Ogni località, ogni Regione, ogni Paese ha le proprie priorità e opportunità di cambiamento. Non è possibile esportare un modello di cura direttamente da una località ad un’altra, ma si possono trarre importanti lezioni dalle esperienze altrui.
Nel 2007 una piccola Regione in Nuova Zelanda (Canterbury, mezzo milione di abitanti) ha cominciato a innovare profondamente il proprio Sistema Salute.
Maggiore coordinamento, coinvolgimento del cittadino-paziente, governance più efficace: non erano intenzioni generiche, ma obiettivi da portare concretamente a sistema.
Questa settimana un report del King’s Fund ci racconta che, dopo il disastroso terremoto avvenuto nel 2011, hanno proseguito con maggiore energia e adesso l’impresa può dirsi riuscita: hanno i migliori outcome rispetto alle altre Regioni della Nuova Zelanda. Grazie [anche] alla tecnologia.
Il significativo programma di trasformazione intrapreso nel corso degli ultimi dieci anni ha permesso a Canterbury di fornire più servizi a domicilio e di limitare la crescita della domanda di assistenza ospedaliera, in particolare tra le persone anziane.
Il cambiamento si è poggiato su tre pilastri:
- una visione chiara, unificante, tra sociale e sanitario e tra ospedale e territorio (“un solo sistema, un solo budget”);
- una policy per aumentare le capacità dei professionisti di innovare e per dare loro lo spazio per metterle in pratica;
- nuovi modelli di attività integrate e nuove forme di procurement per sostenerli.
Gli “innovators” (cioè i pionieri come Kaiser Permanente, Mayo Clinic, Veterans Health Administration – VHA) avevano intrapreso un percorso di rinnovamento radicale già all’inizio del 2000. Hanno dimostrato, numeri alla mano, che portare l’assistenza verso la casa del paziente e ridurre il ricorso all’ospedale sono obiettivi raggiungibili con un intervento strutturale ben programmato, che si ripaga da solo in tempi brevissimi.
Nel 2008 VHA aveva misurato gli effetti di sistema dai primi tre anni del programma “Care Coordination and Telehealth”. Le migliori condizioni di salute e la migliore organizzazione, con le tecnologie di allora, avevano permesso un minor consumo di risorse tra il 20% ed il 50% sulle diverse malattie croniche.
Questo “minor consumo” certamente non implica direttamente un “risparmio”, ma permette di organizzare meglio le risorse. Un rapido calcolo permette di capire l’ordine di grandezza dei vantaggi: poiché queste condizioni di lunga durata assorbono fino all’80% della spesa sanitaria, si potrebbe arrivare a riallocare un 10%-15% della spesa complessiva.
Tuttavia il destino dei pionieri, che precorrono i tempi, è di non poter essere seguiti dalle altre organizzazioni, che non sono ancora pronte a intraprendere il cammino di cambiamento.
Pertanto il periodo degli “early adopters” è iniziato più tardi, intorno al 2007.
Regioni con copertura universale come Canterbury, oppure il Municipio di Badalona in Catalogna e le molte regioni oggi riconosciute come “reference site” per il Partenariato Europeo di Innovazione sull’Invecchiamento Attivo e in Salute, EIPonAHA) hanno messo in atto una strategia a tutto campo con risultati via via più significativi.
Nello specifico, l’esperienza di Canterbury offre lezioni utili su come ridisegnare il “prendersi cura” con investimenti estremamente limitati, a partire da:
- gli “HealthPathways” – 900 scenari di riferimento per le cure primarie, adattati alla realtà locale In collaborazione tra medici di famiglia e medici ospedalieri (con una versione “HealthInfo” per il cittadino); il relativo sito web ha più di 1,3 milioni di accessi/anno;
- il sistema di gestione a domicilio della domanda per problemi acuti, in cui i MMG sono coadiuvati da infermieri di comunità “di rapido intervento”, con letti di osservazione di comunità, consulenza specialistica ospedaliera remota e test diagnostici rapidi;
- il dossier elettronico condiviso sul processo di cura in atto, che riepiloga i contenuti salienti del gestionale del MMG e delle cartelle ospedaliere, le prescrizioni farmaceutiche, i risultati diagnostici.
E’ stato un cambiamento radicale di un sistema, che risente troppo delle circostanze locali per essere completamente generalizzabile. Non si tratta quindi di “copiare” ma di “ripensare” questa ed altre esperienze in modo consapevole nella specificità del proprio contesto.
E’ possibile attivare una “disruptive innovation” così massiccia nella sanità delle Regioni italiane?
Ogni località e ogni Regione dovrebbero trovare il proprio percorso (roadmap) con una sequenza di interventi che si succedono nel lungo periodo, valorizzando opportunità e competenze verso una medesima meta finale: la completa integrazione tra ospedale e territorio e tra sociale e sanitario. Un elemento unificante potrebbe essere il Piano Nazionale Cronicità, con il PON GOV approvato a dicembre scorso per il relativo supporto tecnologico.
Il ruolo di coordinamento della Regione al proprio interno, e il sostegno reciproco tra le Regioni (a livello nazionale ed europeo) sono elementi indispensabili per un successo in tempi ragionevoli.
Per l’Italia, portare a sistema l’innovazione nei modelli di cura potenziati dalle tecnologie potrebbe portare a un miglioramento significativo degli outcome e, con i parametri citati sopra, ad un minor uso di risorse di almeno 10 miliardi/anno.
Come dire che finora, se si fosse iniziato nel 2007, si sarebbero potute liberare risorse per 100 miliardi di euro, da riallocare opportunamente … Ma non è mai troppo tardi per cominciare!