Savoir e savoir faire. Negli appalti pubblici, forse più che in altri settori, sono due dimensioni non necessariamente collegate. Logicamente, la prima appare condizione necessaria per la seconda, ma è proprio la seconda a fare la differenza. Insomma, la mera conoscenza di Codici, regolamenti e (copiosa) giurisprudenza non è di per sé garanzia che l’acquirente pubblico raggiunga i propri obiettivi. Se si pensa che, a livello globale, il valore del public procurement è pari al 20% del PIL l’ipotesi appena menzionata diventa allora una priorità di politica economica.
Il public procurement come strumento di crescita sostenibile
La (supposta) divergenza tra savoir e savoir faire è abbastanza recente, ed è la conseguenza quasi inevitabile dell’enfasi che i policy maker a livello internazionale hanno posto, nel corso degli ultimi 15-20 anni, sul potenziale del public procurement come strumento di crescita sostenibile e inclusiva, diretta quindi a stimolare innovazione nei mercati, contribuire alla riduzione dell’impatto negativo delle attività produttive sull’ambiente, coinvolgere nel mercato degli appalti micro, piccole e medie imprese. Succede allora l’inevitabile. Il buyer pubblico deve, da un lato, mettere ordine tra le diverse priorità e, dall’altro, interrogarsi se e in quale misura le “regole del gioco” siano funzionali a perseguire cotanti lodevoli obiettivi. Insomma, qualcuno, spinto da un leggero furore razionalista, potrebbe anche concludere che obiettivi molteplici e, spesso, in conflitto tra loro richiedono procedure flessibili, ampi spazi di interlocuzione con il mercato, uno scenario che potrebbe anche rammentare il modus operandi di molte imprese private (almeno quelle di grandi dimensioni).
La spinta Ue alla flessibilità, le contraddizioni del quadro italiano
A dirla tutta la Commissione Europea, spinta (eufemisticamente) dai paesi del Nord Europa, e, in particolare, dal Regno Unito, ce l’ha messa proprio tutta per consegnarci un’architettura di norme (Direttive UE 23 e 24 del 2014) che permettessero al buyer pubblico di ricorrere a soluzioni flessibili, vicine all’idea – che avrebbe persino una qualsiasi persona di buon senso – di meccanismi di negoziazione nei quali le parti possano “dialogare” sulle soluzioni oggetto dell’acquisizione. Approfittando del cambio di passo impresso dal policy maker europeo con l’ultima tornata di Direttive, quello nazionale ha realizzato (almeno sulla carta) qualcosa di ambizioso e, neanche a dirlo, contraddittorio. Ad esempio, accanto al recepimento delle norme che prevedono istituti più flessibili di negoziazione, ha previsto che il buyer pubblico non possa mai attribuire agli aspetti qualitativi meno del 70% dei punti nel criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (art. 95(10bis) del testo del decreto legislativo 50/2016 così come modificato dal 56/2017): un ossimoro rispetto alle pretese ambizioni di flessibilità per il buyer pubblico che compra dai PC, ai global service fino alle soluzioni cloud.
Qualità, efficienza e professionalizzazione delle stazioni appaltanti, la vera innovazione
Eppure, tra qualche contraddizione, qualcosa di veramente innovativo è scolpito nel Codice dei contratti pubblici: l’articolo 38 prevede l’istituzione di un sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti sulla base di criteri di qualità, efficienza e professionalizzazione. Come dire che la vera “rivoluzione” consiste in un mercato degli appalti in cui il centro delle competenze sono le organizzazioni ancora più che i singoli professionisti. Questi ultimi dovranno essere i detentori di competenze specialistiche – giuridiche, statistico-economiche, tecnologiche – ovvero gli ingredienti di un know how che sarà messo a frutto con una logica di lavoro di gruppo. Nonostante la retorica che caratterizza i cambiamenti epocali della PA italiana, il vero messaggio dell’esperienza delle centrali di committenza, che lavorano da tempo sul territorio nazionale, è che l’idea di “public procurement” per lo sviluppo sostenibile è ontologicamente incompatibile con una galassia di buyer tuttologi che, proprio per la complessità della missione, sarebbero destinati a sapere pochissimo di tanti aspetti del mestiere.
Ma, si dirà, definire gli standard minimi di professionalizzazione di organizzazioni è ancora più difficile che definire quanto savoir debba possedere un singolo buyer per poter esercitare questa professione. E, dunque, non meraviglia che poco si sappia del decreto attuativo del sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti. Rimane la convinzione che la strada sia quella giusta, che quella del buyer pubblico sia destinata a divenire una “professione” all’interno di organizzazioni esclusivamente dedicate agli appalti pubblici.