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Assistenza territoriale nel PNRR: il digitale non basta se i modelli sono vecchi

La ricetta del PNRR per rafforzare l’assistenza sanitaria territoriale prevede il potenziamento e la creazione di strutture e presidi territoriali: le Case della Comunità e gli Ospedali di Comunità. Ma per avvicinare la sanità ai pazienti c’è bisogno di nuovi modelli organizzativi e strumenti informativi adeguati

Pubblicato il 19 Mag 2021

Massimo Mangia

SaluteDigitale.blog

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L’obiettivo che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) si pone per la salute è di rafforzare l’assistenza sanitaria territoriale e rendere più efficace l’integrazione tra servizi ospedalieri, territoriali e socio-sanitari.

L’obiettivo è certamente condivisibile mentre, a lasciare perplessi, è la strategia che è stata delineata.

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La ricetta che è stata scelta prevede, per rafforzare le prestazioni erogate sul territorio, il potenziamento e la creazione di strutture e presidi territoriali: le Case della Comunità e gli Ospedali di Comunità.

Le prime sono l’ennesima riedizione del concetto delle Case della Salute, introdotto per la prima volta da Giulio Maccacaro, ricercatore e ispiratore di “Medicina Democratica” in uno scritto del 1972, prima ancora dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, avvenuto nel 1978.

La sperimentazione delle prime Case della Salute è iniziata nel 2007 grazie ad un finanziamento presente nella legge finanziaria che ha visto alcune regioni, in particolare Toscana ed Emilia Romagna, creare queste strutture per il rilancio delle cure primarie.

Gli Ospedali di Comunità sono stati previsti nel Patto per la Salute 2014-2016 ma soltanto l’anno scorso ne sono stati definiti gli standard (Intesa Stato-Regioni n. 17 del 20 febbraio 2020).

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La situazione attuale

A 14 anni dalle prime sperimentazioni ci sono ben 8 Regioni (oltre il 30%) che non hanno istituita nemmeno una Casa della Salute; situazione peggiore per quanto riguarda gli Ospedali di comunità dove in 11 regioni (oltre il 50%) non ce n’è nemmeno uno.

In Italia ci sono attualmente 493 Case della Salute. La Regione che ne ha di più è l’Emilia Romagna che ne conta 124, a seguire il Veneto con 77, la Toscana con 76 e il Piemonte con 71. A seguire troviamo la Sicilia che ne ha 55, il Lazio 22, le Marche 21, la Sardegna 15, la Calabria 13, l’Umbria 8, il Molise 6, la Liguria 4 e la Basilicata una. In Valle d’Aosta, nelle province di Bolzano e Trento, in Lombardia, Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Puglia e Campania non ci sono presidi.

Gli ospedali di comunità sono 163 per un totale di 3.163 posti letto. La Regione che ne ha di più è il Veneto (69 presidi per 1.426 pl). A seguire c’è l’Emilia Romagna (26 per 359 pl), la Lombardia (20 per 467 pl), la Toscana (20 per 245 pl), le Marche (14 per 616 pl), l’Abruzzo con 5, il Piemonte (5 per 30 pl), il Molise ne ha 2, mentre in Liguria e Campania ce n’è uno solo per regione. In Valle d’Aosta, nelle province di Bolzano e Trento, in Friuli Venezia Giulia, Lazio, Umbria, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna non ci sono presidi di questo tipo.

Cosa prevede il PNRR: le Case della Comunità

Il piano prevede l’attivazione di 1.288 Case della Comunità entro la metà del 2026, che potranno utilizzare sia strutture già esistenti sia nuove. Il costo complessivo dell’investimento è stimato in 2 miliardi di euro.

La Casa della Comunità sarà, secondo il Piano, “lo strumento attraverso cui coordinare tutti i servizi offerti, in particolare ai malati cronici. Nella Casa della Comunità sarà presente il Punto Unico di Accesso alle prestazioni sanitarie. La Casa della Comunità sarà una struttura fisica in cui opererà un team multidisciplinare di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialistici, infermieri di comunità, altri professionisti della salute e potrà ospitare anche assistenti sociali”.

L’idea alla base di questo paradigma è che l’integrazione dei servizi, per essere realizzata, richieda una struttura fisica nella quale collocare le cure primarie, gli specialisti, gli infermieri e gli assistenti sociali. Si ritiene che la mancanza di integrazione attuale dipenda principalmente quindi dalla distanza fisica che separa questi professionisti. Peccato però che non sia così.

L’isolamento delle cure primarie è, prima di tutto, organizzativo e nasce dall’inquadramento dei medici di medicina generale (MMG) e dei pediatri di libera scelta (PLS) che sono professionisti autonomi che operano in virtù di un rapporto convenzionale con il Servizio Sanitario Nazionale, regolato dall’Accordo Collettivo Nazionale (ACN) e dagli eventuali accordi regionali.

Questa tipologia di rapporto rende estremamente complicato e oneroso la realizzazione di qualsiasi modello assistenziale che vada aldilà dei compiti previsti dall’ACN. Il problema nasce su come integrare competenze, conoscenze e informazioni tra le cure primarie, i servizi territoriali e l’ospedale. Il primo ostacolo è rappresentato dal sistema informativo, che MMG e PLS scelgono e gestiscono in autonomia e che non vogliono sia integrato, ossia “aperto” ad altri operatori sanitari.

Ma il sistema informativo è soltanto la conseguenza, non la causa, di un problema che è prima di tutto professionale e riguarda l’atteggiamento dei MMG e PLS verso il Sistema Sanitario Nazionale, relazione che è fortemente condizionata dalla natura giuridica del rapporto e che determina molto spesso conflitti che pregiudicano qualsiasi forma di collaborazione interprofessionale.

I problemi delle cure primarie però non sono circoscritti alla scarsa integrazione con l’ospedale. La funzione di gate keeping, ossia di “apri porta” ai servizi sanitari è poco efficace e determina bassa appropriatezza prescrittiva che si riflette sul problema delle liste di attesa.

Il problema però non riguarda soltanto l’appropriatezza ma anche l’efficacia della domanda. Spesso il paziente, dopo che ha aspettato un periodo di tempo più o meno lungo, viene visitato dallo specialista che gli prescrive degli esami strumentali che gli occorrono per verificare l’ipotesi diagnostica o valutare gli effetti della patologia. Ciò significa un’altra prenotazione con relativa attesa, quindi un’ulteriore prenotazione per la visita con lo specialista per completare il percorso diagnostico – terapeutico.

Per superare queste inefficienze dovute alla frammentazione e alla dispersione delle competenze, sono necessari dei protocolli diagnostici per la valutazione e la prescrizione di esami strumentali e visite. La cartella clinica elettronica delle cure primarie non deve essere soltanto un contenitore di informazioni e un mezzo per eseguire prescrizioni ma un vero e proprio sistema di supporto al medico che lo guidi nel percorso diagnostico – terapeutico.

Collocare insieme nella stessa struttura medici delle cure primarie e specialisti, senza cambiare il modello organizzativo, non risolve alcun problema. Per realizzare le cure integrate serve, per prima cosa, un nuovo modello basato su un insieme comune di obiettivi, regole, compiti che sia collaborativo e data-driven. Un nuovo modello di medicina territoriale supportato dal digitale, incentrato sul paziente, che metta in rete le competenze, le conoscenze e le prestazioni di cui può disporre il Servizio Sanitario Nazionale.

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Le prese di posizione sulle Case della Comunità

Senza un nuovo modello integrato di cure è molto probabile che le Case di Comunità non incidano in modo significativo sull’efficacia dell’assistenza territoriale. Modello che, stante l’attuale inquadramento delle cure primarie, deve essere concertato e discusso con i loro rappresentanti. Le premesse sono, purtroppo, negative. Il segretario della FIMMG, Silvestro Scotti, ha espresso la delusione per il Piano che, a suo dire, invece di avvicinare la sanità ai cittadini rischia di allontanarla. Dietro questa dichiarazione c’è l’avversione del sindacato dei medici di medicina generale verso un modello che, secondo loro, non può essere di prossimità dal momento che esistono 16 milioni di cittadini che vivono in comuni con meno di 5 mila abitanti.

Delusione verso il piano è stata anche manifestata da dirigenti, medici ed esperti di sanità che hanno espresso i propri dubbi verso un modello che non ha prodotto, finora, risultati dimostrabili di miglioramento dell’efficacia.

Il ruolo della telemedicina

Il piano prevede il potenziamento dei servizi domiciliari per aumentare il volume delle prestazioni rese in assistenza domiciliare fino a prendere in carico, entro la metà del 2026, il 10 percento della popolazione di età superiore ai 65 anni (in linea con le migliori prassi europee). L’intervento si rivolge in particolare ai pazienti di età superiore ai 65 anni con una o più patologie croniche e/o non autosufficienti.

Il piano prevede l’identificazione di un modello condiviso per l’erogazione delle cure domiciliari che sfrutti al meglio le possibilità offerte dalle nuove tecnologie (come la telemedicina, la domotica, la digitalizzazione) e la realizzazione presso ogni Azienda Sanitaria Locale (ASL) di un sistema informativo in grado di rilevare dati clinici in tempo reale.

Si prevede inoltre l’attivazione di 602 Centrali Operative Territoriali (COT), una in ogni distretto, con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari, assicurando l’interfaccia con gli ospedali e la rete di emergenza-urgenza e l’utilizzo della telemedicina per supportare al meglio i pazienti con malattie croniche.

L’investimento previsto è di 4 miliardi di euro, di cui 2,72 miliardi connessi ai costi derivanti dal servire un numero crescente di pazienti, 0,28 miliardi per l’istituzione delle COT e 1 miliardo per la telemedicina.

Se è certamente positiva la decisione di definire un modello condiviso di assistenza domiciliare – ma sarà poi possibile in un Paese dove ogni regione e addirittura ASL si organizza a modo suo – lascia francamente perplessi aver già definito il numero di COT necessarie che appare decisamente esagerato. La sensazione è che, anche in questo caso, l’integrazione e il coordinamento siano intese più in senso fisico che logico, atteggiamento che contrasta con l’affermazione di voler sfruttare al meglio le possibilità offerte dalle nuove tecnologie.

Adattare le tecnologie ai vecchi modelli gestionali

La tecnologia, applicata a modelli concepiti a prescindere da essa, non è in grado da sola di migliorare in modo significativo l’efficacia clinica e assistenziale. Per incidere in modo significativo occorre adottare un approccio di innovazione “disruptive”, iniziando dagli obiettivi strategici e dai bisogni dei cittadini, esaminando le potenzialità delle tecnologie per disegnare ex-novo dei modelli che permettano davvero di avvicinare la sanità ai pazienti, portando le competenze e le conoscenze cliniche là dove servono.

Collocare professionalità diverse nelle stesse strutture, qualunque sia il nome che gli diamo, non è garanzia di integrazione delle cure né di maggiore efficienza.

Più che di Case di Comunità, i cittadini hanno bisogno di medici preparati, pro-attivi, in grado di guidarli nella prevenzione e poi nella cura delle loro patologie. Per potenziare le cure primarie e raccordarle alla specialistica servono nuovi modelli organizzativi e strumenti informativi adeguati. Il telemonitoraggio, da solo, non risolve l’isolamento e il gap che c’è tra il territorio e l’ospedale.

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