La Cancelliera Angela Merkel, ha dichiarato che la web tax europea è tra le priorità del semestre tedesco di presidenza Ue: entro l’anno si potrebbe dunque disporre di uno strumento di imposizione europeo destinato a finanziare direttamente il bilancio dell’Unione, senza passare attraverso gli Stati Membri. La soluzione dovrebbe seguire lo schema Ocse e superare lo scoglio del ritiro degli Usa dai lavori dell’Organizzazione mondiale.
Una mission cruciale, ma portare a casa il risultato non sarà certo agevole.
I frutti avvelenati della confusione sulla web tax
Il tema della tassazione dei servizi digitali si pone dagli anni ‘90 con diverse giustificazioni, alcune palesemente infondate altre motivate. Il dibattito, soprattutto a livello politico, rimane infatti confuso: molti governi o partiti intendono cavalcare la web tax come forma di rivalsa contro l’elusione fiscale operata dalle multinazionali del web. Altri la vedono addirittura come una protezione delle piccole imprese dalle grandi. Altri ancora come difesa dell’industria nazionale o comunitaria rispetto al predominio statunitense. Questa ultima posizione è quella che è stata presa di mira, giustamente, dall’industria e dal governo americano, con minaccia di ritorsioni.
La confusione ha portato due frutti avvelenati: il primo è la progressione di norme scoordinate a livello degli stati europei, dall’Italia, alla Francia, all’Ungheria, all’Austria al Regno Unito, alla Polonia, con altri paesi che presentato o annunciato proposte, come Spagna, Belgio, Rep. Ceca, Slovacchia, Norvegia, Lituania, Slovenia. Il secondo frutto avvelenato è la creazione di forme di doppia imposizione (in quanto viene tassato il fatturato mentre il profitto rimane sotto la normale imposizione di impresa) che sono inefficienti e vietate dagli accordi internazionali.
Queste imposte basate sulle transazioni o sul fatturato si prestano ad obiezioni molto rilevanti sul piano teorico (doppia tassazione) e a contestazioni sul piano giuridico (violazione degli accordi internazionali) con un contenzioso potenziale fortemente negativo sullo sviluppo dei servizi digitali.
La soluzione migliore, che la Presidenza tedesca dell’Unione nel secondo semestre 2020 potrebbe promuovere, è di puntare direttamente e in modo convinto all’adozione a livello europeo dello schema elaborato dall’OCSE, che rappresenterebbe una chiusura dei potenziali scontri tra Europa e Stati Uniti, ricordati più sopra.
Questa linea porterebbe ad una soluzione che potrebbe bloccare ed eliminare il pasticcio delle norme nazionali, efficacemente schematizzato nella figura seguente[1].
Paese | aliquota | incidenza | soglia di fatturato globale (mil. euro) | soglia di fatturato domestico (mil. euro) | status |
Austria | 5% | Pubblicità | 750 | 25 | attiva da gennaio 2020 |
Belgio | 3% | Vendita dei dati degli utenti | 750 | 5 | Proposta |
Rep. Ceca | 5% | Pubblicità indirizzata uso di interfacce Webi multilaterali fornitura di dati utenti | 750 | 5 | proposta |
Francia | 3% | Offerta di intefaccia Webe pubblicità basata sui dati degli utenti | 750 | 25 | Attiva. La Francia ha sospeso l’applicazione fino al dicembre 2020 per evitare le tariffe di ritorsione sull’export francese. |
Ungheria | 7,5% | pubblicità | 307 | ND | Attiva, ma ridotta allo 0,9% fino a dicembre 2022 |
Italia | 3% | Pubblicità su interfaccia Webe Interfacce Webi multilaterali per vendere e comprare trasmissione di dati degli utenti generati dall’uso delle interfacce Webi | 750 | 5,5 | attiva |
Polonia | 1,5% servizi media audiovisivi e comunicazione commerciale | attiva | |||
Regno Unito | 2% | Piattaforme social motore di ricerca marketplace on line | 570 | 29 | Attiva (ma con rinvii) |
Come si vede le preoccupazioni dell’OCSE e dell’Unione, sono motivate: la situazione è confusa e traspare un’incertezza anche tra gli Stati che si sono più spesi per l’introduzione “sovranista” della web tax: alle fughe in avanti fatte per rafforzare l’immagine decisionista del governo di turno, corrisponde spesso un’indietro tutta fatto di riduzioni della aliquote, rinvii, modifiche, sospensioni.
Solo l’Italia sembra voler tirare dritto. Una situazione disastrosa per chi vuole investire nei servizi digitali, grande o piccola che sia la dimensione d’impresa.
In realtà anche l’Unione condivide lo schema dell’OCSE, ma per resistere alla pressione “sovranista” sulla web tax aveva adottato la risoluzione di una soluzione ponte per frenare il protagonismo degli Stati membri.
La posizione OCSE è equilibrata, essa punta ad evitare la doppia imposizione, che sicuramente si verificherebbe tassando i fatturati o le transazioni, invece dei profitti, come nella normale tassazione delle imprese. L’OCSE individua, con criteri più o meno arbitrari, la formazione di valore determinata dalle informazioni raccolte sul web. Questa sarebbe una fonte di valore aggiuntiva, che concorrerebbe alla formazione della base imponibile, sempre riferita ai profitti e non alle transazioni, con diversa origine territoriale, a cui corrisponderebbe una capacità impositiva del paese in cui quel valore viene generato. Questa specifica fonte di profitto non rientrerebbe nella normale contabilità in capo alla sede legale della società, ma verrebbe attribuita al paese in cui risiedono gli utenti, ossia laddove i loro dati creano il valore.
Questa posizione è condivisa a livello internazionale, anche da alcuni dei titani del web, come vengono chiamate la grandi compagnie dominanti americane. Zuckerberg stesso si è dichiarato a sostegno del lavoro dell’OCSE.
La mission della presidenza tedesca dell’Unione
Oggi, con la presidenza dell’Unione Europea affidata alla Germania, potrebbe accadere qualcosa di nuovo in questo confuso panorama. Potrebbe procedere la strategia europea mirante ad implementare una tassazione dei servizi per evitare che i singoli Stati creino una giungla di tasse a tutto detrimento della competitività dell’industria e dei servizi europei. Ma bisogna vedere se si riuscirà a adottare lo schema OCSE e se tale schema verrà, e in quale misura, condiviso dagli Stati Uniti.
Entro l’anno, quindi, l’Europa potrebbe disporre di uno strumento di imposizione che andrebbe a finanziare direttamente il bilancio dell’Unione, senza passare attraverso gli Stati Membri. Questo primo aspetto sarebbe di grande rilevanza sul piano politico-finanziario, perché segnerebbe l’avvio di una prima dotazione di strumenti impositivi propri dell’Unione.
Sotto il profilo dell’economia digitale, la soluzione dovrebbe seguire lo schema OCSE, evitando la confusione e i conflitti derivanti dall’introduzione di una doppia imposizione attraverso la tassazione delle transazioni o del fatturato. In questo senso è probabile che lavorerà il Ministro delle finanze tedesco Olaf Scholz, da sempre schierato con la soluzione OCSE e contrario alle tassazioni “sovraniste”. D’altra parte, i francesi, preoccupati dalle minacce americane di dazi ritorsivi hanno posposto l’applicazione della loro imposta, proprio per dare tempo all’OCSE d concludere i negoziati.
Il dietrofront Usa
Ma la lettera del 12 giugno del Segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin che annuncia di ritirarsi dai lavori dell’OCSE, ha spiazzato tutti, ed in particolare il ministro Scholz, che avrà in mano la patata bollente di portare a casa un risultato annunciato, avendo perso – per ora – il principale interlocutore. Mnuchin insiste sulle difficoltà americane ad accettare il Primo pilastro della proposta OCSE, ossia quello decisivo sul riconoscimento di un “profitto residuo” delle attività di vendita in un determinato paese, da parte di una multinazionale che non ha sede legale in quel paese. Tale profitto residuo può essere ricondotto, con opportuni algoritmi e forti assunzioni semplificatrici, al maggior valore creato dall’accesso ai dati dei consumatori di quel paese. Questo “profitto residuo” verrebbe tassato dal paese in questione, sottraendo tale base imponibile al paese con sede legale della multinazionale.
Si tratta di un trasferimento di potestà impositiva, che travalica gli attuali accordi internazionali per poter rispettare il criterio di evitare una doppia imposizione sui profitti di impresa. È su questo che Mnuchin ha fatto marcia indietro anche rispetto alle sue posizioni del dicembre 2019.
La lettera del 3 dicembre 2019 di Mnuchin a Angel Gurria, Segretario generale dell’OCSE, si concludeva così:
“Riteniamo che le preoccupazioni dei contribuenti potrebbero essere affrontate e gli obiettivi del primo pilastro potrebbero essere sostanzialmente raggiunti trasformando il primo pilastro in un regime di approdo sicuro. Gli Stati Uniti supportano inoltre pienamente una soluzione del secondo pilastro simile a GILTI. Non vediamo l’ora di lavorare con l’OCSE in questo senso, basandoci sul lavoro già svolto.
Esortiamo tutti i paesi a sospendere le iniziative fiscali sui servizi digitali, al fine di consentire all’OCSE di raggiungere con successo un accordo multilaterale. Sinceramente, Steven T. Mnuchin”.
Nella nuova lettera del 12 giugno, indirizzata oltre che a Gurria, ai ministri dell’economia di Italia, Francia, Regno Unito e Spagna (i maggiori paesi che hanno introdotto la Web Tax), il tono cambia. Si parla di stallo e di opportunità di non distrarre i governi dai più importanti impegni nella lotta al COVID-19. Alla fine, il punto del disaccordo emerge in modo chiaro:
“Gli Stati Uniti non sono in grado di accordarsi, anche su base temporanea, su modifiche fondamentali delle regole al fine di tassare più pesantemente solo un numero limitato di imprese prevalentemente basate negli Stati Uniti. Noi speriamo che più avanti nel 2020 un accordo sul Primo Pilastro possa essere raggiunto. Nel frattempo, gli Stati Uniti rimangono in opposizione alle tasse sui servizi digitali e su simili misure unilaterali. Come abbiamo ripetuto, se alcuni paesi scelgono di imporre o adottare tali tasse, gli Stati Uniti risponderanno con misure appropriate e proporzionali”.
Conclusioni
Una attenta lettura della lettera fornisce elementi per ritenere che il motivo fondamentale dello stallo imposto dagli Stati Uniti risieda nella congiuntura politico-elettorale americana (e non solo). Infatti, i diversi governi alle prese con la crisi da COVID-19 hanno fame di entrate e non sono attenti agli effetti negativi del contenzioso internazionale, in un momento in cui trionfa il localismo e le attività connesse al commercio globale sono in crisi profonda.
Ma è proprio in un momento come questo che bisogna tenere aperte le vie del commercio internazionale e spronare la ripresa degli scambi: non solo la malattia portata dal coronavirus toglie il fiato, ma anche l’economica autarchica assistita non ha molta strada da percorrere davanti a sé.
Il compito del semestre tedesco di presidenza dell’Unione è molto complicato e difficile. Ma Scholz e la Merkel sono quanto di meglio l’Europa può schierare in questo momento.
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- Elke Asen, What European OECD Countries Are Doing about Web Services Taxes,June 22, 2020, Tax Foundation, https://taxfoundation.org/Web-tax-europe-2020/ . ↑