. Perché quello che succede verso i risparmiatori non necessariamente è molto diverso da quello che avviene verso gli investiti.
Conclusioni
Il settore finanziario efficiente in un Paese è il principale motore della crescita economica, mette a terra la benzina che serve alle aziende per crescere: se è inefficiente, diventa una palla al piede che affossa l’intero Paese. Purtroppo, quello italiano dimostra di non performare. Siamo una nazione che pur avendo capacità tecnico-scientifiche che ancora oggi sono da Paese-guida al mondo, per quanto riguarda il settore finanziario passiamo da uno scandalo all’altro, abbiamo regolatori che non vedono o che fanno sempre finta di non vedere, e se vedono non sanzionano.
Ma le nuove generazioni non hanno molto patrimonio da erodere e necessitano di strumenti efficienti: fortunatamente, nonostante le resistenze e ostacoli normativi costruiti ad arte, il Fintech sta arrivando in forze, finanziato con molta liquidità a livello internazionale che dimostra come si può, tramite l’innovazione, aumentare il livello di efficienza di un ordine di grandezza, anche in un periodo in cui i tassi di interesse sono negativi.