Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge 21 giugno 2022, n. 78, intitolata “Delega al Governo in materia di contratti pubblici”, è scattato il conto alla rovescia per riscrivere le regole oggi contenute nel Codice Appalti (D.lgs 50/2016) dando così via libera all’attuazione di una delle grandi riforme che chiede l’Europa – accanto a quelle su concorrenza, fisco, giustizia civile e penale ecc. – per continuare ad erogare le risorse di Next Generation EU (alias PNRR).
In queste settimane è quindi iniziato l’iter di definizione della nuova disciplina che, sempre secondo gli accordi presi con gli organismi comunitari, dovrà essere chiusa e diventare operativa entro il 30 giugno 2023.
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Nuovo Codice Appalti, la roadmap
Si tratta di un appuntamento da tempo noto al sistema, in quanto indicato in tutta la legislazione “in deroga”, fin qui adottata per favorire la ripresa produttiva attraverso gli investimenti, quale termine ultimo di validità delle relative previsioni. Al momento la palla è al Consiglio di Stato al quale il Governo, come previsto dalla delega (art.1, comma 4), ha affidato il compito di redigere uno o più testi da avviare successivamente all’esame del Parlamento prima dell’adozione finale.
I tempi per chiudere il testo di una nuova legge su appalti e concessioni, che molti hanno da sempre considerato come un vero e proprio Vaso di Pandora, sono quindi molto stretti. La legge fissa addirittura all’8 gennaio il termine per l’adozione dei decreti (uno o più) necessari ad attuare la delega (sei mesi dall’entrata in vigore) termine che comunque deve scontare anche un percorso fatto di pareri da rendersi entro trenta giorni dalla ricezione dei relativi testi, una volta messi a punto, e da esprimersi in sequenza: prima dalla Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, poi dalle Camere, in questo caso con possibilità di un secondo passaggio in Parlamento laddove questo abbia rilevato la presenza di disposizioni non conformi ai princìpi e ai criteri direttivi della delega ed il Governo non si sia adeguato all’osservazione. In questo senso gennaio 2023 non appare comunque un traguardo realistico potendosi viceversa puntare, come detto, al più indicato mese di giugno.
Ciò a prescindere dal sopravvenire della crisi di Governo, che peraltro non pare aver fin qui rallentato l’iter di definizione delle norme attuative. Proprio in questi giorni, infatti (la nota è del 25 luglio), il Presidente del Consiglio di Stato ha invitato ogni Soggetto rappresentativo che ritenga di poter fornire un utile contributo informativo in materia, …. a farlo pervenire alla Commissione speciale allo scopo istituita a Palazzo Spada entro il prossimo 10 agosto. Detta Commissione, che include anche personalità esterne alla magistratura amministrativa, si articola in sei sottocommissioni e dovrebbe concludere i propri lavori entro il 20 ottobre.
Gli obiettivi
In tale scenario il tema che si pone a quanti, a vario titolo, si troveranno ancora una volta impegnati in quella che, si spera esser l’ultima, è l’ennesima definizione di nuove regole (si consideri che dal 2004 ad oggi sono stati adottati due codici e questo sarà il terzo) è se procedere in continuità, sostanzialmente innestando nel corpo legislativo esistente tutte quelle modifiche ed integrazioni, indispensabili a rendere il sistema, così aggiornato, in linea con il diritto europeo, oppure, ancorché con lo stesso obiettivo, procedere con logiche del tutto innovative.
In entrambi i casi il senso è “adeguare la disciplina dei contratti pubblici ai princìpi espressi dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, interne e sovranazionali, razionalizzando, riordinando e semplificando i relativi contenuti al fine di evitare l’avvio di procedure di infrazione da parte della Commissione europea e di giungere alla risoluzione delle procedure avviate”. Posto che le direttive comunitarie del 2014 rappresentano, quindi, la Stella Polare, né altrimenti potrebbe essere trattandosi di ripartire dal loro recepimento, è evidente come le due strade portino in principio a risultati molto diversi. La prima si tradurrebbe in un restyling, anche approfondito, del vigente codice, operando in sostanza all’interno del testo vigente, potendovi peraltro importare le positive esperienze maturate alla luce della normativa cosiddetta emergenziale, in primis quanto contenuto nei due decreti semplificazioni n.76 del 2020 e 77 del 2021).
La seconda potrebbe, al limite, puntare sulla diretta valorizzazione degli stessi testi della Commissione (il cosiddetto copy out), andando, semmai, solamente a sciogliere quelle opzioni che lo stesso legislatore comunitario rimette a quello nazionale, ovvero alle singole stazioni appaltanti. Ciò con una prospettiva del tutto nuova in grado di intercettare i vantaggi offerti da un approccio legislativo finalmente in linea con regole proprie dei mercati maturi. Esigenze di tempo e di continuità operativa consiglierebbero la prima opzione; l’opportunità della diretta adesione, una volta per tutte, e sopratutto in termini culturali, agli schemi di intervento propri della legislazione comunitaria, senza dubbio più pragmatici ed efficaci, consiglierebbero di optare per la seconda.
Le indicazioni che si leggono nella prima parte del primo criterio di delega, per cui nella relativa attuazione occorre perseguire obiettivi di stretta aderenza alle direttive europee, mediante l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione corrispondenti a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse, il cosiddetto divieto di gold plating, sembrerebbero spingere per l’adesione diretta alle logiche comunitarie con un testo, quindi, che sarebbe radicalmente nuovo. D’altro canto numerose altre previsioni della legge delega, anche (ma non solo) aggiunte nell’iter di discussione del disegno di legge in Parlamento, pongono una serie di distinguo e condizioni che, nonostante alcune contrarie affermazioni, sembrano necessariamente condurre alla soluzione dell’intervento dall’interno.
Cosa dicono i criteri di delega
In questo senso i 31 criteri di delega che si leggono nella legge 78 non raggiungono certo i 70 della legge n.11 del 2016, madre dell’attuale codificazione; ma ben altra cosa erano i 4 alla base della legislazione del 2006, il cosiddetto codice de Lise, che peraltro anch’essa, alla fine, partorì una disciplina di ben 257 articoli, ai quali se ne aggiunsero altri 359 portati da un regolamento attuativo che, complice anche in quel caso una crisi di Governo, vide la luce ben quattro anni dopo, ed in alcune parti oggi è ancora in essere. Con l’augurio che la storia non si ripeta, vediamo quali sono le specificità nazionali che, già presenti nella delega, a prima vista condizionano la piena adesione delle future norme ai parametri comunitari.
Alla lettera t) dell’elenco dei criteri di delega troviamo una previsione secondo la quale le norme attuative dovranno individuare “le ipotesi in cui le stazioni appaltanti possono ricorrere ad automatismi nella valutazione delle offerte e tipizzare i casi in cui le stazioni appaltanti possono ricorrere, ai fini dell’aggiudicazione, al solo criterio del prezzo o del costo”.
Sopratutto con riferimento alla prima parte della disposizione, è noto come l’obiezione che fin dal lontano 1976 è stata periodicamente posta al legislatore nazionale da parte della Corte di Giustizia e della Commissione riguarda la presenza di norme fondate su automatismi valutativi, in questo senso generali ed astratti, che eliminano la possibilità per le stazioni appaltanti di entrare nel merito dei singoli casi di specie, scegliendo la modalità di intervento nel concreto più efficaci: l’automatismo procedurale nella valutazione delle offerte (per il quale l’Italia, unico Paese che vi ricorre, ha già subito numerose condanne), non già semmai nella loro individuazione come potenzialmente anomale, contraddice il canone di efficacia dell’azione delle stazioni appaltanti, in contrasto con l’approccio sostanzialistico di matrice comunitaria; confligge, inoltre, con il già evocato primo criterio di delega che vieta il gold plating, qui violato per l’assenza di una simile previsione o cautela nelle direttive da recepire.
Anche l’espropriazione della capacità valutativa volta a poter scegliere, in concreto, quale sistema di aggiudicazione utilizzare si espone all’obiezione riferita all’esclusione della capacità di scegliere, in ragione della singola circostanza, l’opzione più efficace. Nello stesso senso va obiettato nei confronti del criterio di delega che prevede che debba essere la stessa legge ad individuare le ipotesi in cui le stazioni appaltanti possono ricorrere all’affidamento congiunto della progettazione e dell’esecuzione dei lavori (lett. ee), andando anche qui ad azzerare qualsivoglia ambito valutativo concretamente esercitabile dalla singola committenza.
La violazione del divieto di gold plating
Ancora sotto il profilo della violazione del divieto di gold plating va considerata anche la previsione che richiede di razionalizzare la disciplina concernente le modalità di affidamento dei contratti da parte dei concessionari, anche al fine di introdurre una disciplina specifica per i rapporti concessori riguardanti la gestione di servizi (lett. gg). Da notare come in altri casi, l’aggiunta tra i criteri di delega di previsioni non contenute nelle disposizioni comunitarie oggetto di recepimento viene accompagnata dall’indicazione di intervenire, comunque, nel rispetto dei limiti previsti dall’ordinamento europeo.
Poca attenzione all’innovazione
Della scarsa attenzione per il tema dell’innovazione e del passo indietro in materia di BIM rispetto alla delega del 2016 si è già detto nell’ambito di un nostro precedente intervento, i cui contenuti vanno confermati non avendo l’ulteriore iter di approvazione portato sul punto modifica alcuna.
Conclusione
L’auspicio è che, tanto che si scelga di operare dall’interno, operando un restyling dell’attuale codice, a questo punto, il più ampio ed efficace possibile, sia che si opti per un testo radicalmente nuovo, l’obiettivo è l’adeguamento della disciplina nazionale dei contratti pubblici a quella di fonte comunitaria, che favorisce gli investimenti in luogo di renderli più difficili come oggi, per affermazione comune, in Italia avviene.
D’altro canto, se l’integrazione europea può essere, mai come oggi, considerata un opportunità per rinnovare il Paese, occorrerebbe compiere definitivamente quel passo che da tempo ci viene richiesto e sollecitato, la cui necessità ancora in questi giorni risulta ribadita dalle censure della Corte di Giustizia su alcune regole fissate in tema di raggruppamenti di imprese (C 642/20) e di esclusione dalla gare in caso di avvalimento (c 210/20) nel senso di scrivere la nuova disciplina, anche in chiave Pnrr, con un approccio sostanzialistico, efficace nelle sue ricadute, abbandonando l’inefficiente formalismo che spesso caratterizza la nostra maniera di legiferare, soprattutto nel campo che qui interessa.