Gaming e Società

Videogiochi e violenza: smontiamo i pregiudizi



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I videogiochi sono spesso associati a comportamenti violenti. Tuttavia, gli studi scientifici non confermano questo legame. Anzi, la narrazione, il dialogo e le interazioni con i personaggi sono elementi sempre più presenti nei giochi, a testimonianza del fatto che molti sviluppatori preferiscono puntare su approcci differenti

Pubblicato il 3 nov 2023

Giovanni Luglietto

Yamatologo, traduttore e giornalista videoludico



gaming

I videogiochi, durante la loro evoluzione, hanno subito una sorta di discriminazione moralista da parte di buona fetta della società. Non era raro vedere servizi televisivi, articoli sensazionalistici che correlavano il videogioco del momento a un’escalation di violenza da parte dei più giovani. Presi di mira erano soprattutto titoli molto famosi, in grado di arrivare anche al di fuori della bolla dei videogiocatori. Tra questi i più ricorderanno sicuramente i vari Grand Theft Auto e, ancor prima, il chiacchieratissimo Carmageddon.

I videogiochi demonizzati come i fumetti

Questa strategia di demonizzazione, non corroborata da alcun dato scientifico, non è stata esclusivamente messa in atto contro i videogiochi, ma molti altri medium ne sono stati afflitti. Basti pensare alla “golden age” dei fumetti americani, durante gli anni ‘50, che catturò l’attenzione dello psichiatra Frederic Wertham. Questi ne sottolineò gli effetti negativi, classificandola come letteratura di matrice negativa, in grado di portare a un incremento della violenza e degli atteggiamenti criminali da parte dei più giovani. Gli studi di Wertham in merito, eseguiti in maniera estremamente discutibile, con prove a sostegno della sua tesi completamente inventate, avevano però toccato un nervo scoperto. La macchina del “moral panic”, ovvero il panico derivante dalla presunta perdita di valori morali, era stata messa in moto e non poteva più essere fermata. In sostanza, i fumetti erano diventati il facile capro espiatorio di un normale e ciclico generation gap impossibile da colmare.

In principio fu mortal combat

Cosi come accaduto per i fumetti, i videogiochi hanno subito sorte simile. La fabbricazione di prove a sostegno di una tesi che unisse il gaming e la violenza è stata costante negli anni. A partire dalla grande attenzione mediatica posta su Mortal Kombat, il picchiaduro uscito originariamente nel 1992 nelle sale giochi. Quando questo arrivò successivamente su console casalinghe, molte associazioni si preoccuparono dell’accessibilità di un videogioco così violento da parte dei minori. Tanto da portare a un’udienza al congresso americano tra il 1993 e il 1994, in seguito alla quale si giunse al sistema di classificazione ESRB, ancora in vigore oggigiorno, che stabilisce l’età consigliata per un determinato videogioco.

Gli eventi che hanno favorito lo stigma

Eventi catalizzatori della storia statunitense hanno avvicinato maggiormente il grande pubblico alla stigmatizzazione dei videogiochi. Nello specifico, vari episodi di violenza giovanile come il massacro della Columbine High School, avvenuto nel 1999. Investigazioni in merito portarono a scoprire che i due giovani attentatori apprezzassero giochi come Doom. Il legame si cementificò così agli occhi dell’opinione pubblica, sebbene i resoconti presentati nel 2004 dai servizi segreti statunitensi, in concomitanza con gli studi del dipartimento dell’educazione a stelle e strisce presentassero un quadro differente. Questi evidenziavano che solo il 12% degli adolescenti che avevano compiuto atti di questo tipo avevano mostrato un interesse nei videogiochi. Una percentuale che, da sola, dovrebbe mettere in prospettiva il problema.

Dal 2004, tuttavia, le cose sono cambiate notevolmente per il mondo dei videogiochi. La loro popolarità è esplosa e un numero sempre crescente di appassionati del medium ha reso l’industria multimilionaria, pertanto è stato anche più semplice trovare un legame (almeno apparente) tra eventi violenti e la passione per i videogiochi. I casi registrati in cui il gaming è stato tirato in ballo come causa scatenante di massacri sono svariati, come la sparatoria alla scuola elementare Sandy Hook del 2012, quella all’Olympia Mall di Monaco nel 2016, quella alla Stoneman Douglas High School nel 2018 e senza dover guardare troppo lontano anche alle proteste in Ffrancia risalenti al giugno 2023.

Solo un altro moral panic?

Ma, ancora una volta, viene da chiedersi se questo legame sia reale o semplicemente un altro “moral panic” con un facile bersaglio a cui imputare tutto. Per scoprirlo, basta dare un’occhiata ai veri studi realizzati in merito. L’APA, ovvero l’American Psychological Assosiaction, ha reiterato che ci sono scarse possibilità di una correlazione tra il giocare titoli violenti e il commettere atti brutali e criminali. Ci sono senza dubbio prove che dimostrano che i videogiochi possono scatenare in determinate situazioni un comportamento aggressivo, ma che questo, esaurendosi con urla e poco più, risulti completamente differente dalla violenza stessa in grado di arrecare danno a terzi. Pertanto, nel 2017 l’APA ha suggerito a politici e media di evitare nel modo più categorico di creare legami inesistenti e non supportati da prove scientifiche tra eventi violenti e videogiochi.

Non tutti i videogiochi sono violenti

Alla luce dei dati presentati, è chiaro che gli studi in materia non hanno trovato legami concreti tra il giocare titoli violenti e la violenza stessa. Tuttavia, c’è chi è comunque preoccupato dall’esposizione a determinati temi, soprattutto se sono coinvolti minori. Una preoccupazione, dal punto di vista educativo, più che legittima. Esistono genitori e tutori che preferiscono evitare un’esposizione elevata alla violenza, che essa provenga da videogiochi, film, fumetti o altri medium.

Tuttavia, ciò non vuol dire eliminare completamente il gaming dalla vita dei più giovani. Ho avuto modo in precedenza di discutere dei vantaggi educativi del medium e di come alcuni giochi possano effettivamente aiutare la formazione intellettiva ed emotiva di bambini e adolescenti.

Molti sviluppatori, al giorno d’oggi, preferiscono puntare su approcci differenti. Realizzando quindi giochi che, rinunciando agli aspetti più violenti, raccontano storie, promuovono il dialogo, le interazioni con i personaggi e molte altre meccaniche che nulla hanno a che vedere con pistole, spade o armi di qualsiasi tipo. E non si tratta di una minoranza, ma i giochi che vanno in questa direzione sono sempre più. Tanto da spingere il colosso Steam, la piattaforma più popolare per la distribuzione digitale di videogiochi su PC, a creare un vero e proprio evento dedicato ai “wholesome games”, traducibile con videogiochi salubri e salutari.

L’evento ha visto circa 300 giochi in saldo durante l’estate 2023, con un riscontro notevole da parte del pubblico. Uno dei più apprezzati e acquistati è stato Venba, la storia di una famiglia tamil trasferitasi in Canada negli anni ‘80. Il gioco è principalmente narrativo, ma mette al centro della storia non solo i problemi che questa famiglia di immigrati ha dovuto affrontare, ma l’esperienza del figlio della coppia, filtrata attraverso la cucina e la familiarità di piatti e odori della propria tradizione.

E gli esempi sono davvero tanti e variegati, non solo storie di immigrazione ma anche semplici puzzle, rompicapi di ogni tipo, avventure per i più giovani e molto altro.

Conclusioni

Tali esperienze possono senza dubbio coesistere con quelle più violente, creando un panorama variegato così come quello della vita stessa. Non possono infatti esistere solo prodotti violenti, che permettono di dare sfogo alle pulsioni più oscure dell’animo umano nello spazio sicuro del mondo virtuale, ma grazie allo sforzo di nuove generazioni di sviluppatori, sta trovando riscontro anche l’aspetto meno aggressivo che il medium può senz’altro garantire. Così come il cinema non è popolato da soli film d’azione e dell’orrore, allo stesso modo il mondo dei videogiochi sta trovando nuove direzioni in cui espandersi ed evolversi.

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