Secondo un’indagine coordinata da Gfk Eurisko, sono 11,5 milioni gli italiani (il 42% degli adulti) che cercano in rete informazioni relative alla salute, la cura e le patologie. Internet e i social media si collocano in terza posizione tra le fonti principalmente impiegate dai cittadini, subito dopo il medico di famiglia e lo specialista.
Che l’informazione sanitaria debba passare anche attraverso i social non lo dicono solo i numeri (un recente rapporto del Pew research center indica che 6 americani su 10 li usano per informarsi) ma è suggerito anche da diverse organizzazioni sanitarie (tra le quali l’Organizzazione mondiale della Sanità e lo stesso ministero della Salute che in proposito ha stilato qualche anno fa delle specifiche linee guida). D’altra parte tali strumenti sono molto diffusi tra gli italiani, come dimostra un’indagine del Censis di settembre 2016. Secondo tale report, infatti, 2 italiani su 3 usano Facebook, 47% usa YouTube, mentre gli iscritti a Instagram sono il 17%.
Ma i social media sono lo strumento più adatto per comunicare la salute? Per come sono strutturati, gli utenti dei social media sono vittime del confirmation bias, quel meccanismo in base al quale siamo portati a leggere e a credere a quei “post” o ai quei “tweet” che confermano le nostre convinzioni già consolidate. Secondo i dati pubblicati in un famoso articolo di PNAS (Proceedings of the National Academy of Science) di Walter Quattrociocchi dell’Imt Alti Studi di Lucca, passare dall’informazione alla teoria del complotto è un attimo. Più si cerca, attraverso un razionale scientifico (anche basato sulle prove di efficacia e sulla Evidence based medicine), di convincere sui social media i “complottisti”, più questi si convincono della bontà della loro tesi. Si tratta, d’altra parte, degli stessi meccanismi sfruttati da post-verità e “fatti alternativi”, come dimostra il ruolo che i social media hanno avuto nella Brexit e nelle elezioni presidenziali americane.
Per fortuna coloro che appartengono a questa categoria sono solo una piccola minoranza, spesso però molto militante. Una comunicazione efficace sui social media dovrebbe pertanto essere rivolta a coloro (e sono la maggioranza) che un’opinione su specifici argomenti sanitari ancora non se la sono fatta, e che, supportati da una informazione inappuntabile dal punto di vista scientifico e da un linguaggio che punti anche sull’emotività, si facciano loro stessi promotori di messaggi corretti sulla rete. D’altra parte sono proprio queste le considerazioni alla base del “fenomeno” Burioni, dal nome del noto virologo del San Raffaele di Milano diventato, grazie alla sua pagina pubblica su Facebook e alla sua tenacia nel diffondere la cultura scientifica, il punto di riferimento in Italia del movimento a favore delle vaccinazioni nei bambini.
Sarà per la teoria del “confirmation bias” oppure per l’avversione delle istituzioni pubbliche italiane verso l’adozione delle nuove tecnologie (in particolare quelle che riguardano la comunicazione, come dimostrato dall’Osservatorio Innovazione digitale in Sanità del Politecnico di Milano del 2016 o come discusso durante il Forum Pa dello scorso anno), ma il numero di Aziende sanitarie locali (oggi Asst) presente in rete stenta a decollare.
Il Dipartimento PolComIng dell’Università di Sassari ha infatti stimato che solo il 53% delle Asst è presente su almeno una piattaforma di social media, con una certa preferenza per YouTube (usato da circa il 50 per cento delle strutture che usano i social media). Se nel corso degli ultimi due anni la crescita è stata costante (nel 2013 erano il 36% di quelle italiane), i canali di social media sono però spesso rivolti agli addetti ai lavori e utilizzati come una finestra per promuovere servizi sanitari o informazioni “amministrative” (comunicati stampa, circolari, bandi). Sono poco usati per la promozione della salute e la prevenzione delle malattie, e non si cerca (o non si riesce) ancora ad attivare le voci dei cittadini/pazienti e forme di un loro coinvolgimento che possa aumentarne l’“empowerment”.
Eppure di esempi ce ne sono molti, soprattutto nei paesi anglosassoni, dove ospedali, istituzioni sanitarie e associazioni di pazienti si affidano ai social media per arrivare più velocemente ai cittadini. Migliaia di ospedali usano i social media per comunicare con il pubblico, per attivare programmi di promozione della salute e campagne di prevenzione, per informare in modo attivo e partecipativo i cittadini/pazienti e per ascoltare le loro storie e le loro richieste.
L’Oms, i Cdc di Atlanta, il National Cancer Institute (giusto per citare le più famose organizzazioni sanitarie internazionali) sono presenti su tutti i social media oggi disponibili con diverse decine di profili, ognuno rivolto a una specifica categoria di utenti (i cittadini, i pazienti, i ricercatori, gli operatori sanitari, i giornalisti), con l’obiettivo di aumentare in loro il livello di conoscenza su una specifica patologia al fine di ridurre i rischi di contrarla.
D’altra parte iniziano ad apparire in letteratura evidenze scientifiche che dimostrano come tali strumenti siano più efficaci rispetto a quelli tradizionali nel modificare gli stili di vita delle persone e nel prevenire le malattie non trasmissibili, quelle cioè causate da stili di vita non salutari. Per esempio, studi randomizzati dimostrano come la reiterazione di messaggi motivazionali contribuisca a ridurre il numero di fumatori e il numero di sigarette consumate, mentre altri dimostrano come Facebook abbia contribuito negli Stati Uniti ad aumentare il numero di donazioni di organi. Messaggi motivazionali, condivisione dei risultati raggiunti, possibilità da parte degli utenti di partecipare alle discussioni e interagire tra loro sono meccanismi sfruttati in altri studi randomizzati che dimostrano come Facebook sia in grado di aumentare il tempo dedicato all’attività fisica, e come Twitter possa aiutare a perdere maggiormente peso rispetto a coloro che non lo usano.
Cosa possono fare le istituzioni sanitarie centrali e locali per migliorare la loro comunicazione? Molto, a cominciare dalla riorganizzazione della comunicazione istituzionale, le cui funzioni sono oggi disperse tra vari uffici (URP, ufficio stampa, promozione della salute, ICT, gestione sito web, direzione, ecc.). Di seguito fornisco alcuni suggerimenti con la speranza che possano dare un contributo per iniziare ad affrontare la questione.
- Fare informazione di qualità attraverso i propri siti web che sia più puntuale, costante e sostenuta da argomentazioni scientifiche solide. L’informazione non dovrebbe essere unidirezionale ma esperti del settore dovrebbero essere disponibili, anche attraverso il web, a fornire le risposte alle domande che arrivano dalla rete.
- Diffondere i contenuti disponibili sui siti web facendo attenzione a: a) linguaggio utilizzato (il 50% degli italiani soffre di analfabetismo funzionale e pertanto occorre usare metodologie di comunicazioni diversificate); tipologia di media (e social media) da impiegare, che occorre scegliere in funzione del target che si desidera raggiungere e del messaggio che si intende trasmettere.
- Abituarsi ad “ascoltare” la rete e i social media per conoscere il pensiero dei cittadini (ancora prima che pazienti) sull’operato della struttura, individuando possibili errori di gestione/comunicazione di cui fare tesoro per identificare possibili soluzioni.
- Abituarsi ad “ascoltare” la rete e i social media attraverso tecniche di “big data” alla ricerca di possibili bufale prima che queste diventino troppo grandi da gestire e adottare immediatamente “interventi informativi” con lo scopo di smontarle.
- Dotarsi di professionalità in grado di scrivere sul web e sui social media di salute e medicina.