L’unione Europea ha da tempo dichiarato di voler porre fine alle pratiche abusive poste in essere dalle Big Tech, accusate più volte di aver abusato delle proprie posizioni dominanti e di aver creato dei veri e propri monopoli digitali, grazie ai quali spodestare la concorrenza ed imporre condizioni di utilizzo dei propri prodotti svantaggiose.
La principale leva che sarà utilizzata è il Digital markets act, proposta di legge della Commissione europea, che è sempre più al centro di un dibattito, come dimostra l’intervento sul tema, ieri, dell’Antitrust italiano e un recente studio del Centro Politiche Europee (CPE).
Big tech, il nodo della questione antitrust
Il DMA è intervento innovativo e al tempo stesso complesso, muovendosi in terra incognita. Caratteristica peculiare dei monopoli digitali è, infatti, quella di non essere interpretabili alla luce delle tradizionali regole dell’antitrust, non sussistendo una lesione diretta nei confronti dei consumatori in termini di prezzo, ma spostandosi le condotte abusive al trattamento dei dati (siano essi personali che relativi alle vendite dei competitors).
Inoltre, sebbene i servizi delle Big Tech siano accomunati dal carattere “digitale”, sono nella sostanza enormemente diversi, rappresentando l’estrinsecazione di modelli di business del tutto eterogenei, cui appare molto difficile applicare regole comuni.
D’altro canto è però (vedi sotto) un tema all’esame anche delle autorità USA, che pure finora si sono dimostrate ben più liberiste con le big tech, rispetto all’Europa. Nel mondo si sta imponendo insomma l’idea che qualche cosa di nuovo sul tema, nonostante tutto, debba essere fatto.
Antitrust Big tech, è cambiato tutto persino negli Usa: i nuovi scenari
La natura peculiare delle Big tech, sinora, è stata una delle principali motivazioni che hanno “rallentato” l’azione delle Autorità Antitrust: la Commissione Europea, tuttavia, mediante il Digital Markets Act (c.d. DMA) si è posta il chiaro obiettivo di riformare l’intero impianto normativo antitrust, di modo che lo stesso possa ritenersi conforme alla nuova realtà digitale del mercato e costituire una reale .
Tale atto non ha mancato, però di sollevare molte perplessità in capo ad Autorità ed esperti, che hanno riscontrato la presenza di numerosi punti critici nella formulazione del testo della proposta.
Le criticità del DMA riscontrate dall’AGCM
In occasione della presentazione della Relazione annuale sull’attività svolta dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, il Presidente dell’AGCM Roberto Rustichelli ha colto l’occasione per esprimere alcune perplessità in merito al futuro del mercato digitale, nel caso in cui il Digital Markets Act dovesse essere emanato nella sua formulazione attuale, riconoscendone comunque l’estrema rilevanza nel contesto normativo attuale.
“Le piattaforme digitali”, afferma Rustichelli nel suo discorso al Senato, “sono ormai divenute uno snodo fondamentale per gli utenti commerciali che intendono raggiungere i consumatori online e alcune di esse sono arrivate a godere di un potere di mercato consolidato e duraturo, che conferisce loro la facoltà di agire slealmente nei confronti dei soggetti che con esse si interfacciano. La concorrenza ne risulta spesso compromessa e, di conseguenza, i servizi innovativi generati dai concorrenti commerciali delle piattaforme potrebbero non giungere al consumatore, o il processo di accesso agli stessi da parte dei consumatori potrebbe essere rallentato, con conseguenze negative sul benessere individuale e collettivo. È, dunque, apprezzabile l’iniziativa assunta dalla Commissione Europea nel dicembre 2020 con le proposte del Digital Markets Act e del Digital Services Act”.
“Di fronte a monopoli dai tratti così inediti e non sempre agevolmente contrastabili con i tradizionali strumenti antitrust”, continua, “è positivo che si apra lo spazio della regolazione, terreno sul quale l’Europa ha alle spalle una importante tradizione. Tuttavia – evidenzia il presidente – l’attuale testo del Dma presenta ampi spazi di miglioramento e, a tal fine, l’Autorità ha ripetutamente evidenziato numerose criticità”.
Sono due, in particolare, le criticità del DMA richiamate da Rustichelli:
- Il digitale non è un settore ma una tecnologia che pervade tutta l’economia, per cui è discutibile un approccio one size fits all, con l’introduzione di regole uguali per tutti di fronte a modelli di business molto diversi;
- La nuova disciplina privilegia un modello di enforcement centralistico, imperniato sulla competenza esclusiva della Commissione.
La Commissione UE, infatti, mediante il DMA pone sé stessa in un ruolo centralissimo, sottraendo spazio d’azione alle autorità territoriali. Quest’ultime non hanno mancato di criticare tale decisione, che rischia di disperdere tutto l’expertise accumulato nel corso degli ultimi anni mediante la conduzione di numerose indagini nei confronti delle Big tech.
Senza la previsione di una rete di Autorità che cooperino fra loro, infatti, vi è il rischio contrato che possano verificarsi gravi lacune e ritardi nell’attività che Bruxelles dovrà porre in essere, anche alla luce dell’”oggettiva carenza delle risorse che la Commissione potrà dedicare all’assolvimento dei nuovi compiti possa determinare pericolose lacune di tutela, con conseguente vulnus per i diritti fondamentali degli operatori economici e per l’assetto concorrenziale dei mercati”.
La carenza di risorse e la mancanza di una visione chiara sulle peculiarità delle aziende operanti nel digitale, rischia, pertanto, di portare all’erogazione di sanzioni potenzialmente incoerenti con le necessità del mercato, costituendo un minus, e non un valore aggiunto, per la corretta tutela della concorrenza sul mercato.
Stando a quanto riportato da Rustichelli, “non vi è ragione perché la felice esperienza dell’European Competition Network, maturata in oltre 15 anni di applicazione condivisa delle regole europee di concorrenza, non continui ad essere utilizzata appieno in questa materia. Tanto più alla luce del rilevante contributo che proprio le Autorità nazionali di concorrenza hanno fin qui dimostrato di saper dare ed effettivamente hanno dato con riferimento ai mercati digitali”.
“L’auspicio”, conclude Rustichelli, “è che si possa approdare ad una soluzione in grado di rafforzare realmente la competizione e l’equità nei mercati digitali, al contempo valorizzando l’esperienza accumulata dalle Autorità nazionali di concorrenza che, diversamente da quanto avvenuto oltreoceano, hanno per prime intuito e contrastato i comportamenti sleali delle piattaforme, cogliendone la pericolosità per il buon funzionamento del mercato e per i diritti dei consumatori”.
Le condotte big tech censurate dall’AGCM italiano
E’ indubbio che il patrimonio informativo delle singole Autorità nazionali non possa e non debba andare disperso, ma debba invece costituire oggetto di profonda condivisione, al pari di quanto attualmente avviene sotto il profilo della tutela dei dati personali.
La sola Autorità Italiana, nel 2020, ha avviato numerosi procedimenti aventi ad oggetto i mercati riconducibili alle piattaforme digitali controllate dalle Big Tech, come riportato all’interno della Relazione annuale sulle attività svolte:
- nell’ambito del procedimento A529, avviato nei confronti di Alphabet, Google LLC e Google Italy sulla base di una segnalazione di Enel X Italia, , l’Autorità ha approfondito l’analisi dell’ipotesi istruttoria contenuta nel provvedimento di avvio relativa all’esistenza di un rifiuto costruttivo a dare accesso alla sua piattaforma Android Auto alla app di ricerca e navigazione JuicePass (già Enel X Recharge), sviluppata da Enel per i servizi di localizzazione e prenotazione delle colonnine per la ricarica delle auto elettriche, che costituiva un servizio innovativo in una fase cruciale di sviluppo della mobilità elettrica, accertando che Google avrebbe intenzionamente tentato di escludere un concorrente che ha sviluppato una app “specialistica”, così da proteggere e consolidare il modello di business di Google Maps e il suo ruolo di punto di accesso agli utenti e al flusso di dati generato dalle attività degli stessi.
- nel procedimento A542, su segnalazione di Interactive Advestising Bureau Italia (IAB), nei confronti delle società del gruppo Google Alphabet Inc., Google LLC e Google Italy S.r.l., l’AGCM ha ipotizzato che Google, soggetto verticalmente integrato e presente nei diversi mercati che compongono la filiera della pubblicità online e nell’offerta di servizi sopra individuati che consentono l’acquisizione di dati rilevanti ai fini della targhettizzazione delle campagne pubblicitarie di display advertising, abbia posto in essere condotte commerciali suscettibili di ostacolare i propri concorrenti non integrati e di mantenere e rafforzare il proprio potere di mercato, in violazione dell’articolo 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Google avrebbe posto in essere una condotta di discriminazione interna-esterna, consistente nel consentire alle proprie divisioni interne strumenti di tracciamento che permettono di rendere i servizi DSP, SSP e gli AD server di Google in grado di raggiungere una capacità di targhettizzazione che altri concorrenti altrettanto efficienti non sono in grado di replicare a causa del rifiuto di dare accesso a strumenti analoghi.
- Per quanto riguarda gli ostacoli posti all’accesso al marketplace, in data 14 luglio 2020, l’Autorità ha avviato un procedimento (I842), ai sensi dell’art. 101 del TFUE, ipotizzando che i gruppi Apple e Amazon abbiano messo in atto un’intesa restrittiva della concorrenza per vietare la vendita di prodotti a marchio Apple e Beats da parte dei rivenditori di elettronica non aderenti al programma ufficiale Apple, ma che acquistano comunque legittimamente i prodotti dai grossisti per rivenderli poi al dettaglio, riservando così il marketplace a un numero di operatori non selezionato sulla base di caratteristiche qualitative.
- infine, sempre nell’ambito dei servizi di intermediazione sui marketplace, l’Autorità sta proseguendo nell’istruttoria avviata nei confronti di alcune società del gruppo Amazon (A528) volta a verificare la liceità di alcune condotte che conferirebbero unicamente ai venditori terzi che aderiscono al servizio di logistica offerto da Amazon stessa (“Logistica di Amazon” o “Fulfillment by Amazon”) vantaggi in termini di visibilità della propria offerta e di miglioramento delle proprie vendite su Amazon.com, discriminando i venditori che non sono clienti di Logistica di Amazon. Scopo dell’AGCM è verificare se, attraverso tali condotte, Amazon sia in grado di sfruttare indebitamente la propria posizione dominante nel mercato dei servizi d’intermediazione sulle piattaforme per il commercio elettronico al fine di restringere significativamente la concorrenza nel mercato dei servizi di gestione del magazzino e di spedizione degli ordini per operatori di e-commerce, nonché, potenzialmente, nel mercato dei servizi d’intermediazione sui marketplace, a danno dei consumatori finali.
Chiaramente, le informazioni risultanti dalle istruttorie condotte dalle singole Autorità costituiscono un enorme valore aggiunto per la Commissione Europea e per le future indagini che dovranno essere condotte nei confronti delle Big Tech.
Gli ulteriori rischi per le Big Tech: studio CPE
Anche gli esperti del settore non hanno mancato di sollevare alcune preoccupazioni in merito all’attuale versione del Digital Markets Act: Lukas Harta, giurista del Centro Politiche Europee, in particolare, hanno evidenziato, all’interno del report titolato “Abuse of Dominance and the DMA”[1] come le Big Tech rischino di essere oggetto di duplici sanzioni da parte delle Autorità Antitrust Europee.
Il DMA, infatti, “prevede espressamente che rimane “ferma” l’applicazione dell’art. 102 TFUE perché secondo la Commissione, le due leggi hanno obiettivi normativi differenti: mentre l’obiettivo dell’art. 102 TFUE è garantire una concorrenza non falsata nel mercato interno, la DMA mira a garantire che i mercati in cui sono presenti i gatekeeper siano e rimangano contendibili ed equi. Il DMA non dovrebbe quindi avere alcuna influenza sull’applicazione del diritto della concorrenza. Le pratiche che in precedenza erano punibili come abuso di posizione dominante dovrebbero rimanere punibili ed essere perseguite anche in caso di violazione della DMA e viceversa”.
Ciò comporterebbe una violazione del principio del “ne bis in idem” codificato nell’art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali.
Secondo Lukas Harta, pertanto, “in caso di infrazioni, le aziende sono minacciate di doppia imputazione e doppia sanzione, sia attraverso l’applicazione del nuovo DMA, sia sulla base del vigente diritto della concorrenza dell’UE. Questo sarebbe però vietato in linea di principio, anche perché viola l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE”.
“La Corte di giustizia europea (CGUE), alla luce della sua precedente giurisprudenza, considererà
presumibilmente ammissibile la doppia incriminazione. Tale linea però dovrebbe essere corretta. La CGUE quindi invitata a rivedere ora la sua linea giurisprudenziale precedente”, sottolinea Harta. Per tali ragioni, conclude, “La Commissione dovrebbe seguire tale orientamento della Corte, escludendo quindi la doppia sanzione e il Parlamento dovrebbe adattare di conseguenza il progetto di legge”.
Viceversa, stando al testo della Proposta reso pubblico dalla Commissione, le Big tech potrebbero dover rischiare di affrontare sanzioni fino al 10% del loro fatturato annuale, che si traducono in miliardi di euro, per le violazioni del DMA.
[1] https://www.cepitalia.eu/fileadmin/user_upload/cep.eu/cepInput_Abuse_of_Dominance_and_DMA.pdf