La Commissione Europea sa di avere poco tempo. L’OCSE ha elaborato due pilastri su cui poggiare l’introduzione di una tassazione dei servizi digitali, cercando di evitare sia la doppia imposizione (condannata dai trattati internazionali), sia la discriminazione di un settore o di un paese (condannata in sede di contenzioso giudiziario).
Ma gli Stati Uniti, per voce del Segretario al Tesoro Steven Mnuchin, si sono ritirati prima delle elezioni dal tavolo di confronto, adducendo l’impegno sul coronavirus come prioritario, ma facendo capire che non intendono accettare tassazioni “speciali” dirette a colpire i giganti del web, in quanto società americane.
D’altro canto, l’esigenza di disporre di risorse fiscali addizionali dovuta all’impatto della pandemia, spinge in direzione di introdurre la tassa sui servizi digitali, e i governi europei fremono. Essi credono che la nuova imposta troverà soddisfatta accoglienza popolare in una fase in cui a molti operatori del commercio appare evidente che Amazon in primis, ma anche altri giganti del web, stanno beneficiando della crisi: i valori di capitalizzazione in borsa e i fatturati lo dimostrano.
Digital tax e fughe in avanti dei singoli stati: i rischi
Alcuni paesi, tra cui l’Italia e la Francia, hanno approntato nuove imposte sulla falsariga dell’impostazione proposta dalla Commissione, che colpiscono il fatturato nei rispettivi paesi attribuibile ai servizi digitali, che creerebbero precedenti di doppia imposizione destinati a sollevare contenzioso capace di alimentare una guerra commerciale con gli Stati Uniti e di ingarbugliare a livello amministrativo e giudiziario l’applicazione della nuova tassa.
L’Amministrazione americana, infatti, accoglierebbe queste nuove tasse come una distorsione inaccettabile delle regole internazionali con l’esito di sanzioni “proporzionate”. Non solo l’amministrazione Trump, ma anche l’amministrazione Biden, la cui vicepresidente, la californiana Kamala Harris, ha eccellenti rapporti con i giganti del web.
L’OCSE, che ha elaborato faticosamente un quadro diverso da quello a cui si ispirano le norme europee ed in particolare quelle italiane e francesi, paventa che un mancato accordo sui due pilastri da essa elaborati, comporti il rischio concreto che si inneschi una guerra commerciale su larga scala, per effetto di un “agguato fiscale”. Essa teme fughe in avanti, come quelle della Francia e dell’Italia, che possono compromettere il lavoro fatto e soprattutto quello ancora da fare per raggiungere un accordo condiviso in sede internazionale con gli Stati Uniti.
La palla all’Italia durante la Presidenza del G20
La Francia, che ha sospeso l’applicazione della sua tassa fino a metà dicembre, vuole che la Presidenza italiana del G20 contribuisca a portare gli Stati Uniti al tavolo OCSE, ma è lecito pensare che l’introduzione effettiva della tassa in Francia contribuirà a rendere più difficile questo compito. In Italia il primo versamento della nuova tassa è previsto per febbraio 2021, ossia domani.
Ora, come è noto, Amazon, Google etc. hanno una filiale in Italia: quindi, a meno che non si vada a sindacare sulla proprietà, ossia sulla nazionalità dei soci, queste sarebbero esenti. Questo paradosso è la conferma che complicando il sistema di tassazione, e violando principi di equità e semplicità fiscale, nonché accordi internazionali faticosamente raggiunti, si finisce con ottenere effetti perversi. Forza Italia vuole “bastonare” sulla pubblica piazza GAFA (Google, Amazon, Facebook Apple), tanto è vero che la mozione chiede che la manovra di bilancio 2021 debba “adeguare il prelievo fiscale dovuto da parte dei colossi del web, nonché destinare in via prioritaria le risorse rinvenienti all’abbattimento della pressione fiscale gravante sulle PMI”.
Le risposte del MEF dimostrano che è consapevole della necessità di andare a concordare in sede internazionale la individuazione dei profitti attribuibili alle multinazionali nei paesi dove realizzano il fatturato, secondo l’impostazione OCSE. Ma il problema rimane, poiché l’introduzione della tassa in Francia e in Italia impedirà o allontanerà il raggiungimento di questi accordi che, ricordiamolo, non sono ancora stati raggiunti proprio per l’ostilità degli Stati Uniti.
L’OCSE teme che l’apertura di una fase di contenzioso commerciale porti a una riduzione del PIL mondiale dell’1% rispetto al trend senza ostilità ed è giustamente preoccupata che tale rischio si manifesti proprio in un momento di crisi economica su scala mondiale.
I problemi del “vat gap” tra USA e UE
Ma la Commissione europea e la nuova amministrazione americana non potrebbero trovare la strada di una maggiore collaborazione, rispetto alla situazione di scontro creatasi con Trump? La risposta è: teoricamente sì, sul piano degli obiettivi strategici una maggiore collaborazione è possibile; ma la congiuntura politica e finanziaria è sfavorevole ad un accordo, che richiederebbe ancora un po’ di tempo e una certa fiducia.
La situazione europea, dove gli Stati chiedono all’Europa più risorse, si è complicata per il fatto che il Regno Unito, che era contributore netto, se ne va, creando un buco di bilancio. Ma ancor più la situazione europea si complica per effetto del cosiddetto VAT Gap, ossia il “buco dell’IVA”, come si potrebbe tradurre. Esso misura il gettito mancante rispetto alle previsioni di legge, e in questo valore rientrano sia le evasioni, sia le elusioni, sia i fallimenti etc, che con il coronavirus si sono moltiplicati.
L’IVA è la base di finanziamento del bilancio dell’Unione, e quindi un aumento del Gap produce un buco nel bilancio dell’Unione. Naturalmente, il VAT Gap in Italia era particolarmente elevato già prima del COVID (intorno al 24% nel 2019), ma esso aumenterà ulteriormente tra 2019 e 2020 in misura molto significativa, raggiungendo quasi il 30%, dopo un periodo in cui era rimasto stabile o si era ridotto leggermente. Inoltre, le stime della Commissione che presentiamo nel grafico, sono state effettuate a maggio 2020, nell’ipotesi -assolutamente ottimistica- che non si verificasse la seconda ondata e non si ripetesse il lock down adottato nella prima fase dell’epidemia.
Conclusioni
Tutti i governi, sia negli Usa, sia in Europa, sono a corto di tempo e sono a corto di fiducia; oppure, come quello di Biden, se la debbono conquistare.
I protagonisti che dovranno sedersi intorno al tavolo dell’OCSE, per giungere ad una definizione condivisa della ripartizione della base imponibile delle società multinazionali, sono tutti molto distratti e aggressivi: alcuni tra i più importanti, come gli Stati Uniti, non hanno neppure in agenda la ripresa dei lavori. Non solo, ma molti paesi e molte organizzazioni imprenditoriali, non solo americane, non vedono di buon occhio l’attivismo di Margrethe Vestager nell’attività di regolazione dei mercati digitali e considerano la politica complessiva dell’Unione come punitiva nei confronti del digitale.
I governi sono esposti ossessivamente dai media all’attenzione dell’opinione pubblica esasperata dall’impatto sanitario ed economico della pandemia. Essi non hanno orecchi per seguire il consiglio delle persone e delle istituzioni più prudenti e rappresentative che paventano la traslazione della nuova imposta digitale a carico delle piccole e medie imprese, grazie al fatto che le multinazionali hanno sufficiente potere oligopolistico che consente di scaricare sui soggetti più deboli il nuovo balzello. La tassa sul digitale, che alcuni vorrebbero punitiva verso GAFA e capace di alleviare il peso fiscale delle PMI, potrebbe tradursi in un onere per quest’ultime.
I governi e i Parlamenti sono sintonizzati sulle sirene delle ambulanze e su quelle delle forze dell’ordine che fronteggiano il malessere sociale. Assordati da quelle sirene, essi rischiano di cadere nel precipizio che Ulisse, l’eroe dal multiforme ingegno, riuscì ad evitare con preveggenza e preparazione.