Il nuovo Codice dei contratti pubblici recepisce tre direttive (la 23/2014, la 24/2014 e la 25/2014) con cui l’Unione Europea ha chiesto a ogni Stato di riformare il proprio ordinamento giuridico per semplificare, digitalizzare e rendere più trasparenti le procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, inquadrando questi ultimi come una straordinaria leva di politica economico-industriale da manovrare accuratamente per riuscire a fare innovazione nel mondo pubblico. A un anno di distanza dall’entrata in vigore, il codice non è ancora pienamente operativo perché moltissimi dei provvedimenti attuativi di “regolamentazione flessibile” da esso previsti non sono ancora stati emanati. Dobbiamo recuperare un forte ritardo e tutti si stanno dando da fare. Nelle scorse settimane sono state condotte delle consultazioni pubbliche che hanno fornito diversi spunti di miglioramento e sollevato alcuni dubbi di legittimità da sciogliere. E’ in dirittura d’arrivo proprio in questi giorni uno schema di decreto correttivo del codice proposto dal Governo, che ha tempo fino al 19 aprile 2017 per farne uscire una versione emendata. Poi si ripartirà con le procedure per approvare i provvedimenti attuativi necessari a rendere veramente usabile il codice.
Ora che siamo nuovamente in una fase di indirizzo strategico, ci preme dare due suggerimenti per fare in modo che la riforma consenta di comprare innovazione, soprattutto quella abilitata dalle tecnologie digitali. Il correttivo, infatti, sembra indicare la volontà di fare alcuni passi indietro quando invece bisognerebbe accelerare con decisione nella direzione tracciata dall’Unione Europea.
Una delle novità più significative richieste da Bruxelles riguarda l’indicazione di non scegliere i fornitori solo sulla base del prezzo delle soluzioni da loro proposte, soprattutto in caso di innovazioni dall’alto contenuto tecnologico. Nella prima versione del Codice, quella del 2016, si sono seguiti i suggerimenti provenienti dall’Europa e si consentiva di usare il prezzo come unico criterio per assegnare gare pubbliche solo nel caso di affidamenti caratterizzati da elevata ripetitività. Gli affidamenti di notevole contenuto tecnologico o con un carattere innovativo non potevano essere aggiudicati solo sulla base del prezzo a prescindere dall’importo. Se ad esempio una PA avesse voluto comprare innovazione digitale, anche per un importo inferiore ai 40.000 euro, era obbligata ad assegnare la relativa gara sulla base dell’offerta economicamente più vantaggiosa valutando il miglio rapporto qualità / prezzo, indipendentemente dalla cifra in gioco.
Nella formulazione correttiva approvata dal Consiglio dei Ministri ci sembra si faccia un passo indietro: il divieto di usare il prezzo come unico elemento di aggiudicazione vale per gli affidamenti tecnologici o innovativi solo al di sopra dei 40.000 euro. Sotto questa soglia si possono usare gli affidamenti diretti, in cui non si va a gara, considerando solo elementi economici o quelli basati sul massimo ribasso, in cui si torna a spremere i fornitori sul prezzo. I primi più che l’innovazione rischiano di alimentare clientelismo e corruzione. I secondi spingeranno le PA a comprare innovazione “a piccoli tagli”, cedendo all’apparente semplicità del criterio del massimo ribasso e condannando il nostro Paese a un nanismo digitale. Che incentivo avrebbe un’impresa a investire nello sviluppo di innovazioni digitali se queste non potessero essere apprezzate in un confronto in cui si guarda solo al prezzo o nell’affidamento diretto? Proponiamo di tornare alla formulazione del codice del 2016 per salvaguardare chi voglia fare innovazione in Italia. Se proprio vogliamo consentire di fare affidamenti diretti sotto i 40.000 euro, l’alternativa deve essere un’offerta economicamente più vantaggiosa basata sul rapporto qualità / prezzo, non sul massimo ribasso.
C’è un secondo aspetto su cui invece che fare passi avanti si sta fermi. Esso riguarda le procedure con cui la PA può acquistare innovazione. L’Europa ha chiesto di introdurre negli ordinamenti giuridici degli Stati membri tre nuove procedure per semplificare e potenziare il procurement di innovazione: i partenariati per l’innovazione, i nuovi dialoghi competitivi e le procedure competitive con negoziazione. Almeno sulla carta, si aumentano le possibilità di realizzare innovazioni in ambito pubblico, coinvolgendo maggiormente e meglio il mondo delle imprese.
Per concretizzare questo potenziale, tuttavia, è necessario fare chiarezza su come si possano usare queste procedure. Purtroppo lo schema di decreto correttivo non chiarisce ancora alcuni dei dubbi esistenti sulle modalità operative concrete con le quali debbano essere svolte e, in particolare, su chi (la Commissione giudicatrice o il RUP) debba condurre, per le stazioni appaltanti, le fasi di negoziazione o dialogo. Ad esempio il dialogo competitivo e la procedura competitiva con negoziazione sono indicati come procedure particolarmente adeguate per i grandi progetti nell’ambito delle tecnologie digitali. Tuttavia, essendo stata semplicemente e pedissequamente riportata la normativa europea, senza tener conto delle peculiarità della riforma introdotta dal Codice, si pongono numerose problematiche di coordinamento delle diverse norme che danno luogo a gravi incertezze operative. Occorre fare chiarezza per non dare alibi alla domanda di trincerarsi dietro un immobilismo difensivo e all’offerta di evitare di mettere in discussione la propria offerta. La normativa deve essere portata fino in fondo, facendo chiarezza su cosa si possa fare e cosa no. Questa situazione di incertezza fa male al sistema Paese.
Se il decreto correttivo non metterà mano a tali chiarimenti e non manterrà saldamente la rotta verso l’innovazione e l’evoluzione in chiave qualitativa del comparto degli appalti pubblici, la riforma avrà fallito parte dei propri obiettivi e, forse, proprio quelli più importanti.