La PA ha svolto durante l’emergenza coronavirus un ruolo fondamentale nell’attuazione dell’agenda digitale, compito che dovrà perseguire anche nei prossimi mesi. Abbiamo bisogno che l’intero Paese faccia innovazione e che la PA che abiliti e sostenga imprese e cittadini nel promuovere la trasformazione digitale, al servizio del benessere comune.
In questo contesto, il piano NextGenEU rappresenta per l’Italia un’occasione utile per superare alcuni annosi fronti critici del sistema Paese. In questa fase, la PA è cruciale: vediamo quello che dovrebbe essere il suo ruolo, dal superamento dell’emergenza al rilancio del Paese.
Il ruolo della PA per il rilancio dopo la pandemia
Il nuovo scenario legato al Covid-19 ha permesso a tutti di comprendere non solo quanto le tecnologie digitali rappresentino il sistema nervoso del Paese ma anche quanto sia necessario rimettere in discussione il ruolo della PA nella creazione di valore in tale sistema. Mentre l’impresa privata è stata messa in ginocchio dall’oggi al domani a causa del lockdown, la PA – spesso bollata come un’entità inerziale, destrutturata, improduttiva e burocratica – si è trovata investita della responsabilità di gestire in prima persona aspetti basilari della vita sociale, dimostrando — più o meno efficacemente — di essere resiliente e saper fare squadra, al proprio interno e con imprese e cittadini.
La PA è stata fondamentale nella gestione dell’emergenza sanitaria ed economica legata al coronavirus e può e deve giocare un ruolo chiave nel rilancio dell’intero Paese. Lo deve fare prima di tutto per l’importante ammontare di risorse che saranno disponibili a questo proposito: oltre 180 miliardi messi a disposizione dallo Stato a cui se ne aggiungono circa 240 messi a disposizione dall’Europa[1]. A queste dotazioni si sommano gli acquisti fatti ogni anno dalla PA che, con un ammontare di circa 170 miliardi di euro solo nel 2019, possono rappresentare un incredibile volano di crescita[2]. La PA può sfruttare questa leva proprio per le sue caratteristiche: grazie alla propria massa critica e alla sostanziale assenza di competizione al proprio interno, la PA è in grado di scatenare processi di cambiamento che – se ben progettati e realizzati – hanno impatti dirompenti e pervasivi.
È necessario, tuttavia, che il mondo pubblico giochi bene il proprio ruolo. Esso non deve pretendere di essere l’unico protagonista nell’attuazione dell’agenda digitale, sostituendosi alle imprese e soffocando così del tutto un sistema imprenditoriale diviso tra:
- poche realtà che vedono consolidare posizioni dominanti, avendo investito in digitalizzazione negli scorsi anni;
- la restante parte, estremamente precaria e da accompagnare nei processi di trasformazione digitale.
Il sostegno a imprese e cittadini
Come scrive Alfonso Fuggetta[3]: “Abbiamo bisogno di un paese innovatore, in tutte le sue articolazioni e declinazioni, e di una PA che, nel Paese, abiliti e sostenga le imprese e i cittadini nel promuovere la trasformazione digitale, al servizio di uno sviluppo equo e del benessere comune”. Pensiamo ad esempio a iniziative come Smarter Italy, un programma di appalti di innovazione che impiega 20 milioni di euro di domanda pubblica per collaborare con le aziende private alla riprogettazione dei servizi relativi alla mobilità di persone e merci nel post-Covid. In particolare, è interessante il meccanismo di consultazione pubblica con cui AgID e DTD stanno dialogando con oltre 750 soggetti per:
- focalizzare meglio i fabbisogni di innovazione da soddisfare, definendo l’oggetto della gara e gli elementi utili a formulare il relativo bando insieme agli attori del mercato che poi vi parteciperanno;
- dare fin da subito al mercato elementi relativi ai contesti urbani di riferimento, grazie alla partecipazione e al contributo diretto delle città che ospiteranno i prototipi e le sperimentazioni;
- promuovere il networking tra gli operatori di mercato, favorendo le aggregazioni di soluzioni complementari in totale trasparenza e secondo logiche di open innovation.
La gestione delle risorse
La PA non deve limitarsi a ridistribuire in modo assistenziale le risorse a sua disposizione ma deve giocare un ruolo di sapiente regista, in grado di impegnare correttamente i veri attori protagonisti della trasformazione digitale italiana: cittadini e imprese. Dopo il poderoso passo in avanti a cui ha obbligato la crisi, la PA deve gradualmente fare un passo non indietro, ma di lato, per abilitare gli attori chiave dell’innovazione digitale. Deve prima di tutto darsi e dare regole chiare, che favoriscano e premino l’innovazione.
Deve sforzarsi di favorire la crescita del mercato di soluzioni digitali, senza sostituirsi ad esso. Deve assicurarsi di allocare correttamente le tante risorse che arriveranno per la gestione dell’emergenza e della ripartenza, sviluppando progettualità e focalizzando la propria attenzione e quella di imprese e cittadini su sfide utili al bene comune. E deve fare tutto questo in una costante interazione con il mercato, nel rispetto dei relativi ruoli. La buona regia dell’innovazione, come suggerito da Fuggetta, deve trovare un delicato equilibro tra approcci:
- dirigisti, in cui la PA definisce tutto da sola, coinvolgendo il mercato solo per le fasi implementative e con forti rischi di ingessare la trasformazione digitale, disperdendo risorse nella produzione di soluzioni inutili;
- troppo de-regolamentati, in cui la PA sostanzialmente rinuncia a giocare la propria parte, sperando che le dinamiche di mercato non generino solo ingiustizie e abusi ma portino il sistema dove dovrebbe andare.
Serve un cambio di prospettiva
Per una buona regia del digitale in Italia serve che la PA innovi sé stessa, rendendosi visibile e vicina a cittadini e imprese nel momento del bisogno. Per farlo deve spendere meglio in digitale, sperimentando con pragmatismo le soluzioni emergenti, favorire gestioni associate, attrarre e trattenere giovani qualificati.
La PA non riuscirà a dare un contributo fattivo alla digitalizzazione del Paese fino a quando continuerà a ragionare a “compartimenti stagni”, trincerandosi nel rispetto formale di procedure autoreferenziali piuttosto che focalizzarsi sulla risoluzione dei problemi di cittadini e imprese. La PA deve cominciare a usare le tecnologie digitali per innovare sé stessa, il proprio modo di essere istituzione e di operare.
Non abbiamo bisogno di una PA invasiva e settorializzata ma di una discreta e trasversale. Come un bravo regista, la PA dovrebbe “sparire dietro le quinte” per la maggior parte del tempo e rendersi visibile e vicina solo quando esistono reali bisogni da soddisfare, come trovare in poco tempo una struttura in cui effettuare un tampone o avviare un’attività imprenditoriale senza troppe lungaggini burocratiche, per ripartire dopo la crisi. Il 60% degli italiani vorrebbe una PA che gestisca automaticamente le loro esigenze – senza fare richieste online, interagire con un operatore telefonico o recarsi a uno sportello. Al crescere delle competenze digitali dei cittadini cresce anche la percentuale di chi vorrebbe servizi completamente automatizzati[4]. Molti servizi pubblici (ad esempio le certificazioni di residenza) più che essere offerti in digitale dovrebbero sparire per effetto di una maggiore interoperabilità tra i sistemi di back-end delle PA.
Perché ripensare in chiave digitale i processi e i servizi pubblici
Per attuare questo cambio radicale di prospettiva è necessario ripensare in chiave digitale e interoperabile moltissimi processi e servizi pubblici. Ce ne siamo accorti in particolare durante i mesi di lockdown, in cui i lavoratori della PA hanno dovuto sperimentare forme di lavoro agile, con sportelli al pubblico deserti ma un fluire continuo di richieste tramite PEC, telefono e i canali più disparati. Nel giro di pochi giorni si è passati da un 16% di PA con progetti strutturati di smart working al 94% delle stesse con dipendenti da remoto. Tuttavia, lo scarso livello di dematerializzazione documentale, sommato a una digitalizzazione dei processi condotta a macchia di leopardo (e sostanzialmente assente in diversi enti) hanno rappresentato le principali difficoltà affrontate durante l’emergenza, almeno nell’opinione del 46% delle quasi 650 PA che hanno risposto all’indagine condotta insieme all’Osservatorio Smart Working[5].
Non è un problema di scarse risorse dedicate alla digitalizzazione degli asset pubblici. I dati raccolti dalla Corte dei Conti per il proprio referto al Parlamento sull’attuazione del Piano triennale 2017-2019 ci dicono che i Comuni con meno di 2.000 abitanti (il 44% del totale), spendono in soluzioni digitali circa 14 euro ad abitante all’anno, indipendentemente dal loro livello di maturità digitale. Questi numeri indicano che non è una questione di quanto la PA spenda in digitale ma di come spende. Esistono spese infruttuose — ad esempio in data center poco sicuri, che presto saranno da dismettere per passare al cloud – e spese che vanno nella direzione tracciata dalle strategie di trasformazione digitale del paese – ad esempio nello sviluppo e nell’esposizione di dati e servizi tramite API.
L’impiego delle tecnologie emergenti
Gli investimenti devono essere orientati avendo chiare le direzioni di innovazione da perseguire e le potenzialità offerte dalle tecnologie digitali. In questo momento storico pensiamo all’intelligenza artificiale e alla blockchain. Esse potrebbero, tra le altre cose, automatizzare la verifica delle condizioni per l’accesso a bonus (evitando il caos generato nella gestione del bonus bici) o tenere traccia in modo sicuro e immutabile della distribuzione di farmaci o vaccini sul territorio. I vantaggi associati a un’efficace applicazione di queste e altre soluzioni in ambito pubblico sono potenzialmente enormi e devono essere colti quanto prima. La PA non può permettersi di sprecare energie preziose nel perseguire iniziative di digitalizzazione obsolete e non può rimanere in balia dei fornitori semplicemente perché non conosce e non sfrutta al meglio l’ecosistema di innovazione a cui potrebbe attingere.
D’altro canto, non bisogna considerare le tecnologie emergenti come la panacea di tutti i mali. Sono necessarie risorse, competenze e consapevolezza di dove possano essere applicate con successo, per produrre risultati concreti e non infruttuosi “esercizi di stile”. È bene ricordare che solo l’11% dei 264 progetti di blockchain in ambito pubblico censiti dall’Osservatorio a livello internazionale è completamente operativo. La percentuale arriva al 29% nel caso degli oltre 200 progetti di intelligenza artificiale[6]. Per applicare la propria “buona regia”, la PA deve mantenere un delicato equilibrio nella sperimentazione pragmatica di tecnologie emergenti, evitando di disperdere energia in digitalizzazioni obsolete o, al contrario, troppo di frontiera.
La PA come garante di un intero Paese innovatore digitale
Per una buona regia del digitale la PA deve farsi garante e promotrice di un intero Paese che attui l’agenda digitale. Per giocare questo ruolo la PA deve:
- produrre regole di procurement chiare, che favoriscano la collaborazione con le imprese,
- contrarre il tempo (4,5 mesi) necessario oggi per assegnare una gara di ICT.
Non basta avere PA digitalizzate e capaci di dialogare e collaborare al proprio interno. Servono PA in grado di estendere tali dialoghi e collaborazioni ai privati, per focalizzare le sfide da cogliere a livello collettivo, orientare comportamenti virtuosi con adeguati incentivi, scoraggiare quelli ritenuti dannosi per il bene comune e trovare insieme le migliori soluzioni per attuare l’agenda digitale italiana. Senza la necessità di dover generare marginalità, la PA può e deve farsi garante e promotrice di un processo che veda tutte le anime del paese come protagoniste nella realizzazione della sua trasformazione digitale, cercando di orientare le energie di tutti verso il bene comune e coinvolgendo i privati sulle grandi sfide di digitalizzazione per la collettività. Come? Non sostituendosi alle imprese ma:
- regolando opportunamente lo spazio d’azione di queste, per assicurarsi che favorisca il bene comune;
- giocando bene il proprio ruolo di cliente, pretendendo reale innovazione digitale e favorendo la nascita di imprese e lo sviluppo di quelle già presenti sul territorio.
I nodi del procurement ICT
Purtroppo, su entrambi questi fronti la PA italiana ha delle criticità da risolvere con urgenza:
- la normativa sui contratti pubblici è incompleta, instabile, frammentaria e incoerente; a oltre 4 anni dalla pubblicazione del Codice dei contratti pubblici sono stati adottati solo 24 dei 45 provvedimenti attuativi necessari a renderlo pienamente operativo35;
- una gara pubblica in soluzioni digitali è mediamente assegnata 4,5 mesi dopo la scadenza per presentare offerte; se si considera che i tempi di assegnazione non includono quelli per preparare la gara e per gestire eventuali ricorsi, si capisce quanto le tempistiche siano ancora incompatibili con quelle dell’innovazione digitale[7].
Le gare pubbliche sono ancora pensate e gestite con la principale preoccupazione di prevenire ricorsi e contenziosi, mentre sono ancora troppo poche le PA che cercano di acquisire nel minor tempo possibile la migliore soluzione disponibile, usando discrezionalità e buon senso.
La collaborazione con le imprese
Più in generale, la PA deve imparare a collaborare maggiormente con le imprese – da quelle più grandi fino alle startup o le PMI ad alto tasso innovativo. È necessario avviare iniziative di open innovation in ambito pubblico, lavorando per fare in modo che le PA siano maggiormente esposte a stimoli che mettano in discussione e cerchino di migliorare la loro operatività, nel quotidiano e prima che una nuova pandemia le costringa a farlo in circostanze eccezionali. È sintomatico da questo punto di vista che solo il 10% delle startup innovative italiane attive nel registro del MISE abbia mai lavorato con le PA del nostro paese.
Il potenziale degli appalti pubblici per il rilancio
È di vitale importanza ripensare il procurement pubblico, che sembra ancora vittima di un pregiudizio che lo vede come fonte di inefficienza (quando non di corruzione) piuttosto che potente leva che consenta a PA e imprese di collaborare maggiormente e meglio nel realizzare la trasformazione digitale dell’Italia. Il vero ostacolo – adesso più che mai – non è la carenza di risorse, ma la povertà di competenze, progettualità e managerialità.
È sufficiente analizzare l’impiego di procedure competitive con negoziazione, nuovi dialoghi competitivi e partenariati per l’innovazione. Queste tre procedure sono state introdotte in tutti i paesi europei per aumentare in quantità e qualità le collaborazioni tra PA e imprese e favorire l’innovazione. Dopo oltre quattro anni dalla loro introduzione: solo le PA di Germania e Francia ne hanno fatto un uso significativo, sia a livello generale (25.856 procedure in Germania e 10.991 in Francia su un totale europeo di 56.686) sia per iniziative relative all’attuazione dell’agenda digitale (1.825 procedure in Germania e 1.292 in Francia, di 6.835 complessivamente in tutta Europa). Le PA italiane ne hanno fatto un modesto uso, sia a livello generale (326 procedure) sia per iniziative relative all’attuazione dell’agenda digitale (27 procedure).
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Note
- Per approfondimenti si rimanda ai report Abilitare l’Italia digitale: la buona regia per ripartire (Osservatorio Agenda Digitale, 2020) e “Le risorse a supporto della trasformazione digitale dell’Italia” . ↑
- Per maggiori informazioni si veda i report “Procurement ed eProcurment in ambito pubblico”. ↑
- Per maggiori informazioni si veda il libro di Alfonso Fuggetta “Il paese innovatore: un decalogo per reinventare l’Italia”. ↑
- Per maggiori informazioni si veda il report “In corsa per l’Italia digitale” . ↑
- Per maggiori informazioni si veda il report “Smart Working: il futuro del lavoro oltre l’emergenza” . ↑
- Per maggiori informazioni si veda il report “Innovazione digitale in ambito pubblico” . ↑
- Per maggiori informazioni di veda il report “Il mercato di fornitori di soluzioni digitali alla PA italiana nel 2020”. ↑