Una recente e completa pubblicazione del NIDA (National Institute on Drug Abuse, NIH) recensisce con dovuta precisione il rapporto esistente tra disturbo da uso di sostanze (SUD) e presenza concomitante di un altro disturbo mentale (comorbidità), definendo che circa un soggetto su quattro con disturbo mentale severo presenta anche un disturbo da uso di sostanze, mentre tra coloro che hanno un consumo non terapeutico di analgesici oppiacei (painkillers) il 43% hanno diagnosi o sintomi di altri disturbi mentali, in particolare ansia e depressione.
Uso precoce di sostanze e disturbo mentale
È ormai ben noto che questi disturbi hanno un’insorgenza più frequente in età adolescenziale, periodo in cui la maturazione cerebrale non è ancora completa per quanto riguarda i circuiti che esercitano una modulazione sulle funzioni esecutive come la presa di decisioni e il controllo degli impulsi: un uso precoce di sostanze stupefacenti determina un forte rischio di conseguente sviluppo di disturbo da uso di sostanze, ma è altrettanto vero che la presenza di un disturbo mentale in infanzia o adolescenza comporta un rischio aumentato per il consumo di sostanze e lo sviluppo di un relativo disturbo da uso. Tra i fattori di rischio sono state poste in evidenza la vulnerabilità genetica, l’interazione tra ambiente, comportamento e regolazione dell’espressione genica (epigenetica), e il coinvolgimento di aree cerebrali comuni.
Disturbo da uso di sostanze e disturbo depressivo maggiore
Recenti progressi in ambito neuroscientifico hanno permesso di identificare analogie tra disturbo da uso di sostanze e disturbo depressivo maggiore (MDD) portando un ulteriore apporto a sostegno dell’efficacia delle tecniche di stimolazione cerebrale non invasive (NIBS): si tratta di approcci che derivano dalla electroceutical (ELECTROnic pharmaCEUTICAL), facendo riferimento a quei devices che sostituiscono o integrano la terapia farmacologica per stimolare nervi o tessuti.
I circuiti cerebrali coinvolti nei comportamenti additivi
Un primo contributo descrive quali circuiti cerebrali sono coinvolti a cascata nella genesi dei comportamenti additivi e pone anche una affascinante ipotesi di similitudine tra SUD e MDD, secondo la quale gli stimoli emozionali negativi nei soggetti depressi acquisiscono una salienza incentivante: quindi, come nel SUD, si instaurerebbe una distorsione cognitiva per il coinvolgimento aberrante degli stessi circuiti cerebrali (ipofunzione del Salience Network e attività patologica del Ventomedial Network).
L’efficacia della stimolazione cerebrale
Un gruppo di ricerca statunitense ha appena pubblicato un articolo su uno studio controllato con placebo (sham) che evidenzia l’efficacia della stimolazione cerebrale (theta burst) rispetto allo sham in soggetti cocainomani o alcolisti sottoposti a stimoli (cues) specifici di consumo. La possibilità di valutare l’effetto placebo rispetto al trattamento rappresenta un elemento importantissimo al fine di definire l’efficacia terapeutica di un intervento, e per la stimolazione magnetica questo è stato dimostrato anche nei confronti dell’ideazione suicidaria in MDD resistente ai farmaci.
Sebbene nei confronti del MDD la stimolazione magnetica ha avuto l’approvazione da parte di Food and Drug Administration, l’interesse di applicazione sui disturbi da uso di sostanze, in particolare cocaina, presenta ancora delle lacune: una recente review conferma che, allo stato attuale, non esistono ancora evidenze sufficientemente robuste a dimostrazione dell’efficacia. Oltre alla difficoltà di mascherare il trattamento verso il placebo, entrano in gioco una lunga serie di altre variabili (geometria del coil, posizionamento e orientamento, frequenza e durata della stimolazione, numero sedute, ecc.) che contribuiscono a rendere estremamente eterogenei tra loro i protocolli applicati, nonostante i risultati depongano per una certa efficacia sul craving e sul consumo di cocaina.
Gli ostacoli al raggiungimento di un buon risultato clinico
Nei soggetti con comorbidità (SUD e MDD) la bassa aderenza terapeutica e l’alto tasso di dropout verso i trattamenti farmacologici, ove disponibili e presenti, e la frequenza di recidiva rappresentano un grosso ostacolo per il raggiungimento di un buon risultato clinico. Per contro la stimolazione magnetica transcranica ha dimostrato un buon grado di efficacia anche nel breve periodo e scarsi effetti collaterali, ma, secondo gli attuali assetti che ne regolamentano il suo impiego, è indicata solo in caso MDD resistente ai farmaci. In considerazione dell’impatto sociale della patologia e dell’esordio in età precoce cui spesso si accompagna un SUD, potrebbe avere un senso introdurre la TMS nelle fasi iniziali di sviluppo del/i disturbo/i?
I vantaggi della TMS nelle fasi iniziali del disturbo
I potenziali vantaggi sarebbero molteplici, iniziando da un rimodellamento dei network cerebrali che stanno andando “in avaria”, cioè anticipandone l’aggravamento funzionale e clinico, e avere a disposizione un substrato ancora fertilesu cui agire anche con trattamenti farmacologici e psicoterapici; in pratica la TMS (Stimolazione Magnetica Transcranica), interrompendo l’aberrazione e la distorsione cognitiva presente in soggetti affetti da SUD e/o MDD, consentirebbe più facilmente l’introduzione di altre risorse terapeutiche che si troverebbero a interagire con un sistema cerebrale meno compromesso e più reattivo in termini di neuroplasticità.
In considerazione dell’effetto fisico indotto dall’esterno da parte delle tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva, questi approcci possono essere definiti come neuromodulatori “passivi”, nel senso che sono erogati su soggetti che ricevono gli stimoli elettromagnetici anche senza avere altri interventi a sostegno del trattamento. Ma la stimolazione magnetica non è di per sé la panacea.
La terapia cognitivo-comportamentale
Il coinvolgimento diretto del soggetto attraverso l’introduzione di altre modalità di intervento “attive” è indispensabile per ottenete un miglioramento dell’outcome. Tra le risorse disponibili e di cui è stata provata l’efficacia la prima è la terapia cognitivo-comportamentale che attualmente è anche disponibile e fruibile su supporti tecnologici sotto forma di app o attraverso il web: di questo ne discute un interessante articolo dal titolo “The Death of Psychotherapy as we know it. A manifesto for augmented mental health”, all’interno del quale è verosimile introdurre l’applicazione di altre soluzioni utili come il neurofeedback, la realtà virtuale e i serious games.
I vantaggi degli strumenti online e mobili
Favorire l’accesso a risorse utilizzabili on line o con supporto mobile facilita il contatto con quella parte di sommerso affetto da SUD o MDD che ha difficoltà a rivolgersi personalmente e fisicamente ai servizi di diagnosi e cura: queste modalità di erogazione dei trattamenti non sostituisce la pratica clinica corrente, ma ne integra la disponibilità mettendo i soggetti che sono intenzionati a servirsene in una comfort zone capace di rispettare la riservatezza del singolo e riducendo le resistenze nei confronti dello stigma sociale associato.
La costruzione di un modello all’interno del quale fare convergere tutte le soluzioni disponibili, tecnologiche e non, aumenterebbe la frazione di soggetti patologici in trattamento producendo un effetto favorevole in termini di welfare cognitivo e di costo efficacia degli interventi.