sanità digitale

I due lati oscuri della Sanità digitale: il super-controllo e le diseguaglianze

Nessuno sembra volere esaminare gli aspetti negativi e più inquietanti del digitale in Sanità, che pure ci sono. Come l’aumento della sorveglianza o delle sperequazioni. Un rimedio? Non lasciare tutto in mano ai tecnici ma affidarsi anche agli umanisti (e non vale solo per la sanità)

Pubblicato il 28 Gen 2019

Giuliano Pozza

Chief Information Officer at Università Cattolica del Sacro Cuore

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Intorno alla sanità digitale vige una sorta di neopositivismo acritico che impedisce di considerare, accanto agli innegabili benefici, anche gli sviluppi distopici. Eppure, a bene vedere, ce ne sono, così come ce ne sono in altri ambiti come l’automazione industriale (e la conseguente perdita di posti di lavoro) e il campo militare (robot killer), nei quali il dibattito è, invece, molto acceso.

Per evitare scenari poco felici come quello che descriverò di seguito, non bisogna certo demonizzare. Una possibile soluzione la si trova sempre nella cultura: non lasciare, cioè, lo sviluppo e la diffusione di tecnologie così potenti solo in mani ai tecnici, ma fare affidamento su una cultura tecno-umanistica, come quella degli ingegneri e degli architetti del Rinascimento.

Voglio parlavi, dunque, in questo articolo dei paradossi che incombono sullo sviluppo digitale della Sanità.

Due, soprattutto:

  • L’esclusione di parte della popolazione o di Paesi dai benefici della tecnologia, che avanzerebbe solo per pochi;
  • Il rischio di abuso dei nostri dati fino a scenari distopici della sorveglianza di massa.

E dato che un racconto vale spesso più di molti ragionamenti astratti, parto narrandovi due storie (immaginarie, ma possibili alla luce di tecnologie e iniziative già reali) per arrivare ai citati paradossi.

(Lo prometto, questa volta non parlerò del Signore degli Anelli, o dello Hobbit).

La storia di Helen

Helen è una ragazza di 17 anni con una storia clinica importante. Prima dei 15 anni ha avuto manifestazioni sporadiche, che successivamente sono diventate fastidiose e debilitanti, di una sindrome mai ben diagnosticata. Ha attraversato quella fase nebulosa in cui una malattia sconosciuta viene prima negata, poi attribuita a problemi “psicosomatici”, quindi finalmente accettata come malattia, ma curata con un approccio “trial and error”. Helen ha sperimentato su di sé svariate combinazioni di farmaci, con effetti diversi e spesso disastrosi.

Per uscire da questa situazione di stallo è stato fondamentale l’incontro con il centro NexusCare, il primo ospedale virtuale del suo paese. Un ospedale virtuale è un ospedale in cui non ci sono pazienti ricoverati e l’innovazione organizzativa e tecnologica è spinta al massimo per migliorare l’efficacia della cura e la qualità della vita dei pazienti. Sua zia, che è un medico, le ha detto che questo è stato reso possibile grazie alla riforma sanitaria di dieci anni prima, in base alla quale il sistema sanitario è uscito dalla logica di frammentazione, di iper-specializzazione e di cura del singolo episodio, per prendersi in carico i pazienti in modo continuativo in base alle patologie manifestate, liberando risorse per realizzare una serie di innovazioni impressionanti. Gli specialisti di NexusCare, che sono organizzati per lavorare in team multidisciplinari e per monitorare costantemente i risultati delle loro azioni sui pazienti, hanno prima sottoposto Helen ad una serie di esami, tra cui la sequenziazione del suo genoma.

A partire dalle informazioni così collezionate, ed incrociando questi dati con lo sterminato database di NexusCare grazie ai programmi di Intelligenza Artificiale che Nexus ha sviluppato, il team multidisciplinare che segue Helen è riuscito a diagnosticare esattamente il tipo di sindrome genetica (una malattia autoimmune) che affligge la ragazza e a mettere a punto un farmaco di precisione costruito su misura per lei.

La nuova cura non ha eliminato la malattia, come spesso avviene in questi casi, ma le ha permesso di tornare ad avere una qualità della vita normale. Non si reca quasi mai all’ospedale, perché l’ospedale la segue passo passo e il medico che l’ha in cura ha la visione trasversale del suo percorso clinico: infatti può accedere anche ad eventuali prestazioni erogate da altre strutture grazie ad un’integrazione di sistema con gli altri attori del contesto sanitario. Helen è stata dotata di alcuni sensori indossabili che generano una valanga di dati in tempo reale, che vengono filtrati dall’App Nexus4Me e inviati al sistema di monitoraggio. Nessun medico potrebbe ovviamente seguire questo costante flusso di informazioni, ma dei sofisticati algoritmi di Machine Learning analizzano i pattern ed evidenziano al medico curante di Helen eventuali deviazioni dalla normalità. Le poche volte che la ragazza deve recarsi fisicamente all’ospedale, prenota la visita dall’app Nexus4Me che le inserisce l’appuntamento in agenda, la guida nel traffico fino all’ospedale e dentro l’ospedale fino allo studio del suo medico. Non deve fare nessuna coda in accettazione, perché il flusso di check-in è totalmente automatizzato. Questo succede però non più di due volte l’anno. Per il resto del tempo Helen viene monitorata in modo silente, o interagisce con i medici e anche con altri pazienti che hanno patologie simili alle sue tramite dei social network protetti. Ha scoperto per esempio che in Islanda ci sono due ragazze della sua età con la stessa situazione e sta organizzando per la prossima estate una vacanza insieme a loro attraverso quel bellissimo paese in camper.

Per il resto, la vita di Helen è quella di un’adolescente perfettamente normale, tanto che le capita sempre più spesso di scordarsi di essere malata.

Come funziona il primo ospedale virtuale al mondo (negli Usa)

Storia di Chen e del progetto HaLT

Chen si alza e, come ogni mattina, va in bagno per la sua routine mattutina e per la doccia. I bagni del nuovo palazzo in cui si è trasferito da poco con la moglie Lin sono stati costruiti con una tecnologia chiamata “Active Life”, che si dice verrà diffusa nei prossimi anni in tutto il Paese. Per ora viene concessa solo a quegli individui o quelle coppie che hanno un credito sociale sopra il livello 600. Chen e Lin hanno sempre posto molta attenzione al proprio punteggio sociale: del resto è stato proprio grazie ad un punteggio sociale elevato che si sono conosciuti.

Intelligenza artificiale, le linee guida europee: pro e contro dell’approccio ue

La tecnologia Active Life installata nel bagno dell’appartamento analizza ogni emissione corporea in tempo reale, per trovare tracce di anomalie o alterazioni dello stato di salute. Inoltre, una serie di test più approfonditi (dagli esami del sangue ad uno scanning della retina) vengono eseguiti periodicamente circa una volta al mese in una piccola stazione installata sempre nel bagno. In quei giorni Chen deve svegliarsi 15 minuti prima, per non fare tardi al lavoro. Il bagno è diventato una specie di laboratorio permanente e Chen a volte si sente come una cavia. Quando ne parla, sua moglie gli dice che è uno sciocco: perché criticare uno Stato che si prende cura così attentamente dei suoi cittadini? Per lei che aspetta un bimbo, quegli esami quotidiani e per giunta gratuiti sono una manna! Lui di solito ribatte che il bagno/laboratorio poteva anche andare, ma lo convinceva meno quella storia del progetto HaLT.

Gli pareva volesse dire: “Health and Life Technologies” o qualcosa di simile. In pratica avevano costruito un insieme di strumenti di rilevazione dei dati e un cervellone che analizza i dati prodotti da tutti gli esami a cui erano sottoposti i cittadini, li incrocia con il loro codice genetico, ci mette una serie di altre informazioni sulle abitudini di vita e… prevede la potenziale aspettativa di vita. Insomma prevede la tua morte. Questo era un dato segreto, a nessuno veniva comunicato, ma evidentemente era utilizzato per definire eventuali terapie e interventi. È necessario”, ribadiva sua moglie Lin, “le cure mediche vanno focalizzate, non possiamo sprecare risorse dove non sono utili. Sei un ingrato”.

Forse era proprio così, forse lui era solo un ingrato, come gli dicevano talvolta i suoi genitori quando era piccolo. Già, i suoi genitori. Suo padre era morto che lui era adolescente, prima di HaLT. Aveva semplicemente avuto un infarto. Ma da un certo punto di vista Chen preferiva così. Era stato più difficile con sua madre, pochi mesi fa.

Lui continuava a pensare che non l’avesse uccisa il cancro, ma HaLT; anche se ormai lui non era più un ragazzino, gli era stato difficile accettare che sua madre venisse curata solo con cure palliative. Aveva trovato su internet diverse possibilità di cura, ma non era riuscito ad ottenere l’autorizzazione per nessuna di queste. Un suo amico, che lavorava al Dipartimento della Salute e del Benessere Sociale, gli aveva detto che l’aspettativa di vita stimata per sua madre da HaLT era sotto i cinque anni e in questi casi la prassi era di procedere con terapie a basso costo. Cinque anni per lui però erano molti, perché anche solo un anno di vita in più avrebbe voluto dire permettere a sua madre di vedere il proprio nipotino.

Chen si guardava bene dall’esprimere questi pensieri via social o via telefono, perché questo avrebbe significato una caduta irrimediabile del suo punteggio sociale.

I paradossi della sanità digitale

Le due storie mi servono per ragionare su due paradossi della sanità digitale che a mio parere meritano almeno una riflessione:

Il Paradosso del Paradiso proibito

Provo a spiegarmi meglio. La prima storia dipinge un contesto che, in alcuni Paesi, è in gran parte realtà. Le tecnologie sottostanti la storia (Artificial Intelligence, Big Data, Internet delle Cose, Social…) sono già disponibili, pur se con gradi di maturità diversi. Inoltre, nella trasmissione che ho citato all’inizio e in molte altre simili, non mancano mai gli esperti sottolineano i potenziali risparmi e benefici (enormi) di una digitalizzazione della sanità simile o vicina a quanto raccontato nella prima storia.

Allora la domanda viene spontanea: se questo “paradiso” della sanità pienamente digitale è realizzabile (le tecnologie esistono e possono essere acquistate e implementate) e ha dei benefici così evidenti, perché solo pochi Paesi anche dei paesi industrializzati possono veramente dire di aver trasformato digitalmente la propria sanità? È solo un problema di costi? Certamente no, perché tra i tanti che non riescono ad entrare nel paradiso proibito ci sono molti paesi che in sanità spendono cifre importanti. Evidentemente ci sono delle barriere all’ingresso di diversa natura, più subdole della mera capacità di investimento (che pure è un pre-requisito).

A mio parere le barriere all’ingresso nel Paradiso, almeno per le nazioni che possono permettersi una spesa sanitaria significativa, sono tre (che possono essere colte leggendo tra le righe della prima storia):

  • Barriere di competenze (operative e di leadership): i Paesi che sono entrati nel paradiso hanno negli anni investito molto nelle competenze digitali, sia dei tecnici che della popolazione. Hanno formato leader digitali, grazie ai quali hanno definito strategie chiare e le hanno perseguite con una governance e una capacità di execution eccellenti. Non mi dilungo su questo punto, pur importantissimo, perché ne ho parlato diffusamente nel già citato articolo sulle competenze e sulla leadership. Per sviluppare una cultura digitale e delle competenze adeguate ci vogliono anni, ma questo è anche il capitale più importante, molto più strategico delle tecnologie.
  • Barriere di integrazione: la chiave per un’esperienza paziente come quella raccontata nella prima storia è fare sistema, con regole e standard di interoperabilità condivisi. Veramente pensiamo che i tanto spesso esaltati livelli di servizio del trasporto aereo siano tali per solo merito delle tecnologie? Ora fate un esperimento mentale. Pensate ad un trasporto aereo che utilizzi esattamente le stesse tecnologie di oggi, ma in cui i controllori degli aeroporti e i piloti parlino lingue diverse, in cui non ci sia uno standard per la condivisione dei piani di volo e i portelli delle stive degli aerei siano tutti diversi… Ci vuole poco a immaginare il caos che emergerebbe pur a parità di piattaforme tecnologiche abilitanti. Ecco, nella sanità siamo qui. E stiamo continuando ad investire in tecnologie sempre più sofisticate, siano essi grandi macchinari diagnostici, dispositivi impiantabili, o machine learning a supporto della diagnosi, senza aver risolto a livello nazionale (e spesso nemmeno a livello regionale) il problema dell’integrazione e della standardizzazione.
  • Barriere di modello: esaltiamo dei modelli di valore con il paziente al centro, ma poi creiamo sistemi di incentivi che spingono verso la frammentazione e la massimizzazione delle prestazioni prodotte (o degli output) e non dei risultati (outcome). Il modello sta lentamente cambiando in molte regioni, ma ancora adesso un ospedale è remunerato per la maggior parte dei suoi introiti in base alle prestazioni prodotte. Più faccio visite, accertamenti, interventi e più ricevo rimborsi dalla Regione (almeno fino a che non raggiungo il tetto di budget). Uno dei tanti problemi di questo modello basato sugli output e con un tetto di budget fissato è che imprigiona le risorse: le strutture sanitarie sono premiate per produrre prestazioni ai costi minori possibili, non per migliorare la salute dei cittadini. Alcuni cambiamenti si cominciano a vedere per la gestione dei pazienti cronici, ma il percorso è ancora troppo lento. Solo la migrazione verso modelli basati sul valore (e.g Value Based Healthcare e Triple Aim, di cui parleremo al prossimo congresso di AISIS) può liberare risorse per l’innovazione e il cambiamento del sistema. Un modello in cui gli erogatori di servizi sono premiati non in base ai volumi ma ai risultati prodotti stimola l’innovazione e porta ad un uso strategico delle tecnologie digitali per migliorare le cure verso i pazienti.

Il Paradosso dell’Inferno negato

Il dibattito tra chi sostiene una visione utopica e chi una distopica del futuro e il ruolo che le nuove tecnologie (in particolare l’intelligenza artificiale) avranno nei prossimi anni è acceso e vivace. Quando si parla di automazione industriale e di sostituzione di posti di lavoro con piattaforme robotiche, le voci favorevoli ad una introduzione indiscriminata di nuove tecnologie sono contrastate da un coro altrettanto nutrito di sostenitori di un principio di prudenza (e a volte di paura) di fronte alle nuove tecnologie. Lo stesso vale nel campo militare, con le armi a guida autonoma che sollevano più preoccupazioni che entusiasmo.

Quando si parla della sanità digitale invece, pare che l’atteggiamento dominante sia un neopositivismo acritico. Insomma, la digitalizzazione della sanità è un bene di per sé, tanto che la maggior parte dei modelli di maturità nell’ambito dei sistemi informativi sanitari non si pone il problema del “valore” o degli obiettivi perseguiti dalla digitalizzazione: è scontato che la digital transformation sia sempre positiva. È veramente così? La seconda storia utilizza di fatto le stesse tecnologie della prima (intelligenza artificiale, big data, IoT e social), ma il risultato è decisamente più inquietante.

Se quanto narrato nel secondo racconto vi sembra un futuro remoto, forse dovreste cercare su internet qualche articolo su “Sesame Credit”, il sistema di credito sociale che il governo cinese sta realizzando e che uscirà dalla fase sperimentale nel 2020. Alcune analisi evidenziano come uno dei primi impatti di Sesame Credit sarà quello di fornire corsie preferenziali per i trattamenti sanitari negli ospedali. Per me ricorda tutto un po’ troppo l’episodio Nosedive di Black Mirror.

In generale è come se in sanità, a differenza di altri contesti, si negasse (o si tacesse) la “possibilità distopica”, ossia la possibilità che la digitalizzazione conduca all’inferno descritto nella seconda storia. Insomma, il futuro della sanità sarà certamente digitale, ma il “come” sarà digitale non è indifferente!

Un’ultima considerazione: se pensate che il problema riguardi solo la Cina o qualche altro Paese lontano lontano, sappiate che in molti Paesi occidentali il dibattito sull’uso dei dati genetici, della situazione di disabilità e dell’aspettativa di vita per decidere se effettuare o meno un trapianto è aperto e non privo di risvolti inquietanti. Del resto, chi ha detto che la seconda storia sia ambientata in Cina? Gli artefatti tecnologici (come Active Life e HaLT) hanno nomi anglosassoni…

La questione culturale

Spendo le ultime righe per una riflessione e alcuni spunti di approfondimento. Se da questo articolo qualcuno si aspettava delle soluzioni o delle ricette, temo resterà deluso: non ne ho. Ho solo quest’ idea fissa che l’aspetto culturale sia la chiave di volta dell’architettura del nostro futuro. Non solo perché le tre barriere all’ingresso del paradiso della sanità digitale (barriere di competenze, di integrazione e di modello) sono, in ultima analisi, tutte barriere culturali, ma anche perché il miglior vaccino contro le possibili derive distopiche della sanità digitale rappresentate dalla seconda storia è proprio la cultura.

Una cultura tecno-umanistica, come quella degli ingegneri e degli architetti del Rinascimento, che spinga le persone in primis a farsi le domande giuste. E noto con piacere che anche molti filosofi, antropologi, sociologi e anche teologi si stiano sempre più frequentemente appassionando alle nuove tecnologie e degli impatti che hanno sulle persone, sulla società e sulla nostra visione del mondo.

Alcuni sono così vicini al digitale che vengono assunti nelle aziende della Silicon Valley come manager o addirittura (anche se questa forse è una delle tante mode del momento) come Chief Philosophy Officer. Negli ultimi anni ho incrociato diversi filosofi, sociologi e teologi che si sporcano le mani con la tecnologia: Cosimo Accoto, Research Affiliate del Sociotechnical Systems Research Center del MIT che ha partecipato all’ultimo congresso AISIS. Francesco Varanini, un sociologo che ha scritto un bel libro (Macchine per pensare), dove sostiene che “L’informatica è ‘prosecuzione della filosofia con altri mezzi’”.

Ultimo incontro in ordine di tempo (per me) è quello con un francescano che si occupa di intelligenza artificiale e robotica, Paolo Benanti. Il suo ultimo “Le macchine sapienti” ci aiuta a ragionare sulle implicazioni della trasformazione digitale e sull’importanza delle domande “etiche” sull’uso delle nuove tecnologie. Recentemente Paolo è stato selezionato per far parte del gruppo di lavoro del MISE (Ministero Sviluppo Economico) sull’Intelligenza Artificiale e a ottobre 2019 è stato invitato al Digital Health Summit di AISIS e LifeTech Forum a parlare di etica, intelligenza artificiale e sanità digitale. Che il tema etico stia diventando sempre più caldo quando si parla di intelligenza artificiale è un buon segno, anche se trovare delle posizioni condivise di fronte ai temi etici non sarà affatto semplice. Volete provarlo con mano? Allora vi consiglio di spendere qualche minuto per prendere parte all’esperimento dell’MIT chiamato “Moral Machine”. La cosa interessante è poi analizzare i risultati e verificare la distanza tra le vostre valutazioni morali e quelle degli altri partecipanti: Paesi e continenti diversi danno valutazioni etiche ai dilemmi proposti molto, molto diverse.

Allora, se è vero che non c’è una ricetta, credo si possano però trarre due spunti da quanto discusso:

  • È fondamentale ragionare sugli impatti e sugli sviluppi delle nuove tecnologie (in ogni ambito, anche in sanità) con il contributo di professionisti di formazione sia tecnica che umanistica. Dovremmo cominciare a pensare anche a comitati etici nelle aziende per valutare le tecnologie digitali, che però dovranno essere molto diversi ad esempio dai comitati etici presenti oggi nelle strutture ospedaliere. Di sicuro le competenze da mettere intorno al tavolo non sono le stesse se si ragiona su un trial clinico di un farmaco, oppure sull’introduzione di un’app che rileva in tempo reale i dati dei pazienti nel loro ambiente quotidiano (e l’utilizzo che la struttura intende fare dei dati rilevati).
  • Dato che le nuove tecnologie cambieranno radicalmente la nostra vita nei prossimi 5 anni, dobbiamo iniziare ora un’opera culturale sugli studenti universitari. Sì, sono i millennials e i post-millennials (Generazione Z, qualcuno li chiama) che avranno il compito di gestire domani le tecnologie che sono in sviluppo oggi. Non possiamo permettere che la nuova generazione di manager, di imprenditori, di clinici e di professionisti entri in campo senza competenze e senza domande (e magari con la presunzione di conoscere come governare le nuove tecnologie perché utilizzano uno smartphone dalle scuole elementari).

Insomma, oltre a lavorare in sanità su integrazione, modelli e competenze per diffondere la sanità digitale, serve coltivare il senso critico e la capacità di governare i percorsi di sviluppo e diffusione di tecnologie sempre più potenti. Ma per favore, non lasciamo questa responsabilità solo in mano a chi le tecnologie le costruisce e le mette in opera, che siano informatici, data scientist o ingegneri!

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