Quali consigli darei al nuovo Governo per migliorare gli acquisti della PA, in particolare quelli in innovazione? E, soprattutto, cosa consigliare senza cadere nella trappola dell’ovvio, senza adagiarsi nella tentazione di ripetere un qualsiasi tormentone populista (che non sempre aiuta)?
L’interrogativo pone le premesse per osare un po’, correre qualche rischio nella convinzione che chi mi legge è, come direbbero gli anglosassoni, “open mind” e che vuole, come me, sperare e immaginare un modo nuovo per fare le cose. Ma cosa serve, quale ingrediente manca per superare l’impasse che in parte mi blocca, ci blocca, e forse ha bloccato i governi precedenti e anche quello attuale nel farlo? Forse solo un pizzico di coraggio. Si, il coraggio di cambiare sul serio, di essere una voce fuori dal coro, di andare controcorrente, di pensare, appunto, soluzioni nuove.
Il Codice degli Appalti e le grandi opere
Ma iniziamo a sfatare un vecchio mito, quello che vuole il codice degli appalti perennemente non funzionante. Il codice degli appalti, al contrario, funziona eccome. E’ adeguato, è strutturato per realizzare opere infrastrutturali come strade, autostrade, ponti, linee ferroviarie; quelle opere, cioè, che hanno dei tempi lunghi di realizzazione e che, una volta pronte, durano decenni. Ora, per tali opere cosa volete che rappresentino alcuni mesi per espletare le procedure appalti e qualche mese di ritardo nella realizzazione? Nulla. Se non fosse per il fatto che nel nostro amato Paese non perdiamo l’occasione per approfittarcene. I tempi medi delle gare sono comunque troppo elevati e i ritardi realizzativi, a volte, sono di alcuni anni, tanto anche per le infrastrutture (pensate, ad esempio, alla Salerno-Reggio Calabria, la cui ristrutturazione è durata oltre vent’anni). Ad ogni modo, tralasciando anche gli effetti prodotti dai “furbetti”, quell’opera, una volta completata, verrà utilizzata per moltissimi anni.
Il Codice degli Appalti e il digitale
La stessa conclusione non si può trarre per quanto attiene all’innovazione digitale. Il digitale, infatti, invecchia molto prima e molto più rapidamente delle strade e dei ponti. Immaginate, quindi, gli effetti devastanti di quei tempi medi per l’espletamento delle gare e di quei ritardi realizzativi sull’innovazione digitale. E ciò senza nemmeno ipotizzare il maldestro intervento del rinomato “furbetto”. Di fatto, molte soluzioni digitali assoggettate agli attuali tempi degli appalti nascono già vecchie. E non ringiovaniscono col tempo come ne “Il curioso caso di Benjamin Button ” (racconto di Francis Scott Fitzgerald, ndr) . La soluzione digitale vecchia è vecchia e basta. E fa spendere soldi, molti soldi, solo per mantenerla (vecchia). Cosa fare, quindi?
Innanzitutto, occorre innovare il Codice degli appalti, escludendo dal suo stretto ambito di applicazione gli investimenti in innovazione digitale. Occorre però avere il coraggio (anche nei confronti dell’Unione Europea) di farlo. E se nel far ciò dobbiamo correre anche qualche rischio, come quello corruttivo, dobbiamo essere pronti a farlo. E’ un po’ come per i vaccini. Siamo disposti ad accettare una piccola dose di agente patogeno per diventare immuni. Oggi, infatti, il rischio maggiore è restare al palo rispetto ad un mondo che sta galoppando su un cavallo fatto di bit e di byte.
Il prestito formativo
Ma non basta. Perché non è sufficiente una norma per cambiare le cose. Occorre che quell’innovazione venga pensata, progettata e che le procedure, quelle nuove, più semplici, più veloci, siano di fatto espletate con la semplicità e velocità che servono a realizzare l’innovazione stessa. E per far ciò occorre il secondo ingrediente: investire in formazione. Non è facile e non è sicuramente un processo di breve periodo. Ma ancora una volta occorre aver coraggio e osare un po’, e farlo in modo da stimolare, incentivare e anche, entro certi limiti e ad alcune condizioni, finanziare la formazione, soprattutto universitaria, per sfornare anche ricercatori e funzionari pubblici in grado di applicare quelle nuove e più agili regole degli appalti. Poi, però, occorre anche trattenerli questi talenti, non farli andar via e, perché no, provare anche ad attrarre talenti di altri paesi. Ma come fare? Un’idea, uno spunto di riflessione, da verificare sotto il profilo della concreta sostenibilità socio-economico-finanziaria, può essere l’istituzione di quello che chiamo “prestito formativo”. E’ un patto tra lo Stato e chi vuole continuare gli studi ma non può permetterselo, almeno non del tutto o non come vorrebbe. E’ la concessione di un anticipo sulla pensione che verrà restituito, a tasso zero, se resti e produci reddito in Italia, nel corso della vita lavorativa. Prevede, però, anche un altro impegno del sistema pubblico: essere parte attiva nella ricerca del lavoro per il neolaureato che ha goduto del prestito e ha deciso di lavorare in Italia.
Ciò dovrebbe far preferire il percorso universitario, rendendolo in termini relativi più conveniente, rispetto all’alternativa di mettersi sin da subito alla ricerca di un lavoro. Allo stesso tempo dovrebbe incentivare il sistema pubblico nel rendere il mercato del lavoro più efficace ed efficiente, perché prima inserisce il neolaureato nel sistema produttivo e prima questi rientra del prestito. Solo un’idea, lo ripeto, da perfezionare e da valutare meglio, ma che ritengo molto più efficace del famoso reddito di cittadinanza. “Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno; insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”.