La web tax così com’è formulata nella Manovra 2019 rischia di causare recessione economica e di danneggiare il nostro mercato digitale. E tutto questo proprio adesso che lo vediamo – finalmente -uscire dal letargo, com’è evidente da molti segnali positivi registrati nel 2018 nei settori ecommerce e startup, tra gli altri.
Ecco perché proponiamo che la web tax sia convertita in un’imposta sui redditi digitali, non più sui ricavi.
Si eviterebbero così effetti distorsivi sull’economia e contraccolpi negativi per le imprese italiane soddisfacendo al contempo la necessità di adeguare il sistema tributario al crescente peso dei servizi digitali. Una esigenza, quest’ultima, non certo peculiare del nostro Paese, ma comune a tutti gli Stati europei (e non solo).
Sappiamo ora che la web tax è voluta in Manovra 2019, come un’imposta del 3% sui ricavi dei giganti del web con fatturato globale di almeno 750 milioni di euro, di cui 5,5 derivanti da servizi digitali. Ma così formulata, come tassa dei ricavi, ha effetti recessivi; e quindi ci aspettiamo una modifica della norma già all’inizio del 2019, un po’ come indicato una proposta di direttiva europea della Commissione Ue.
Perché una web tax
Sappiamo che l’intangibilità dei servizi digitali permette agli operatori del web di situare le proprie attività in territori distanti rispetto a dove sono fruiti i loro servizi e dove sono ubicati i loro clienti. Inevitabilmente, nel corso degli anni, molti player digitali hanno optato per stabilire i propri hub europei in Stati dove la pressione fiscale sui redditi è minore (per esempio, Irlanda e Lussemburgo), a scapito degli Stati dov’è generata la maggior parte del volume d’affari (tra cui, senza dubbio, l’Italia).
Anche considerando il risalto mediatico concesso all’esiguo carico fiscale versato dalle multinazionali digitali, alcuni Stati europei hanno deciso d’introdurre, unilateralmente, imposte sui servizi digitali ad hoc per recuperare parte del gettito fiscale perso.
Mercati digitali, i numeri e le nuove speranze per l’Italia
Se alcune nazioni come gli Stati Uniti, la Cina e il Regno Unito hanno cavalcato da anni la rivoluzione digitale del retail, l’Italia è rimasta in ritardo nel servire questo mercato di dimensioni globali. La lentezza italiana ha fatto sì che l’export dei nostri prodotti attraverso il canale digitale perdesse punti, limitandone così la crescita.
Durante il 2018 però, attraverso il nostro rapporto diretto con le realtà digitali, abbiamo osservato una svolta da parte delle imprese italiane che hanno deciso di cambiare drasticamente il loro atteggiamento nei confronti del digitale e hanno tutte iniziato sia a investire in tecnologie online, sia a servire i clienti digitalmente attraverso i canali fisici.
Questo cambio di paradigma ci porterà dei sicuri benefici economici e industriali di cui oggi si vedono soltanto le prime avvisaglie. La possibilità di sfruttare il grande valore del nostro marchio Made in Italy per una platea globale ci porterà a considerare in maniera diversa il sistema competitivo con cui confrontarci nei prossimi anni. Molte imprese italiane, inoltre, hanno ben compreso che i loro clienti sono già entrati in una fase di totale digitalizzazione attraverso l’uso di diversi strumenti tecnologici. Di conseguenza anche la distribuzione fisica, che rappresenta per l’Italia un fiore all’occhiello, può essere ulteriormente valorizzata innestando quelle tecnologie che possono accrescere esperienzialità e personalizzazione del cliente italiano e internazionale, anche in relazione al rapporto costruito col territorio e con i centri della cultura e dello shopping.
La svolta del 2018 è anche testimoniata dai numeri in gioco. Il valore degli acquisti online supera nel 2018 i 27,4 miliardi di euro, con un incremento del 16% rispetto al 2017. La crescita del mercato in valore assoluto, pari a 3,8 miliardi di euro, è la più alta di sempre. Gli acquisti online di prodotto valgono 15 miliardi di euro (+25%), mentre i Servizi 12 miliardi (+6%). Il Turismo (9,8 miliardi di euro, +6%), si conferma il primo comparto dell’eCommerce. Tra i prodotti, si consolidano Informatica ed elettronica di consumo (4,6 miliardi di euro +18%) e Abbigliamento (2,9 miliardi, +20%) e crescono a ritmi molto interessanti Arredamento (1,4 miliardi, +53%) e Food&Grocery (1,1 miliardi, +34%).
In questo contesto le tecnologie e i consumatori sono gli asset chiave sui quali si sta sviluppando la sfida competitiva del retail moderno.
Le tecnologie diventano sempre più avanzate e applicabili a nuovi ambiti. Temi come l’artificial intelligence, i chatbot, la blockchain e la robotica sono sulla bocca di tutta la business community, ma solo un numero limitato di aziende le sta sperimentando realmente. Tra i progetti più interessanti vi sono quelli legati agli aspetti logistici, come l’automazione del picking&packing, le analisi predittive sulla rotazione dell’inventario e i sistemi di tracciamento delle spedizioni tramite tool inseriti nel packaging. Se molte tecnologie hanno trovato un’applicazione chiara e dai riscontri tangibili nelle attività logistiche, in altri casi sono ancora in una fase iniziale di sperimentazione: basti pensare al potenziale impatto della blockchain sui sistemi di pagamento. Di fronte a questo scenario tecnologico, caratterizzato da fortissime potenzialità ma anche significative zone d’ombra, le imprese sono chiamate a un costante monitoraggio della loro evoluzione e allo scouting delle applicazioni più interessanti.
Sul fronte del consumatore invece, la digitalizzazione dei comportamenti di consumo e l’omnicanalità sono i due trend più interessanti. Assistiamo ogni giorno all’evoluzione dei comportamenti di dialogo con i brand e delle modalità di shopping: si affinano le competenze digitali, si sperimentano nuove modalità logistiche e di pagamento, così come si ricercano esperienze di dialogo con i brand che possano adattarsi in qualunque momento e in qualunque luogo alle necessità del singolo consumatore. Tutto questo ha delle importanti ripercussioni sulle imprese: il sistema d’offerta deve essere costantemente innovato, le attività e i processi interni devono essere adeguati ai nuovi servizi, sono necessarie competenze sempre più specialistiche, ma soprattutto le decisioni strategiche sono soggette a una costante discussioni a causa della rapidità con cui i nuovi bisogni dei consumatori e i nuovi elementi competitivi si affacciano sul mercato.
In Italia, come è noto, la digitalizzazione dei consumatori e del retail si sta sviluppando con lentezza, ma più che rimarcare i gap con i paesi più evoluti, è interessante cogliere alcuni segnali positivi di sviluppo. Ci sono start-up totalmente italiane che hanno sviluppato soluzioni innovative a supporto delle attività logistiche, nuovi strumenti di pagamento, nuove modalità di data analytics e nuovi approcci di user experience. Sono realtà che stanno aiutando le altre imprese italiane a essere competitive e che stanno iniziando a guardare anche oltre i confini nazionali. Vi sono poi imprese storiche dove gli imprenditori stanno credendo e scommettendo nel digitale, portando avanti delle vere e proprie rivoluzioni al loro interno. Vi sono infine branch italiane di importanti multinazionali con competenze ed expertise che stanno diventando un benchmark per l’intero gruppo.
Proprio in questo quadro fortemente evolutivo si è aperta la discussione sulla tassazione del web sia in Italia che nel resto dell’Europa e sicuramente i sistemi tributari degli Stati europei (e non solo) necessitano, sempre più, di essere adeguati al crescente peso dei servizi digitali nelle economie nazionali.
Adesso bisogna evitare il pericolo che un passo falso di tipo politico-normativo – vedi l’attuale web tax – possa – anziché favorire le nostre aziende – affossare il nostro nuovo e ancora fragile “rinascimento digitale”.
I possibili effetti distorsivi della web tax italiana
E’ il caso dell’Italia, con la cosiddetta “web tax”. La nuova imposta italiana sui servizi digitali – la cui introduzione era originariamente prevista per il 2019, ma che sarà verosimilmente posticipata – ha come base imponibile i corrispettivi derivanti dalla prestazione di servizi digitali nei confronti di imprese stabilite in Italia, a condizione che il prestatore, residente o meno, abbia erogato un numero complessivo di transazioni digitali a clienti italiani superiore a 3.000 unità nel corso dell’anno solare. Fortunatamente, le vendite di prodotti a distanza (e-commerce indiretto) sono state escluse dall’ambito di applicazione del tributo.
La previsione di tale imposta è stata accolta con sfavore dagli operatori digitali – non senza buone ragioni. Le imposte sui servizi digitali, come quella prospettata in Italia, hanno infatti un potenziale effetto distorsivo sull’economia, soprattutto in un contesto come quello del mercato unico europeo.
La proposta di Digital Service Tax europea
Per tale ragione, proprio al fine di limitare i “danni” da web tax, lo scorso marzo la Commissione europea ha avanzato una proposta di direttiva europea volta a definire una cornice di regole-quadro per armonizzare le future imposte sui servizi digitali dei singoli Stati Ue. A fronte di tale iniziativa, l’Italia ha posticipato l’approvazione del decreto attuativo per la web tax nostrana, che, di fatto, risulta ad oggi “sospesa”.
In realtà, anche la Digital Service Tax prospettata in sede europea presenta notevoli criticità, perché, perlomeno nella sua attuale configurazione, andrebbe ad applicarsi sui ricavi delle imprese digitali, non sugli utili – proprio come la web tax italiana.
In tal modo, l’imposta, prevista per recuperare a tassazione i redditi generati in Italia da multinazionali digitali dislocate all’estero, rischia di andare a colpire, perlomeno indirettamente, le imprese italiane.
Infatti, bisogna tenere a mente che, in genere, le multinazionali digitali vantano quote di mercato sostanzialmente oligopolistiche nei propri settori di appartenenza: di conseguenza, sarebbe facile per loro traslare il peso economico di una web tax sui propri clienti (le imprese) e, in ultima analisi, sui consumatori.
I contraccolpi della web tax italiana sull’economia digitale
Per formulare un esempio: anche se i costi pubblicitari aumentassero a causa della web tax, la maggior parte delle imprese online non rinunceranno ad acquistare spazi promozionali su Facebook e Google. Così come molti e-commerce continueranno a vendere su Amazon, loro fonte principale di fatturato, anche se le commissioni di Amazon crescessero a seguito della web tax (situazione assai verosimile, considerando la bassa marginalità dei marketplace).
I possibili effetti depressivi della web tax italiana sull’economia digitale sono stati confermati da un nuovo studio di Prometeia, commissionato da Netcomm, il consorzio del commercio elettronico italiano, secondo cui i servizi di pubblicità e intermediazione online sono utilizzati in gran parte da imprese di piccola o media dimensione, spesso con bassi margini e limitata possibilità di traslare a loro volta i nuovi costi sui consumatori finali; di conseguenza, sarebbero queste ultime imprese a subire le maggiori conseguenze della web tax in termini di profittabilità e solvibilità.
Ipotizzando diversi scenari macro-economici, Prometeia ha inoltre stimato che la web tax italiana potrebbe condurre ad una perdita di produzione per l’economia digitale nazionale oscillante tra i 164 milioni e i 2 miliardi di euro e a una potenziale perdita occupazionale per la filiera della new economy da 1.550 fino a 17mila addetti.
Un tale esito negativo implicherebbe minori redditi per le imprese digitali italiane da assoggettare a tassazione in Italia, con una consequenziale riduzione del gettito fiscale per il nostro paese; si vanificherebbero, così, proprio gli obbiettivi erariali a cui è finalizzata la web tax.
La Commissione europea è ben consapevole dei limiti di un’imposta digitale che vada a tassare i ricavi e non gli utili: tanto che, accanto alla proposta per la Digital Service Tax, è stata contestualmente inoltrata alle altre istituzioni europee una proposta di direttiva, più a lungo termine, per rivisitare i sistemi impositivi nazionali e le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, individuando un nesso imponibile dell’impresa digitale nello Stato della fonte dei ricavi, integrativo rispetto all’attuale concetto di stabile organizzazione.
Perché un’imposta sui redditi e non sui ricavi
Proprio in tale direzione si dovrebbe muovere l’Italia. Soprattutto, ove si decidesse di proseguire con l’introduzione della web tax, essa andrebbe convertita in un’imposta sui redditi digitali, non più sui ricavi.
Il processo d’applicazione dell’imposta dovrebbe implicare, in primis, la previa determinazione della quota di utili generata dalla multinazionale riferibili alla “giurisdizione” italiana. Per fare ciò, di ausilio possono essere i criteri economici di “profit split” già adottati dall’OCSE in materia di prezzi di trasferimento e nell’ambito BEPS. Per esempio, fattori come la quota-parte delle attività di ricerca e sviluppo o di marketing di una multinazionale digitale riferibili all’Italia, così come il numero di utenti presenti in Italia o la quantità di dati trattati nel nostro paese, assieme ad altri fattori, permetterebbero di determinare la ratio degli utili della multinazionale digitale assoggettabile a tassazione in Italia.
In tal modo, spostando la tassazione dei servizi digitali dai ricavi agli utili, l’Italia potrebbe, si, soddisfare le proprie esigenze erariali, ma con minori effetti distorsivi e dannosi nei confronti dell’economia digitale.