pubblicità e ironia

Umorismo nel marketing, può essere un boomerang: come evitare disastri



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L’umorismo è una potente leva di marketing, ma richiede strategia e professionalità. Molti piccoli imprenditori lo usano improvvisando, rischiando di danneggiare la propria reputazione ridicolizzando i clienti sui social media

Pubblicato il 26 mar 2025

Gabriele Gobbo

Consulente e docente in digital marketing, divulgatore della cultura digitale



influencer marketing

Sono sempre più convinto che il misunderstanding legato al “tutto gratis su internet“, di cui ho parlato anche in precedenti articoli, stia dimostrando sempre di più quanto sia facile alterare le convinzioni delle persone, soprattutto quando si tratta di comunicazione, promozione, pubblicità e marketing.

L’equivoco dell’umorismo come facile leva di marketing

Questo lo noto ogni giorno sui social, dove ormai possiamo assistere all’invasione delle “truppe cammellate” composte dai vari gestori frettolosi di locali pubblici e negozi. Allo stesso modo, credo sia stata male interpretata anche la leva di marketing del fare ridere i potenziali clienti.

Spot pepsi vs coca cola

Ma andiamo con ordine.

I grandi casi di successo dell’umorismo nel marketing

Vero è che ci sono state campagne pubblicitarie di raffinata fattura e di grande successo basate sull’umorismo, come la famosissima “telefonata che allunga la vita” della SIP con un Massimo Lopez in gran forma, realizzata dall’agenzia di Armando Testa, fino alla più recente campagna del Buondì Motta con l’asteroide che cade in testa alla mamma. E se andiamo ancora più indietro nel tempo, a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, non possiamo non pensare alle spassose scaramucce degli spot comparativi tra Coca-Cola e Pepsi, che ci hanno regalato chicche sopraffine, come i bambini che usano lattine di Coca-Cola per raggiungere il distributore. Delle vere opere d’arte.

L’umorismo sui social: strategie dei grandi brand

Oggi la sfida si gioca a suon di post sui social media, celebri le blastate di Ryanair, che sfrutta quasi ogni critica o commento negativo per costruire un post sagace con tanto di screenshot. I grandi marchi, poi, se la giocano e se la ridono fra loro commentando i post, sempre sul filo dell’offesa, ma mai oltre la linea di sicurezza.

Sia che si tratti di blastare un utente, sia che si tratti di rispondere alla concorrenza. Tutto si gioca su una sottile linea rossa, in bilico tra il successo e il disastro. Dietro ci sono analisi, studi, professionisti del settore e agenzie pubblicitarie che creano, gestiscono e producono comunicazione, spesso con un background enorme e casi studio di altissimo livello.

Fin qui l’umorismo è una leva di marketing potente, usata bene, studiata e implementata con cura maniacale e certosina, che fa apparire questa strategia vincente, ma soprattutto, e purtroppo, facile da usare. Ed è proprio questa apparente semplicità a trarre in inganno molti imprenditori, che pensano di poterla replicare senza una strategia precisa.

Quando l’umorismo nel marketing diventa un boomerang

Ma ahimè, come dicevo a inizio articolo, sto assistendo a un’invasione quotidiana di video, reel, short e TikTok di locali, ristoranti e negozi, che usano l’umorismo in modo sbagliato e dannoso, forse inconsapevolmente. Mi spiego meglio: avete presente quei video in cui all’interno di un bar un cliente fa richieste un po’ fantasiose e il barista gli risponde male o lo manda via? Oppure quelli delle pizzerie in cui un cliente chiede una pizza con l’ananas e gli portano una margherita dicendogli che l’ananas va mangiato a casa? Oppure il negozio in cui un cliente chiede un prodotto particolare e, tra varie gag, i commessi lo prendono in giro? Avrei mille altri esempi, ma la caratteristica principale è sempre la stessa: far ridere il pubblico prendendo in giro il cliente. Fa ridere? Probabilmente sì. È giusto? Non ne sono convinto.

Spesso questi video nascono da situazioni reali, quindi la gag che viene costruita per richiamare quell’accadimento sarà vista anche dal cliente stesso, che non farà fatica a riconoscersi. E se un cliente si sente preso in giro, il danno non si limita a una singola persona: si diffonde, compromettendo la reputazione dell’intero brand.

I danni a lungo termine sulla percezione del brand

E questa non è una buona mossa: quel cliente molto probabilmente deciderà di non frequentare più quel punto vendita, parlerà male dell’esperienza ai suoi amici e, peggio, farà partire un piccolo flame sui social. Un aspetto che spesso viene sottovalutato è l’effetto a lungo termine di questi contenuti sulla percezione del brand.

Nell’era digitale, ogni interazione lascia una traccia e i clienti, ormai abituati a ricercare informazioni online prima di scegliere dove spendere il proprio denaro, potrebbero imbattersi in questi video e farsi un’idea poco rassicurante. Un locale che deride i clienti, anche solo per intrattenimento, rischia di costruirsi un’immagine poco accogliente, respingendo potenziali avventori ancora prima che mettano piede nel negozio. La fiducia, una volta erosa, è difficilmente recuperabile, e basta un episodio mal gestito per compromettere la reputazione costruita con anni di lavoro.

L’uso dellironia nella comunicazione dei business locali può generare un impatto ambiguo, specialmente in un’epoca in cui la reputazione online è fragile e facilmente influenzabile. Se da un lato può creare coinvolgimento e rendere il brand più memorabile, dall’altro un’ironia mal calibrata può risultare respingente, alimentare critiche e generare sentimenti negativi nei clienti.

Il rischio dell’identificazione del cliente

Il rischio più grande è quello di trasformare un contenuto pensato per divertire in un deterrente per il pubblico. Chi si sente ridicolizzato, anche indirettamente, difficilmente tornerà a frequentare quel locale o negozio, preferendo realtà percepite come più accoglienti e rispettose.

Questo è lo stesso effetto che si ottiene quando si entra in un locale e il gestore o la cameriera, con troppa confidenza, raccontano aneddoti su altri clienti, magari in modo divertente o critico. E come avviene nelle conversazioni reali, anche sui social la ripetizione amplifica il problema: più persone adottano lo stesso tono, più diventa accettato come norma. All’inizio magari si ride, ma il secondo pensiero che viene in mente è: ‘Se lo fa con me parlando di qualcun altro, cosa dirà di me quando esco?’. Il risultato? Semplice, non ci torniamo più. Perché se oggi la risata è su qualcun altro, domani potrebbe essere su di noi. Ed è esattamente la percezione che questi video rischiano di generare: non più contenuti ironici e coinvolgenti, ma un boomerang comunicativo che allontana i clienti anziché fidelizzarli.

Trend virali e rischi nella comunicazione

Ma il problema non finisce qui. A volte le gag non sono originali o basate su fatti accaduti realmente nel proprio punto vendita, ma sono semplicemente trend dei social riprodotti da molti altri. Potrebbe sembrare una pratica più innocua e con meno rischi, ma non lo è. Se un video che “blasta” un cliente diventa virale, significa che quella situazione o richiesta particolare è abbastanza comune, e chi guarda il video potrebbe riconoscersi in essa e immedesimarsi. Non sarò quindi proprio io il cliente preso di mira, ma saprò che in quel locale si prende in giro chi si comporta come me.

Insomma, può diventare un disastro su tutti i fronti.

Secondo me, quindi, questa pratica se fatta improvvisando è deleteria e va trattata coi guanti, anzi, con le pinze e i guanti, perché può essere kryptonite. Oggi un post sbagliato può generare uno shitstorm di proporzioni galattiche, e se il flame esce dai social e arriva sotto gli occhi di un giornalista a caccia di storie succose (e i flame lo sono, vedasi le polemiche sugli scontrini), il disastro è servito. Ci ritroveremo citati in decine di articoli che parlano del nostro video, e affidarsi all’ormai defunto detto “parlatene bene, parlatene male, purché ne parliate” per difendersi peggiora le cose. Perché, come tutti sappiamo, le persone amano lamentarsi e scagliarsi contro qualsiasi cosa, quindi se parte lo shitstorm, finirà probabilmente con conseguenze devastanti.

Consigli per un uso consapevole dell’umorismo nel marketing

Quindi, per tirare le somme della questione, se non c’è la supervisione di un esperto, bisogna fare in proprio molta attenzione a usare a casaccio l’umorismo come leva di marketing, soprattutto per piccole realtà che non hanno risorse per un lavoro certosino e studiato nei minimi dettagli, considerando sempre i pro e i contro del contenuto da pubblicare. Prendere uno smartphone, piazzare due luci e registrare un video “cattivello” per far ridere i follower è facilissimo, ma altrettanto facile è finire dalla parte sbagliata della comunicazione.

Ma se proprio non si può resistere alla tentazione di usare l’umorismo nei contenuti, almeno facciamolo con criterio. Prima di pubblicare, chiediamoci: questo video rafforza la nostra identità o rischia di farci perdere clienti? La battuta che ci sembra geniale potrebbe trasformarsi in un boomerang. Meglio testare, osservare e soprattutto ricordare che l’obiettivo è attrarre, non respingere. L’ironia funziona quando crea coinvolgimento, non quando fa sentire il pubblico bersagliato. E alla fine, meglio un cliente che ride con noi che uno che se ne va senza più tornare.

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