digital divide

Competenze digitali, troppi divari di genere nelle professioni sanitarie



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L’analisi del digital divide nelle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione evidenzia sfide significative, tra cui disuguaglianze di genere e l’importanza delle competenze digitali per facilitare un’equa accessibilità e migliorare l’erogazione dei servizi sanitari

Pubblicato il 18 mar 2025

Teresa Calandra

Presidente FNO TSRM e PSTRP, componente Commissione donne  ASSD

Dilva Drago  

vicepresidente ASSD e componente comitato centrale FNO TSRM e PSTRP



Il PNRR ha stanziato ben 19,7 miliardi con la Missione 6 – Salute, per rivedere i processi di cura nella sanità digitale

L’accesso alle tecnologie, a partire da quelle dell’informazione e della comunicazione, ha un aspetto di rilievo a livello lavorativo, economico, politico e sociale. Abbiamo voluto analizzare all’interno delle professioni sanitarie i divari esistenti in ambito digitale.

Panoramica demografica delle professioni sanitarie tecniche

Quando parliamo di professioni sanitarie pensiamo prevalentemente ai medici e al personale infermieristico ma nella realtà sono molte le professioni sanitarie che giocano un ruolo molto importante e indispensabile nel mondo della sanità.

La popolazione dei professionisti sanitari della Federazione nazionale Ordini dei tecnici sanitari di radiologia medica, delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione FNO TSRM e PSTRP è formata da circa 160.000 professionisti e comprende 18 professioni:

  • 9 dell’area tecnica (area tecnico diagnostica: tecnico audiometrista, tecnico sanitario di laboratorio biomedico, tecnico sanitario di radiologia medica, tecnico di neurofisiopatologia; area tecnico assistenziale: audioprotesista, tecnico ortopedico, dietista, tecnico della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione polmonare, igienista dentale),
  • 7 dell’area della riabilitazione (educatore professionale, logopedista, ortottista, podologo, terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, tecnico della riabilitazione psichiatrica, terapista occupazionale) e
  • 2 dell’area della prevenzione (assistente sanitario, tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro).

La popolazione in oggetto, inoltre, presenta delle caratteristiche peculiari in termini di genere, in quanto è soprattutto femminile (70,33%), ma presenta differenze di distribuzione percentuale rilevanti all’interno delle singole professioni: se si riscontra il 95% di presenza femminile tra i Logopedisti, i Tecnici ortopedici registrano una presenza del 29%.

Di particolare interesse è il dato per cui la percentuale femminile raggiunge solo il 37,5% quanto si fa riferimento ai ruoli di dirigenza coperti dai nostri professionisti. In altre parole, la percentuale di donne che ricoprono ruoli di leadership nelle nostre professioni sanitarie rimane ancora significativamente contenuta.

Le nostre professioni soffrono, parimenti a tutte le professioni sanitarie, in questo periodo storico, di crisi vocazionale legata anche alla scarsa considerazione sociale, del valore generativo di benessere che influisce in tutti gli aspetti economici, relazionali, produttivi della società. Una survey, realizzata in collaborazione con il Dipartimento sociologia economica dell’Università La Sapienza (DISSE), limitata alle professioni dell’area della riabilitazione, sul tema della soddisfazione del lavoro rileva che su 11 dimensioni esplorate 7 risultavano essere caratterizzate da una significativa insoddisfazione e che tale insoddisfazione si manifestava soprattutto sul fronte del riconoscimento della valenza sociale del proprio lavoro.

Trasformazione digitale e opportunità nell’assistenza sanitaria

La sanità digitale, basata sull’Information and Communication Technology, opera a favore di un’equità di accesso alle cure e di una fruibilità in tempi veloci delle informazioni.

Ha la capacità di superare le barriere dei deserti sanitari e le difficoltà di accedere fisicamente ai servizi legate a disabilità o fragilità.

Le soluzioni digitali in sanità, proposte in precedenza anche tramite atti normativi, sono decollate durante la pandemia Covid che ha avuto l’effetto di accelerare il cambiamento, sia della pratica clinica delle singole professioni, sia delle organizzazioni e politiche sanitarie.

La missione 6 del PNRR, ha successivamente investito sulla trasformazione digitale del servizio sanitario, ponendo tra gli interventi previsti la formazione per lo sviluppo di competenze digitali tra i professionisti sanitari.

L’esperienza dell’utilizzo ICT e la possibilità di continuare a fornire alle persone con necessità di assistenza le proprie competenze specifiche in telepresenza ha prodotto un processo sociale di adattamento al cambiamento nel nucleo operativo delle organizzazioni sanitarie, riservando le resistenze culturali e organizzative a una parte minoritaria dei professionisti sanitari. Resistenze legate soprattutto al timore, nella fase iniziale della curva di apprendimento, di un dispendio notevole di tempo.

Due punti richiedono particolare attenzione:

  • upgrade delle organizzazioni sanitarie nella trasformazione digitale, non solo nella adozione di tecnologie, ma soprattutto nella interoperabilità dei sistemi;
  • formazione del personale sanitario all’erogazione di servizi e prestazioni digitali che comprenda competenze digitali tecniche (conoscenza approfondita dei mezzi), cultura dei dati, privacy e sicurezza.

Gender gap nelle professioni sanitarie: dati e analisi

È nota la presenza di un divario digitale di genere. La disparità di accesso e partecipazione tra uomini e donne nel mondo digitale non fa altro che riproporre in altro ambiente le differenze di genere ancora presenti in ogni aspetto della società. Per questo motivo nell’analisi delle 18 professioni sanitarie afferenti ai nostri ordini, per arrivare al Digital Gender Divide, abbiamo voluto partire dal Gender Gap.

La nostra Federazione nazionale ha promosso sulla propria popolazione un questionario, nell’ambito del progetto SeGeA (Sex and Gender Approach) al fine di rilevare gli effetti di genere nella cura e nel lavoro. Al questionario hanno risposto il 77% donne e il 23 % uomini (130 rispondenti hanno preferito non dichiarare il proprio genere, dato qualitativamente rilevante nel segnalare un tema meritevole di prossimo approfondimento), con una fascia di età prevalente di oltre 46 anni e a seguire dai 26 ai 35 anni.

La maggiore partecipazione femminile all’indagine si radica nella maggiore percentuale di questo genere nelle professioni afferenti al nostro ordine.

Tuttavia la percentuale di rispondenti donne supera di quasi dieci punti la percentuale demografica spia di una maggiore sensibilità femminile ai problemi del gender gap e a un pregiudizio culturale ancora da sradicare da parte maschile che sia una questione solo femminile e non dell’intera società. I/le partecipanti hanno ritenuto che il genere abbia avuto un impatto sulla propria carriera (soprattutto le rispondenti donne). Quasi un quinto (18,5%) delle persone intervistate ha dichiarato che il proprio genere ha complicato la conciliazione tra vita privata e lavoro; il 12,5% ritiene che il genere di appartenenza impatti sugli sforzi necessari perché il proprio lavoro venga riconosciuto e sulla possibilità di avere dei riconoscimenti di carriera: l’11,95%, sul generale riconoscimento del lavoro svolto e sulla disponibilità di tempo da dedicare al lavoro (11,5).

Meno comune invece è la percezione che il genere abbia influenzato le entrate salariali (5,9%). Nell’indagine già citata del Dipartimento di sociologia economica dell’Università La Sapienza (DISSE) l’insoddisfazione mostrata per la retribuzione sfiora il 70%. In controtendenza la popolazione dei lavoratori autonomi per scelta che appartengono in maggioranza al genere maschile, si contraddistingue per soddisfazione rispetto alla retribuzione, questa tipologia di nostri professionisti “sembra si caratterizzarsi per livelli di reddito e soddisfazione complessivamente più alti. È maggiore, infatti, sia l’autonomia nell’esercizio della professione, sia la possibilità di raggiungere livelli di reddito più elevati anche se a fronte di una maggiore discontinuità e impegno orario”.

Più della metà dei rispondenti nella survey di SeGeA (77,1%) ha dichiarato di prendersi cura di qualcuno. Analizzando la relazione tra questi dati e il genere dei rispondenti emerge che il 78,19% delle donne si prende cura di qualcuno con continuità e costanza, rispetto al 77,31% degli uomini. Il 23,3% delle donne ha dichiarato di dedicare meno ore al lavoro e svolgere un lavoro partime mentre solo il 7,8% degli uomini ha manifestato la medesima tendenza. Oltre la metà di persone intervistate, 55,5% (70% degli uomini rispetto al 51,3% delle donne) ritiene che all’interno del proprio contesto lavorativo, donne e uomini abbiano pari possibilità di realizzazione, tuttavia una percentuale consistente (all’incirca il 30%) pensa che le donne abbiano minori possibilità rispetto agli uomini. Solo una piccola porzione di partecipanti (3,5%) sostiene invece che siano gli uomini ad avere minori possibilità di realizzarsi rispetto alle donne.

Emergono delle differenze rilevanti di genere rispetto alla credenza che le donne abbiano minori possibilità di realizzazione nel contesto lavorativo: lo sostiene infatti oltre un terzo delle donne (33,5%) e solo il 14% degli uomini. Le donne riportano livelli più elevati di sensibilità al genere nella cura (3,37% vs 3,11%) sostenendo quindi più fortemente che i professionisti della salute dovrebbero considerare il genere nel prendersi cura dei propri pazienti.

Dal gender gap al digital gender divide nelle professioni sanitarie

In sintesi dai dati è emerso che il genere ha un impatto sulla carriera, complica la conciliazione tra vita privata e lavoro, influisce sugli sforzi necessari perché il proprio lavoro venga riconosciuto. Sulla disparità legata al genere incidono anche la diffusione del lavoro part-time e la differenza nella distribuzione del carico di lavoro domestico e di accudimento all’interno del nucleo familiare. L’indagine ha messo inoltre in evidenza che le donne che riportano un’esperienza di discriminazione sono più numerose degli uomini. Le differenze sono particolarmente evidenti quando la discriminazione è perpetrata da parte dei superiori (36,6% delle donne contro il 19,5% degli uomini) ma anche dalle persone assistite (il 24,4% contro 9%) rendendo le donne più vulnerabili negli episodi di aggressione ai danni del personale sanitario.

La presenza di un divario di genere si realizza anche nell’ambito digitale (gender digital divide).

Per la realizzazione del volume Il digital gender gap nella cultura del digitale in sanità di ASSD (Associazione scientifica per la sanità digitale), la domanda che ci siamo posti è stata se anche nell’ambito delle nostre professioni sanitarie trovasse espressione il Gender Digital Divide. Al fine di rispondere compiutamente al quesito, abbiamo condotto un’intervista all’interno delle nostre professioni.

Dato di partenza imprescindibile è il differente livello di pervasività con cui la tecnologia si rende necessaria nelle 18 professioni.

Infatti, ci sono professioni dove l’elemento tecnologico è fondamentale rendendole non esercitabili senza apparecchiature medicali; mentre per altre professioni sanitarie la tecnologia è un mezzo, ma l’esercizio della professione è possibile anche senza il supporto tecnologico.

Nelle diverse professioni sanitarie le competenze STEM non sono parimenti richieste, tuttavia, tutte le professioni sanitarie sono coinvolte nel cambiamento innescato dalle ITCs e sono inserite nel processo di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, che coinvolge anche il SSN, attivando un’evoluzione che porta ad abbracciare progressivamente la trasformazione digitale.

I risultati rilevati dal punto di vista lavorativo hanno messo in evidenza che la trasformazione digitale sta innovando tutte le professioni, comprese quelle sanitarie, promuovendo un adattamento attivo alle nuove circostanze.

L’epidemia Covid, e la conseguente necessità di raggiungere pazienti e caregiver, ha fatto esplorare ai professionisti sanitari l’ICTs e la telemedicina, portandoli ad una progressiva familiarizzazione con tali strumenti.

Più che un divario di genere nel lavoro si rileva un divario generazionale nell’uso del digitale (tra i nativi digitali e gli immigrati digitali).

Da una prima analisi, il gap sul digitale nell’ambito lavorativo non appare legato al sesso della persona, ma piuttosto all’età, alla vocazione tecnologica della professione o dell’organizzazione di appartenenza.

Approfondendo però le risposte ricevute dalle nostre professioni, è possibile notare che, a fronte dell’uso paritario della tecnologia digitale, emerge un divario tra le specializzazioni settoriali come l’amministratore di sistema.

Sarebbe confermato il Gender Digital Divide quando legato all’uso attivo del digitale (ovvero al sapere lavorare nell’architettura dei software, al sapere alimentare di dati l’IA, alla capacità di creare e/o modificare modi nuovi di interrogare data base, allo sviluppare applicazioni in favore del proprio ambito lavorativo, al padroneggiare i processi di sviluppo, alla conoscenza almeno base della codifica tradizionale ossia tutto ciò che permette di sfruttare le proprie idee e competenze per sviluppare innovazione, individuando un’area di formazione carente che merita attenzione).

Anche quando vi è un uguale accesso alla tecnologia, il divario si ripropone nel valutare l’utilizzo passivo o attivo del digitale; se (in ambito lavorativo) le nostre professioni non rilevano differenze di genere nel digitale riguardo le competenze sanitarie e l’utilizzo delle tecnologie al fine dell’esercizio professionale, la differenza emerge nell’utilizzo attivo/creativo.

Impatto della digitalizzazione sul futuro del lavoro sanitario

«Penso alla Pubblica Amministrazione che possiede competenze di valore ma che deve declinare i principi costituzionali, adeguandosi alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e alle sensibilità dei cittadini, che chiedono partecipazione, trasparenza, semplicità degli adempimenti, coerenza nelle decisioni» (Sergio Mattarella Discorso di insediamento 03 febbraio 2015).

In questo discorso è espressa la missione della digitalizzazione della Pubblica amministrazione e della Sanità digitale.

La pervasività del digitale nella società ha tuttavia fatto sì che lo sviluppo, l’elaborazione e la trasmissione delle informazioni siano diventate le fonti basilari di produttività e potere, dando centralità sociale e chi amministra i flussi informativi con efficacia.

L’epoca attuale offre opportunità di connessione che si traducono in apprendimento, crescita e trasformazione. Il futuro del lavoro, dunque, sarà totalmente rivoluzionato e la tecnologia farà da protagonista, si creeranno nuove professioni e nuove modalità di eseguire le attuali professioni, e alcune di queste si avvieranno all’estinzione come è avvenuto in tutte le rivoluzioni economiche e sociali.

Le figure sanitarie non sono tra le professioni minacciate dall’innovazione digitale, ma sicuramente la tecnologia ne modificherà l’esercizio professionale e alcuni compiti potranno essere assunti dall’intelligenza artificiale, dando la possibilità ai professionisti di concentrarsi sulle tipologie di attività dove l’elemento umano rimane imprescindibile. Tutto ciò potrà concorrere a facilitare l’allineamento della domanda con l’offerta dei professionisti sanitari, attualmente critica.

Data la grande capacità di ottimizzare i processi produttivi dell’IA, esiste il timore che ne possano soffrire invece i livelli manageriali intermedi, ruoli spesso ricoperti dalle nostre professioni. I dirigenti intermedi rappresentano il punto di connessione tra la classe dirigente più alta e il personale. Alcuni dei loro compiti consistono nell’ideazione di strategie di miglioramento della produttività del management di linea, nella valutazione continua della stessa attraverso la gestione dell’analisi del flusso informativo e nel monitoraggio degli indicatori.

Le aziende cominciano già ad avvalersi delle tecnologie più all’avanguardia per verificare e controllare le procedure di lavoro. Questo processo, se innestato anche nei servizi sanitari, potrebbe portare a una riduzione del numero di figure dirigenziali intermedie previste nei diversi settori.

L’utilizzo della tecnologia di controllo porta in sé il rischio di un’erosione dei confini tra controllo direttivo e controllo sul lavoratore, con la possibile deriva verso una sorveglianza di tipo pervasivo. Sempre più necessaria è quindi la trasparenza dei mezzi utilizzati, trasparenza che consenta un consenso non solo informato, ma co-ragionato tra livello manageriale e base produttiva.

L’uso consapevole e la conoscenza sulle applicazioni dell’IA (meccanismi generativi, algoritmi, percorsi di addestramento) assieme alla consapevolezza di potenzialità, difetti e limiti sono competenze che, se acquisite propriamente, non solo contribuiscono alla qualità dei servizi, ma diventano fattore protettivo verso una potenziale obsolescenza delle professioni rendendole più robuste.

Sviluppo delle competenze digitali nei professionisti sanitari

La competenza digitale è definita dalla Commissione europea (2018) come “l’uso sicuro, critico e responsabile delle tecnologie digitali per l’apprendimento, il lavoro e la partecipazione alla società…è una combinazione di conoscenze, abilità e attitudini”.

Le competenze digitali rappresentano il fulcro della transizione digitale a cui tutti devono avere accesso

Le diseguaglianze in termini di competenze digitali partono dalle scelte scolastiche, segnano il percorso accademico e si riflettono nel mondo del lavoro, generando disparità di opportunità.

Ne soffrono soprattutto le donne, sottorappresentate nel settore informatico (informatica, ingegneria informatica, informatica, ICT) a tutti i livelli, dagli studi universitari e post-laurea alla partecipazione e alla leadership nel mondo accademico e industriale.

L’obiettivo del decennio digitale per l’Europa è aumentare il numero di professionisti delle ICTs da 9 milioni nel 2022 a 20 milioni entro il 2030. In questo scenario, le donne, sebbene rappresentino il 51% della popolazione dell’UE, hanno solo 1 laureato in discipline STEM su 3 e 1 specialista in ICTs su 5.

La questione della disparità di genere riguarda la società nella sua interessa perché preclude l’effetto positivo della diversità sulla creatività e la produttività delle organizzazioni, ha conseguenze economiche, sociali e culturali. Quando diversificati ed equilibrati sotto il profilo del genere, i team producono soluzioni digitali più eque e inclusive.

È importante quindi garantire a tutti, indipendentemente dal genere, un’equa possibilità di beneficiare e contribuire all’era digitale.

La mancanza di “cultura digitale” tra cittadini,

Nel rapporto RDD (Report on State of Digital Decade) il numero di laureati in ICT l’Italia presenta una quota di donne dell’1,5%, molto al di sotto della media dell’UE (4,2%), media che migliora di poco anche calcolando tutti gli specialisti ICT (laureati e non laureati).

La mancanza di “cultura digitale” tra cittadini, è un ulteriore ostacolo che rallenta il processo di digitalizzazione, andando a incidere sul percorso di cura, sulla possibilità di monitoraggio di parametri, terapie e prestazioni erogati in telepresenza.

La mancanza di competenze digitali base, che riguarda ancora più della metà dei cittadini italiani, comporta l’incapacità di esercitare la “cittadinanza digitale” ovvero “quell’insieme di diritti/doveri che, grazie al supporto di una serie di strumenti e servizi digitali, mira a semplificare il rapporto tra cittadini, imprese e pubblica amministrazione”.

Inclusione digitale e fragilità digitale della cittadinanza

Partendo da queste basi l’obiettivo del rapporto DDPP della UE (Digital Decade Policy Programme), che prevede entro il 2030 la piena accessibilità online dei servizi pubblici chiave (100% accesso al Fascicolo Sanitario Elettronico e 100% accesso Identità elettronica sicura), pone l’accento sull’urgenza del tema della inclusione digitale e della fragilità digitale della cittadinanza.

Da parte dei professionisti sanitari non è automatico che, mettendo insieme età anagrafica (nativo digitale) e laurea sanitaria abilitante, si ottenga automaticamente un professionista sanitario digitale: non è infatti sufficiente possedere entrambe queste caratteristiche (studio Casà et al., 2021), ma è necessaria una formazione mirata alla sanità digitale, a partire dai corsi di laurea, con il fine di preparare gli studenti alla pratica di sanità digitale post laurea (Beasley et al., 2023).

Attualmente i professionisti già in servizio hanno mediamente conoscenze carenti sulla sanità digitale, sulla telemedicina, basse per i sistemi di intelligenza artificiale e ancora minori per le terapie digitali (Santoro 2023).

Le competenze informatiche di base (alfabetizzazione digitale) e anche quelle di base relative alla sicurezza, nell’ottica che questo tipo di sanità possa diventare realmente accessibile a tutti, sono trasversali e in comune alle competenze target dei cittadini (DigCom 2.2).

Ne deriva che le competenze digitali di base per i professionisti sanitari siano requisiti imprescindibili, ma non sufficienti.

Le quattro aree di competenza digitale per il settore sanitario

Sono state individuate quattro aree (Mainz et al., 2024) di competenza digitale per il settore sanitario: competenze tecniche, competenze metodologiche, competenze sociali, competenze personali.

Un professionista sanitario deve avere competenze anche nell’area delle abilità sociali e comunicative digitali (empatia digitale), e nell’area relativa alle considerazioni etiche nello svolgimento delle prestazioni digitali; gli viene richiesta una formazione approfondita sulla protezione dei dati sensibili dei pazienti e sulle norme vigenti; deve sapere assicurare che i dati prodotti e/o utilizzati siano accurati, completi e aggiornati, per evitare risultati errati o fuorvianti.

L’evoluzione sanitaria verso la digitalizzazione non può prescindere da un’evoluzione delle competenze dei professionisti sanitari e dall’integrazione della digitalizzazione nei percorsi di cura. È essenziale investire su competenze specifiche e di alta qualità e su nuovi percorsi di formazione per evolvere le abilità e le conoscenze dei professionisti sanitari. Ne consegue un adeguamento obbligatorio dei percorsi universitari abilitanti e della formazione in service.

Formazione continua nell’era della sanità digitale

Quanto esposto nel paragrafo precedente, unito alla velocità con cui le tecnologie si modificano, implica un insieme di competenze da apprendere lungo tutto l’arco della vita lavorativa.Le professioni devono sviluppare capacità adattive nei confronti dei nuovi scenari organizzativi in continua evoluzione.

La sanità digitale è un ecosistema risultante dall’intersezione tra l’insieme delle discipline relative alle professioni sanitarie e all’assistenza sanitaria, e le nuove tecnologie (che comprendendo progettazione e impiego di dispositivi indossabili, la mobile health, telesanità, utilizzo di big data, IA, machine learning e tutta la tecnologia d’informazione e di comunicazione).

Il livello di formazione richiesto ai professionisti sanitari è, inoltre, diversificato a seconda dei ruoli: ad es. tra utilizzatori si sistemi AI e sviluppatore o certificatore di sistemi di IA.

La formazione sull’intelligenza artificiale, fondamentale per poterla utilizzare con scienza e consapevolezza, dovrebbe ricomprendere anche nozioni sui processi decisionali umani, sui loro bias ed euristiche, prima ancora di formazione sugli algoritmi, nozioni di filosofia morale, di neuroscienza oltre che di statistica.

L’importanza della formazione digitale dei professionisti sanitari è confermata dal progetto “Strategia Generale di Accrescimento delle Competenze digitali dei professionisti sanitari e socio-sanitari – strumento di programmazione delle competenze digitali utili ai professionisti e di orientamento alle scelte formative individuali – sviluppata nell’ambito del progetto Technical Support Instrument (“TSI Regulation”) – Digital skills to increase quality and resilience of the health system in Italy, finanziato dalla Commissione Europea, Directorate General for Structural Reform Support (DG REFORM)” con obiettivo la realizzazione del Portfolio nazionale delle Competenze digitali. Tale Portfolio del professionista sanitario e sociosanitario rappresenta l’insieme delle conoscenze, delle competenze e delle abilità che ciascun professionista, iscritto alle Federazioni degli Ordini delle Professioni Sanitarie, sia dipendente che libero professionista, deve possedere per poter agire in maniera digitalmente fluente e responsabile la propria professione.

Gli obiettivi formativi dovranno essere coerenti con l’organizzazione all’interno della quale il professionista opera; con il ruolo che in essa riveste; con le realtà sociali e sanitarie con cui si relaziona. Questo al fine di conquistare le competenze digitali attese rispetto al profilo digitale di riferimento definito, oltre che dal ruolo e dal contesto lavorativo, dalla professione sanitaria e dalla fascia generazionale di appartenenza.

Il Portfolio insiste su sei dimensioni:

  • fondamenti di sanità (soft skills, basic skills,advanced skills, communication skills, management skills);
  • applicazioni e tecnologie;
  • piattaforme di sanità digitale;
  • data management (data culture skills, che comprende competenze e conoscenze necessarie a sviluppare la cultura e l’etica del dato; data strategy skills relativa a capacità necessarie a definire come possono essere sfruttati i dati per mettere in atto nuovi modelli assistenziali; data science skills ossia le competenze utili a definire le strategie di analisi e interpretazione dei dati);
  • erogazione servizi sanitari digitali;
  • sicurezza e privacy.

Lo stesso deve essere sempre allineato al progresso della tecnologica e all’evoluzione di norme ed indirizzi in tema di informatica e digitalizzazione, pertanto ha una qualità dinamica, richiede un continuo aggiornamento dell’insieme delle competenze funzionali alla sanità digitale possedute dal professionista.

Intelligenza artificiale: opportunità e sfide per la sanità

Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario si appresta a ridefinire il modo con cui come professionisti sanitari lavoreremo nell’ambito delle nostre aree (prevenzione, tecnica diagnostica e assistenziale, riabilitazione), ma anche il modo con cui si organizzerà l’assistenza sanitaria e sociale tanto che il New England Journal of Medicine dal 2024 ha dato avvio alla pubblicazione di una rivista dedicata agli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale in ambito sanitario.

Si prevede che l’IA possa crescere più rapidamente nell’Healthcare che in qualsiasi altro settore, con un tasso annuo composto dell’85% fino al 2027 (rapporto Bcg 2023, Medtech’s generative AI opportunity). La “verticalizazione dell’innovazione” sta ad indicare proprio la velocità di progressione di questa tecnologia.

Le componenti della società che appaiono meno agitate per i possibili effetti dell’intelligenza artificiale sulla vita e sulla condizione di lavoro sono i più giovani, che dispongono di un livello di istruzione più elevato. Una categoria che ha maggiore competenza e confidenza con questi strumenti tecnologici, e nella quale non emergono differenze di genere nel livello di fiducia nei confronti delle applicazioni future dell’IA; (sondaggio Demos aprile2024).

L’IA Act della UE ne da questa definizione: “L’intelligenza artificiale è una famiglia di tecnologie in rapida evoluzione che contribuisce a un’ampia gamma di benefici economici, ambientali e sociali nell’intero spettro di settori e attività sociali. Migliorando la previsione, ottimizzando le operazioni e l’allocazione delle risorse e personalizzando le soluzioni digitali disponibili per individui e organizzazioni, l’uso dell’intelligenza artificiale può fornire vantaggi competitivi…”.

L’IA rappresenta quindi un sistema automatizzato, con livelli di autonomia variabili, che può presentare delle adattabilità, e che può perseguire obiettivi: può fornire previsioni, contenuti, raccomandazioni e anche prendere decisioni.

Il processo decisionale autonomo si riferisce alla capacità (ad esempio degli assistenti AI) di prendere decisioni senza l’intervento umano. Ciò comporta l’analisi dei dati, l’uso di algoritmi e la considerazione di vari fattori per arrivare a una soluzione/decisione.

Accanto agli enormi vantaggi che può produrre, l’IA può implicare anche dei rischi e causare danni agli interessi pubblici e ai diritti fondamentali dell’individuo (danni materiali o immateriali).

Il documento IA Act europeo (1689/2024) suddivide il rischio nell’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale in quattro diverse categorie:

  • inaccettabile quando i sistemi di intelligenza artificiale rappresentano una chiara minaccia per la sicurezza o i diritti umani;
  • alto quando possono rappresentare una minaccia per la sicurezza umana o i diritti fondamentali in caso di utilizzo non responsabile (nel Global Risks Report 2025, la disinformazione viene indicata come il più grave rischio sistemico per il secondo anno consecutivo);
  • limitato quando il rischio e legato solo a esigenze di trasparenza; e infine
  • sistemi a rischio minimo.

Da ricordare che le discriminazioni e i preconcetti contenuti nel soggetto che progetta vengono riversati nell’algoritmo stesso; l’etica quindi non riguarda solo i progettisti o chi comunica i dati all’intelligenza artificiale, riguarda lo stesso algoritmo, che deve essere controllato affinché l’etica faccia parte del suo ragionamento.

L’IA è uno strumento potente che deve essere regolato da principi non negoziabili di sicurezza, affidabilità, trasparenza, equità e privacy.

Verso un’inclusione digitale equa

Se le donne non partecipano alla creazione degli strumenti digitali, questi sono a rischio di riproporre, se non addirittura acuire, le disuguaglianze esistenti.

Gli algoritmi si basano sui dati disponibili, in particolare i sistemi di apprendimento automatico, e possono perpetuare in modo inconsapevole stereotipi e pregiudizi di genere presenti nella società, anche semplicemente privilegiando le strutture grammaticali con maschile sovraesteso nelle lingue a genere marcato (ad esempio nelle proposte di lavoro, rendendo più difficile per le donne candidarsi per le posizioni).

Vi è evidenza che le donne possono essere altrettanto competenti quanto gli uomini nelle tecnologie quando sono supportate da eque opportunità di apprendimento.

Il divario di genere deriva da influenze ambientali che posso essere temperate o rafforzate dalla propria identità intersezionale e da fattori individuali. Questo vale per le donne, ma anche per altre minoranze di genere, e più in generale per l’inclusione sociale.

Investire in un’educazione digitale inclusiva, ma primariamente in una crescita culturale, rappresenta, pertanto, un passo essenziale per costruire una base solida e aprire opportunità paritarie per tutti.

Impatto della digitalizzazione sulla persona assistita

I vantaggi dell’utilizzo delle nuove tecnologie in ambito sanitario vanno dall’imaging, allo sviluppo di nuovi farmaci e ai dosaggi personalizzati, all’epidemiologia, alla stratificazione del rischio, alla chirurgia assistita, alla medicina personalizzata.

I professionisti sanitari hanno però dei timori per le persone legati alla diseguaglianza di salute (per mancato accesso al digitale, per politiche regionali diverse tra regioni) e per un utilizzo non sicuro (per mancanza di anticorpi verso la disinformazione, per i determinanti commerciali e sociali della salute, per sovradiagnosi e dissolvenza confine tra salute e malattia, per medicalizzazione della salute, per uso in solitario).

Dal punto di vista dei cittadini l’empowerment che ne deriva è sicuramente un vantaggio: l’inclusione della persona assistita nel sistema di cura è un beneficio per gli stessi professionisti sanitari.

Le riserve, tuttavia, partono dalla paura di essere inadeguati nel gestire la loro parte di competenze nel percorso, e si concentrano soprattutto sul tema della privacy e il timore di un depauperamento del rapporto di cura inteso come relazione che produce valore per la persona assistita.

Per mettere in equilibrio vantaggi e timori dell’intelligenza artificiale serve: trasparenza (anche nei confronti le persone assistite che devono sapere se l’AI rientra nel loro processo diagnostico, al fine di rispettare il diritto alla decisione umana, o sapere se si stanno relazionando con un chabot), qualità dei dati, etica (non solo algoretica), informazione, educazione, formazione, mediazione, deontologia (perché sia human-centered).

Il ruolo di mediazione dei professionisti sanitari nei confronti delle persone assistite/cittadini riguardo all’adozione e all’utilizzo degli strumenti digitali, compresa l’IA, è un ruolo cerniera fondamentale durante la transizione digitale.

Evoluzione del ruolo del professionista sanitario nell’era digitale

Basilari per una crescita personale anche nel digitale rimangono:

  • la capacità di pensare in modo critico e risolvere i problemi in modo efficace;
  • l’addestramento a identificare i problemi, ad analizzare le situazioni, a trovare l’approccio più adatto per affrontarli e a escogitare strategie proattive per superarli.

L’acquisizione di sufficienti competenze digitali è un modo per abitare il centro e non la periferia della società delle reti dove il divario digitale, ove esistente, tende a relegare.

Disgregazione dei legami sociali

L’individualismo e la privatizzazione che caratterizzano la società attuale aumentano il rischio di dissoluzione dei legami sociali di cui un effetto è anche l’aggressività nei confronti del personale sanitario. La soluzione è la ricostruzione collettiva del senso di comunità, dei patti sociali e del rispetto delle regole, attraverso l’opera di tutti i professionisti della salute, degli operatori e professionisti laici e della popolazione, affinché engagement, health literacy , digital health literacy e empowerment dei cittadini possano realizzarsi per un patto di salute condiviso e co-costruito.

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