Lo scenario

Procurement pubblico, così diventa forte leva di ripresa per l’Italia

Il public procurement può essere strumento importante per ripartire dopo l’emergenza sanitaria, tuttavia servono interventi normativi forti che rendano questo strumento davvero efficace. Vediamo come

Pubblicato il 02 Lug 2020

Paola Conio

Avvocata, Senior Partner Studio Legale Leone

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Il procurement pubblico si presenta come una leva importante per il rilancio dell’Italia, in una fase in cui il Paese affronta la morsa dell’emergenza economica, sulla scia di quella sanitaria. Vediamo perché e in che modo.

Il contesto: l’opportunità dopo l’emergenza

Per la prima volta da molto tempo a questa parte, del resto, la spesa pubblica è guardata con favore, come possibile innesco per il motore della ripresa. Pur con tutte le difficoltà che la situazione dei conti pubblici nazionali necessariamente porta con sé, investire per i giusti obiettivi potrebbe consentire di spingere il Paese fuori dalla palude della recessione, nella quale – di fatto – si trovava già prima della devastante esperienza della pandemia indirizzandolo verso una reale crescita.

L’emergenza sanitaria ha, poi, messo a nudo i punti deboli della macchina amministrativa, portando in superficie problemi in gran parte noti, ma mai affrontati in modo strutturale e risolutivo. È questo il tempo dei piani, dei programmi, delle visioni. Un tempo che non deve essere sprecato e, soprattutto, non può essere affrontato solo con l’ottica dell’emergenza, che induce a formulare proposte meramente contingenti e, per ciò stesso, miopi ed incapaci di proiettarsi oltre l’orizzonte della crisi.

Il public procurement come nodo cruciale

Non vi è dubbio che gli affidamenti pubblici, che costituiscono annualmente circa il 10% del PIL nazionale, rappresentino una leva potente per la ripresa e un nodo cruciale da sciogliere per ridare vigore all’economia prostrata dal coronavirus. Non serve soltanto che gli appalti siano aggiudicati, ma anche che le relative prestazioni siano concretamente eseguite dagli operatori economici e tempestivamente remunerate da parte della pubblica amministrazione. Sul fronte del public procurement in tempo di crisi si fronteggiano due scuole di pensiero.

La prima è quella che vorrebbe un approccio di tipo derogatorio: tempi eccezionali richiedono misure eccezionali e, quindi, sospensione temporanea delle norme vigenti in materia e utilizzo di commissari che possano operare in sostanziale libertà per immettere immediatamente nel tessuto economico le risorse necessarie a costituire il volano per la ripresa. La seconda scuola di pensiero è quella che, invece, ritiene che occorra accelerare e dare piena attuazione a quello che le norme già prevedono, limitandosi – ove necessario – alla modifica puntuale delle sole disposizioni che hanno dimostrato di caricare i processi di oneri non necessari.

Il modello derogatorio, sul tipo Ponte di Genova, è a sommesso avviso di chi scrive, errato sotto un duplice punto di vista. Prima di tutto in quanto, come detto, è un approccio miope che non affronta minimamente i veri problemi strutturali del public procurement e si limita ad aggirarli. Considerato che – seppure eventualmente tollerabile nel momento in cui l’emergenza è ancora in atto – si tratterebbe di un espediente di breve durata e di dubbia trasparenza, la soluzione del super commissario non porterebbe alcuna reale crescita del sistema. La seconda soluzione è, invece, quella vincente, a patto però che si individuino realmente le disposizioni da attuare immediatamente e si consideri non soltanto la fase di affidamento dei contratti pubblici, ma anche quella di esecuzione degli stessi, andando ad accelerare e semplificare la fase della gestione contrattuale.

La via della digitalizzazione

La via maestra da percorrere per la semplificazione e l’efficientamento del public procurement è quella della digitalizzazione. Occorre, però, aver chiaro che si tratta di una via che ha bisogno di risorse sia in termini di investimenti che di competenze, altrimenti i benefici potenziali non potranno essere colti e, anzi, la digitalizzazione verrà percepita come un ulteriore ed inutile onere burocratico. L’Anac ha recentemente elaborato un documento, inviato alla Presidenza del Consiglio e ai Ministri competenti, contenente varie proposte per velocizzare le procedure e favorire la ripresa economica che vede al centro delle strategie per la semplificazione e la trasparenza del procurement pubblico proprio la completa digitalizzazione dei processi, anche a monte e a valle della gara.

Si tratta di una posizione condivisibile che si auspica venga tenuta in considerazione. È sconcertante che, come ricorda anche l’Autorità, a distanza di oltre 4 anni dal Codice dei contratti pubblici si sia tuttora in attesa del decreto ministeriale sulle modalità della digitalizzazione previsto dall’art. 44 del d.lgs. 50/2016, che dovrebbe rappresentare il punto di partenza del processo evolutivo verso il digitale. Dall’interoperabilità e dal principio “once only” – ovvero i dati si inviano alla PA una sola volta – passa la via della semplificazione e dell’efficienza degli affidamenti pubblici. Ovviamente la gestione dei processi digitali richiede, come accennato, anche una crescita di competenze all’interno delle pubbliche amministrazioni, per cui anche sotto questo aspetto è necessario dare pronta attuazione alle norme esistenti in ordine alla professionalizzazione delle stazioni appaltanti.

I problemi contingenti

Se la digitalizzazione dei processi e la professionalizzazione delle stazioni appaltanti rappresentano gli snodi fondamentali per garantire, anche all’indomani della crisi sanitaria, che la macchina del public procurement cominci a marciare spedita, vi sono dei problemi contingenti che dovrebbero trovare già nel prossimo decreto una concreta soluzione. Uno in particolare rischia di avere impatti gravi sui contratti in corso, anche in termini di contenzioso. La gestione dell’emergenza sanitaria ha messo gli operatori economici in una situazione critica sotto due punti di vista. Da un lato molte prestazioni – anche relative ad affidamenti pubblici – sono state sospese per arginare il diffondersi del virus, dall’altro, quelle che sono proseguite o che sono state recentemente riavviate vanno incontro ad oneri aggiuntivi estremamente significativi, imprevisti ed imprevedibili, che non è del tutto chiaro a chi debbano competere.

Ciò determina per le imprese non solo una grave carenza di liquidità ma anche il rischio concreto che le prestazioni da rendere in esecuzione dei contratti pubblici non siano più sostenibili alla luce degli oneri aggiuntivi da Covid-19. Se il committente pubblico ha comunque la way-out del recesso unilaterale dal contratto – seppure con il pagamento delle somme predefinite ai sensi dell’art. 109 del D.Lgs. 50/2016 – l’appaltatore non può arbitrariamente interrompere la propria prestazione. Ad avviso di chi scrive, già a normativa vigente, ritenere che i costi aggiuntivi imposti dall’eccezionale e imprevedibile situazione pandemica – certamente non stimati nell’ambito degli oneri aziendali per la sicurezza calcolati in sede di offerta – siano da imputare sic et simpliciter all’appaltatore in quanto “specifici e propri dell’attività dell’impresa” e non “interferenziali”, appare minare alle fondamenta l’impianto normativo del Codice contratti, ponendo a rischio la prosecuzione delle commesse nelle concrete condizioni di sicurezza e sostenibilità che le disposizioni del D.Lgs. 50/2016 intendevano, invece, assicurare. Ma non vi è dubbio che i funzionari pubblici, con i rischio di vedersi chiamati a rispondere di un possibile danno erariale, senza una indicazione normativa chiara non saranno inclini a riconoscere tali oneri, seppure la pandemia, quale evento naturale che può indurre un incremento significativo dei costi di esecuzione delle prestazioni affidate, ben potrebbe essere ascritto agli eventi naturali il cui verificarsi, ai sensi dell’art. 1664 comma 2 del codice civile – pacificamente applicabile anche agli appalti pubblici se non espressamente escluso – abilita l’appaltatore alla richiesta di un equo indennizzo.

Sarebbe quindi auspicabile che una previsione normativa chiarisca il punto, permettendo alle imprese di proseguire nelle prestazioni affidate senza rischiare di incorrere in perdite insostenibili che potrebbero condurle al fallimento, con frustrazione dell’interesse pubblico al completamento dei contratti e con ulteriore aggravamento della crisi economica in atto.

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