L’Italia vive una scissione “verde”. Da una parte è l’unico Paese dell’Unione Europea che abbia introdotto nella propria normativa l’obbligo di utilizzare criteri ambientali nelle procedure d’acquisto degli Enti Pubblici. È accaduto con l’approvazione del cosiddetto “collegato ambientale”, ovvero la legge 221/2015. Poi il nuovo Codice degli appalti pubblici, approvato col D.Lgs. 50/2016, ha confermato l’obbligo, rendendolo ancora più stringente.
Dall’altra questa norma sta affrontando numerosi ostacoli e rischia di assumere il sapore di opportunità mancata.
Acquisti pubblici verdi: non basta una norma per fare un Paese virtuoso
Si tratta di una grande opportunità per spingere il mercato verde nazionale, ma anche, paradossalmente, di un rischio: che il tutto si risolva nell’ennesima norma inattuata. Introdurre un obbligo normativo, infatti, non è garanzia automatica di una situazione virtuosa, e sarebbe errato credere che l’Italia sia diventata di colpo la prima della classe, mettendosi alle spalle scandinavi e tedeschi, tanto per citare nazionalità da sempre in prima linea sul fronte del mercato verde e del “green public procurement”, che però non hanno mai sentito la necessità di introdurre nel loro ordinamento un obbligo normativo in materia.
D’altra parte, nel nostro stesso Paese molti Enti Pubblici erano impegnati sul fronte dell’acquisto pubblico verde ben prima che esso diventasse obbligatorio, con un Piano d’Azione Nazionale in materia che risale al 2008. Si trattava però di una sparuta minoranza: il portato positivo e innegabile dell’obbligo normativo è stato senz’altro la risonanza che il tema ha avuto anche all’interno di quella grande maggioranza di Enti Pubblici che non si era mai posta il problema di acquistare verde, e addirittura nemmeno sapeva cosa significasse. Il punto è che dall’oggi al domani la minoranza è stata chiamata a diventare non semplice maggioranza, ma totalità: infatti, chi non avesse ancora preso piena coscienza del nuovo obbligo, e non avesse agito per conformarvisi, dal dicembre 2015 sarebbe niente meno che un fuorilegge. E da un’indagine sommaria (in attesa che l’ANAC provveda al monitoraggio sistematico della situazione, anche in virtù del Protocollo d’Intesa siglato col Ministero dell’Ambiente il 19 marzo 2018), emergerebbe che i fuorilegge, nonostante l’obbligo normativo, sono ancora tanti.
Gli ostacoli all’attuazione della normativa sugli acquisti pubblici verdi
Ma quali sono gli ostacoli che si frappongono all’attuazione della normativa? Cosa rende tanto difficile realizzare acquisti conformi ai criteri ambientali? Di fondo, c’è senz’altro un problema di conoscenza, ancora insufficiente. Negli ultimi due anni si sono moltiplicate a vari livelli le iniziative di sensibilizzazione e di formazione in materia, merito pressoché esclusivo, come detto, dell’entrata in vigore dell’obbligo normativo. Tuttavia, sembrano essere ancora parecchi gli Enti Pubblici che, pur essendo a conoscenza dell’obbligo, non hanno ancora focalizzato correttamente la sua sostanza. Nel caso delle imprese, la situazione è persino peggiore: sono forse la maggior parte quelle che non ne sanno nulla o quasi, e cadono dalle nuvole quando si ritrovano di fronte alla richiesta di dimostrare il rispetto dei criteri ambientali minimi da parte dei loro prodotti, servizi od opere.
Ci sono tuttavia degli ostacoli che si presentano anche per chi abbia compreso bene la natura dell’obbligo normativo.
Nel caso dell’Ente Pubblico, ci riferiamo soprattutto alla fase della verifica della conformità ai criteri ambientali minimi. Qui la parola chiave dovrebbe essere “semplificazione”. I responsabili delle procedure d’acquisto, per quanta formazione possano ricevere, non sempre arrivano ad avere tutte le competenze tecniche necessarie a svolgere la verifica di conformità sulla documentazione ricevuta. Forse, più della pretesa che tutti diventino dei tuttologi, gioverebbe la possibilità di riferirsi a un’unica certificazione di parte terza per ogni set di criteri ambientali, tanto più che il nuovo Codice degli appalti ora permette, in presenza di certe condizioni, di utilizzare un’etichetta ambientale come unico mezzo di presunzione della conformità.
Certificazione unica per gli acquisti verdi: l’Ecolabel Europeo
Al momento, tra tutti i set di criteri ambientali approvati con Decreto Ministeriale, solo in un caso, quello relativo alla carta per copia e carta grafica, esiste una certificazione (l’Ecolabel Europeo) che da sola dimostra il rispetto di tutti i criteri ambientali richiesti per legge. In tutti gli altri casi, può essere che una determinata certificazione (o più di una) possa valere da mezzo di presunzione della conformità di uno o più criteri ambientali, ma mai di tutti quelli che il prodotto (o servizio od opera) deve rispettare. E questo accade anche laddove, per quella determinata categoria merceologica, esista un’etichetta di riferimento (come, tanto per fare un esempio, l’Ecolabel Europeo nel caso degli arredi per interni). Sarebbe opportuno che, in sede di approvazione dei criteri ambientali, si tenesse conto di questa esigenza di semplificazione e si valutasse il rimando in toto ai disciplinari delle eco-etichette esistenti, Ecolabel Europeo su tutte, senza aggiungere criteri ulteriori. Laddove mancassero eco-etichette di riferimento, si dovrebbe lavorare alla creazione di appositi schemi di certificazione ad hoc, anche a costo di ridurre la stringenza dei criteri, o la loro quantità: almeno all’inizio, è meglio chiedere poco, ma farlo tutti e bene, che molto, ma pochi e male.
Perché le imprese ignorano (volutamente) i criteri ambientali
D’altra parte, e qui inquadriamo il problema dal punto di vista delle imprese, appare evidente come, a fronte di una minoranza d’imprenditori che ha investito con decisione sulla conformità ai criteri ambientali, ci sia una maggioranza che non lo ha fatto, e non sempre e soltanto per ignoranza: le imprese alla finestra, che conoscono il contenuto dei criteri ambientali ma ancora non vi hanno investito, sono numerose, forse ormai la maggioranza. Perché?
Innanzitutto, perché si sono accorte che in tanti casi i loro prodotti, servizi od opere vengono tuttora acquistati dall’Ente Pubblico anche se non sono conformi ai criteri ambientali: e allora, si domanderanno, perché uniformarvisi? Si tratta del classico gatto che si morde la coda, o circolo vizioso.
In secondo luogo, perché molte di queste imprese, soprattutto le piccole e medio-piccole di cui l’Italia è piena, giudicano spesso fuori portata l’investimento necessario ad adeguarsi. Sarebbe quindi opportuno agire in modo serio ed effettivo in termini di fiscalità ambientale, di cui tanto si parla ma che ancora, all’atto pratico, resta un miraggio: sarebbe il miglior modo di premiare chi decida di investire nella “green economy”. Se non si vuole che anche quest’ultima resti l’ennesimo anglicismo dietro al quale si cela il nulla. Alla faccia della legge.