Nell’affaire Immuni, l’app che dovrebbe gestire il contact tracing e il cui cammino appare sempre più complicato dal punto di vista tecnico-giuridico-organizzativo, non risultano visibili al comune cittadino due categorie di contratti.
Una reale, l’altra metaforica. Si tratta dei contratti con i soggetti esterni all’amministrazione statale e del contratto di fiducia che, metaforicamente, ogni stato deve stipulare con i propri cittadini.
Il contratto Immuni che non c’è
Dal primo punto di vista, nonostante siano stati menzionati più volte a mezzo stampa, nessuno (dei cittadini) ha potuto visionare gli atti negoziali con i quali i soggetti istituzionali hanno impegnato l’amministrazione e con i quali, sin da subito, si è deciso di intraprendere la strada dell’affidamento diretto alla società ed al consorzio.
Sempre che di consorzio si tratti.
Perché in questa partita non si capisce bene se vi sia stato un consorzio e chi entri o esca da tale aggregazione.
Uno dei funzionari del Ministero dell’innovazione ha dichiarato ad esempio al Corriere della Sera, il 9 maggio scorso: I partner di Bending Spoons Jakala e GeoUniq sono coinvolti? «No, non sono operativi».
Secondo Wired, in un articolo dello stesso giorno “Nel frattempo, il progetto iniziale della cordata guidata da Bending Spoons, che si presentava al bando di aprile con la consulenza del Centro medico Santagostino (rete di poliambulatori specializzati in digitalizzazione), Jakala (società di marketing digitale) e la sua partecipata Geouniq più Arago, gruppo tedesco attivo nel campo dell’intelligenza artificiale e della business automation, ha subito aggiustamenti in corsa”. E, ancora: “La prima a lasciare la partita è stata Geouniq, specializzata nella geolocalizzazione e quindi non più necessaria, dal momento che è stato escluso l’uso del gps, come ricostruiscono a Wired alcune fonti. Poi il Centro medico Santagostino, di cui non si conosce il ruolo che potrebbe avere in futuro, ma la cui presenza sarebbe stata ridimensionata dall’entrata ufficiale del ministero della Salute, investito del ruolo di titolare del trattamento dei dati, spiegano le stesse”.
I dubbi sul contratto
A questo punto sorge una domanda: quali sono dunque le parti negoziali? Chi fa cosa? Quali sono le società impegnate in questo progetto? Quali rapporti hanno con lo Stato?
Se la proposta è stata fatta con determinati membri del consorzio come è possibile che poi tali consorziati, o che dir si voglia, non partecipino?
Da questo punto di vista, non si comprende il perché ad esempio non siano stati pubblicati sul sito del Ministero dell’Innovazione, insieme alle relazioni degli esperti della task force, anche l’atto di affidamento alla società che ha sviluppato l’app, ed il relativo contratto, di cui il Ministero guidato da Paola Pisano deve essere ovviamente a conoscenza, anche se tale contratto fosse di competenza della struttura commissariale,
Il vero contratto che manca però realmente nell’affaire Immuni è quello “sociale” che metaforicamente deve legare lo stato ai cittadini, senza il quale gli appartenenti ad una comunità non possono fidarsi dei propri governanti e delle loro proposte.
Così come manca, nell’uso ipotizzato dell’app ( sempre metaforicamente) quello che in genere è presente in un contrato a prestazioni corrispettive che lega due soggetti.
In questa vicenda infatti c’è un soggetto, il cittadino, a cui si promette l’uso volontario di un app, giocando sul termine volontario, come se l’uso dell’app fosse un beneficio per quest’ultimo, e poi c’è lo stato, che si trincera dietro silenzi alle richieste di FOIA, come ben descritto dal giornalista Angius di Wired, e che, pilatescamente, dopo aver fatto scaricare l’app, si scarica ( scusate il gioco di parole) di qualsivoglia responsabilità sul dopo.
E c’è chi poi ricorre allo storytelling, come quella del fatto che il cittadino già dà i suoi dati alle major del digitale, per cui, non avrebbe senso, farsi scrupoli oggi a scaricarsi l’app.
Tutto ciò serve esclusivamente a far scaricare l’app al maggior numero di cittadini , poiché se ciò non accade, qualcuno potrebbe chiedere conto dell’efficacia dell’intero sistema.
Ma questa disinvolta rappresentazione della realtà che serve a pacificare la propria coscienza amministrativa, non tiene di conto di quello che in realtà succederà quando si accende, per dirla come l’epidemiologo italiano attivo negli Usa, Vespignani, la luce rossa, che indica un possibile incontro con un contagiato, sul nostro telefonino.
Ecco che lo storytelling di chi sta spingendo l’app, al solo fine di raggiungere una percentuale di scaricamente tale da giustificare l’adozione del sistema, crolla di schianto.
Perché il cittadino che ha scaricato l’app e che riceve l’alert viene lasciato completamente solo dallo stato, senza poter sapere chi l’ha potenzialmente contagiato, dove e perché, senza sapere cosa fare, se non autoisolarsi, dovendo poj spiegare a tutti, a partire dall’ambiente lavorativo e familiare, che si è ricevuto un alert, che lo obbliga a confrontarsi con lo stato, che però è del tutto assente e non si impegna a fare nulla.
E’ questa fra l’altro una delle conseguenza della decentralizzazione spinta scelta da chi ha deciso lo sviluppo del sistema di contact tracing all’italiana.
Piena libertà dunque, non del cittadino, che ha ricevuto l’alert, ma dello stato, che può anche non sapere nulla e non dover far nulla per assistere il cittadino.
Il Commissario Arcuri ha definito il cittadino in questa fase “ protagonista” del proprio percorso sanitario.
Un modo “elegante” per dire che sono affari del cittadino quello che poi succederà dopo aver scaricato l’app e ricevuto l’alert,, e che il tutto è rimesso alla sua volontà.
Solo che purtroppo non è così perché quello stesso cittadino che dovrebbe essere lusingato di aver potuto scaricare volontariamente e gratuitamente l’app è obbligato a dichiarare se si è entrati in contatto con un contagiato, a pena di responsabilità anche penale, come ben si vede dalle diverse autocertificazioni ancora in vigore e che un giorno, laddove fosse stato portatore di una malattia, avendo comunque ricevuto l’alert dall’app potrebbe essere chiamato a rispondere, in base a quella che si chiama colpa generica, di lesioni colpose gravi o gravissime o anche di omicidio colposo.
Lo stesso cittadino che sarà costretto a chiamare decine di volte la ASL, il 118, la guardia medica, al fine di supplicare qualcuno di venirgli a fare il tampone, o solamente di misurargli il livello di ossigeno nel sangue, e che si ritroverà forse non una ma più volte in questa situazione, con un semplice colpo d’occhio alla luce rossa dell’app che si accende.
Basta accedere alle decine di testimonianze in rete, addirittura a quella di un questore della Camera dei Deputati, per capire cosa succede a chi desidera l’intervento pubblico in un momento di difficoltà, e probabilmente accadrà in numero ancor maggiore quando l’app darà i primi segni di vita.
Le risposte che non ci sono
Quando vengono fatte queste osservazioni in genere lo storytelling si arena e cominciano le risposte burocratiche che si sintetizzano, nelle seguenti espressioni “noi abbiamo seguito l‘Europa nella strada della volontarietà”, “ abbiamo vigilato che la volontarietà fosse applicata”, “il compito sanitario appartiene ad altri”, “ i dati sono anonimi, o un po’ anonimi” “E’ compito del medico di base sapere se c’è necessità di un tampone”, “ non possiamo mica fare il tampone a tutti”.
In un contratto che si rispetti le parti dovrebbero essere a conoscenza di tutti gli eventi che possono sorgere in costanza di contratto, anche e soprattutto di quelli negativi e non del solo fatto che l’adesione è volontaria e del fatto che due telefonini si scambino i dati.
E una delle due parti dovrebbe poter pretendere un intervento immediato dell’altro per adempiere alle proprie obbligazioni.
Con Immuni questo non accadrà.
Chi scarica Immuni saprà solo una parte della verità, quella che gli prospetta chi gli vuole fare scaricare l’app, per il resto c’è sempre tempo, non è più un problema di innovazione e digitalizzazione, ma al limite dell’altra burocrazia diversa da quella “buona”
Oppure la colpa potrà essere addossata facilmente al cittadino che non ha scaricato l’app per non dover aspettare chiuso in casa il Godot che lo veniva a salvare.
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Nota del direttore
Agendadigitale.eu da inizi aprile sta chiedendo al Governo risposte a queste e altre domande, finora rimpallati da presidenza del consiglio, a ministero dell’innovazione a task force Arcuri.
1)L’ufficio stampa della presidenza ci ha detto: “deve rispondere il ministero”
2)Il ministero dopo sette giorni di sollecito ha detto “Noi sull’app non parliamo proprio. Tutto quello che potevamo dire è sul sito” (29 aprile)
3)La presidenza allora ha rimandato ad Arcuri
4)Dal team di Arcuri promettono risposte da sette giorni
5)Tornati al ministero, ecco la risposta
“Proprio per rispettare il dovere di trasparenza a cui un’amministrazione come la nostra è tenuta, abbiamo ritenuto doveroso mettere a disposizione pubblica, sul sito del Dipartimento, tutti i documenti che riguardano il processo e la scelta della soluzione tecnologica. Inoltre il Ministro ha risposto alle Istituzioni, come era giusto fare, in particolare al Parlamento in due audizioni. Audizioni i cui testi sono anch’essi a disposizione pubblica. Sono certo che potrai trovare tutte le risposte in quei testi più che esaustivi. Inoltre a breve saranno disponibili ulteriori strumenti ufficiali”.
Invito i lettori a verificare autonomamente sul sito cosa c’è e cosa no. Noi non abbiamo trovato risposte utili.
La nostra testata, nel continuare a guardare senza pregiudizi di sorta i progetti istituzionali relativi all’innovazione, sostiene la necessità di perseguire una politica di massima trasparenza su questioni centrali per la vita democratica. Prendiamo atto che il Governo ha scelto una via opposta, forse anche per una certa confusione di ruoli istituzionali dettata dalla crisi. Guardiamo con fiducia alla promessa di un nuovo corso, ora che la fase 2 dell’emergenza lo permetterà, e continuiamo ad aspettare i chiarimenti richiesti”