trasformazione digitale

La nuova Sanità che ci serve nella Fase 2 (e 3): territoriale e tecnologica

La strategia di contenimento basata sul lock down è una one shot strategy che è impossibile riproporre senza distruggere il tessuto economico. È, quindi, necessario arricchire la cassetta degli strumenti del contrasto all’epidemia con nuovi utensili, organizzativi e tecnologici. Intelligenza artificiale in primis

Pubblicato il 05 Mag 2020

Domenico Marino

Università Degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria

covid19_palline

I dati epidemiologici segnalano ormai un marcato rallentamento della pandemia da Covid 19. È, tuttavia, chiaro a tutti che la strada per tornare alla normalità sarà ancora lunga e difficile perché il virus, ancorché contenuto, continua a essere presente e a circolare e in assenza di farmici specifici, di un vaccino e ben lontani dall’immunità di gregge, il rischio di nuova esplosione di focolai è sempre presente e reale.

Così come è chiaro a tutti che la strategia di contenimento basata sul lock down è una one shot strategy che è impossibile riproporre senza distruggere il tessuto economico.

È, quindi, necessario arricchire la cassetta degli strumenti del contrasto all’epidemia con nuovi utensili.

Questi utensili possono essere sia di natura tecnologica – intelligenza artificiale in primis – sia di natura organizzativa.

La prima lezione che i numeri e le considerazioni ci danno è, infatti, che una corretta strategia di gestione dell’epidemia, qualora dovesse permanere o ripresentarsi è quella di fare tantissimi tamponi, di territorializzare la gestione dei contagi e di proteggere le situazioni di fragilità presenti sul territorio. Ossia sviluppare una vera sanità di comunità molto radicata sul territorio. E, poi, alla risposta organizzativa va affiancata una risposta tecnologica forte, purché inserita nel contesto di un nuovo meccanismo di collaborazione fra istituzioni e cittadini.

L’ordine delle cose deve essere necessariamente questo e per capire perché, partiamo da quello che è successo in Lombardia.

Il “caso” Lombardia e la (mancata) risposta organizzativa

Il caso Lombardia è ormai sotto gli occhi di tutti e riconoscere gli errori è il primo passo per evitare di commetterli di nuovo. Nancy Binkin, Federica Michieletto, Stefania Salmaso, Francesca Russo in un articolo apparso su scienzainrete individuano in maniera chiara gli errori dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria in Lombardia: “l’organizzazione del sistema sanitario e la solidità dell’infrastruttura sanitaria pubblica sembrano aver avuto un ruolo importante nelle differenze di esiti finora osservate tra Lombardia e Veneto. Come affermato dai medici di uno degli ospedali più colpiti in Lombardia: “i sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto di assistenza centrata sul paziente, ma un’epidemia richiede un cambiamento di prospettiva verso un concetto di assistenza centrata sulla comunità”.

Il Covid-19 ha, pertanto, messo a nudo tutta la debolezza di un sistema che dietro un apparente aura di efficienza, nascondeva i limiti di un modello organizzativo che non aveva il paziente come riferimento finale. In un passato recente, l’on Giorgetti, esponente di spicco della Lega Nord si vantava di aver riformato il sistema sanitario lombardo eliminando l’inutile orpello costituito dai medici di base. Si era costruito un sistema ospedalicentrico misto pubblico privato, che inseguiva i DRG più sostanziosi e che drenava risorse, attraverso la mobilità sanitaria, ad altre regioni.

La sanità territoriale veniva penalizzata e ridotta al lumicino, lasciando ai pronto soccorso degli ospedali il compito di diventare il trait d’union fra il paziente e il sistema sanitario. È questo se volete il peccato originale a cui si sono poi aggiunti gli altri errori nella gestione. La pandemia è stata la Caporetto di questo sistema, perché una gestione corretta dell’epidemia impone di utilizzare prevalentemente la sanità territoriale, per tracciare i contagi e per tenere il più possibile lontano dagli ospedali i pazienti contagiosi. L’esatto contrario di quanto successo in Lombardia, dove gli ospedali, in assenza di una sanità territoriali, sono diventati i primi propagatori del contagio. L’incapacità di individuare le catene di contagio sul territorio ha portato fuori controllo l’epidemia e ha determinato una pressione ancora maggiore straordinaria sulle strutture sanitarie. La chiusura e riapertura del Pronto soccorso dell’ospedale di Alzano e la mancata dichiarazione della zona Rossa in provincia di Bergamo sono stati due detonatori dell’epidemia. Il tentativo successivo di liberare gli ospedali dirottando i malati meno gravi alle RSA ha chiuso il cerchio degli errori, perché il covid oltre che dagli ospedali doveva essere tenuto lontano da quelle potenziali bombe biologiche costituite dalle RSA, dove un numero estremamente grande di persone fragili si torva a convivere in condizioni in cui è impossibile rispettare il distanziamento sociale. E ogni casa di riposo conquistata dal virus si trasformava in uno straordinario strumento di propagazione del contagio non solo all’interno, ma anche all’esterno.

E mentre in altre regioni ogni caso di contagio in strutture simili veniva gestito con straordinaria energia, svuotando le strutture, separando i positivi dai negativi e arrivando anche nel caso della Calabria a decretare la zona rossa per l’intero comune che ospitava le case di riposo, in Lombardia si continuava a far funzionare le RSA come se nulla fosse successo. Senza tracciamento e senza il filtro della sanità territoriale il sistema e poi collassato e non ha di fatto curato i contagiati se non quando arrivavano in fin di vita in ospedale. Non venivano fatti i tamponi, ancora oggi la Lombardia ha un numero di tamponi per contagiato pari a 4,2 (ma è stato inferiore a tre fino a metà aprile), mentre la Calabria ha un numero di tamponi per contagiato pari 25,6 e il Veneto pari a 16,6. E questo differenziale nei tamponi fatto è correlato in maniera inversa alla letalità (7,05 in Vento, 7,16 in Calabria, 18,44 in Lombardia (dati aggiornati al 24 aprile 2020) e la Calabria avrà verosimilmente entro fine aprile la situazione di zero contagi.

La riposta tecnologica: il ruolo dell’intelligenza artificiale

Ma alla risposta organizzativa occorre associare una risposta tecnologica forte per la gestione dell’epidemia e questa seconda risposta non può che essere basata sulle potenzialità dell’intelligenza artificiale. Prima della pandemia, l’intelligenza artificiale sanitaria era già un’area di ricerca in forte espansione.

Il deep learning, in particolare, ha dimostrato risultati impressionanti nella diagnostica per immagini in campo oncologico per identificare diverse tipologie di neoplasie in campo oftalmico per identificare il glaucoma almeno con la stessa precisione degli specialisti umani, in capo neurologico per identificare i segni precoci di malattie neurodegenerative, oltre che per prevedere il rischio di malattie croniche come il diabete e il rischio di patologie all’apparato cardiocircolatorio. Gli studi hanno anche dimostrato il potenziale dell’utilizzo degli algoritmi di intelligenza artificiale per monitorare le persone anziane nelle loro case e i pazienti nelle unità di terapia intensiva, cosa utilissima nella gestione dei contagi.

La pandemia, in altre parole, deve diventare una sorta di gateway per l’adozione dell’IA nell’assistenza sanitaria, portando ovviamente sia opportunità che rischi. Da un lato, sta spingendo i medici e gli ospedali ad accelerare le nuove tecnologie promettenti.

Il triage dei pazienti mediante radiografia del torace, sebbene meno accurata di una diagnostica a catena della polimerasi, è un sistema molto interessante ed efficace perché impiega solo dieci minuti per scansionare un paziente e calcolare una probabilità di infezione e soprattutto nel caso di un picco epidemico può essere uno strumento di screening estremamente importante ed efficace.

Una delle più grandi organizzazioni sanitarie israeliane, il Maccabi Healthcare Services, sta usando l’intelligenza artificiale per aiutare a identificare quale dei 2,4 milioni di persone che ricopre sono maggiormente a rischio di gravi complicazioni da covid-19. Il software ha già segnalato che il 2% dei suoi membri, pari a circa 40.000 persone ha un livello di rischio più elevato di quello del resto della popolazione. Una volta identificati, gli individui vengono messi su una corsia preferenziale per i test.

Questi sviluppi per un verso stanno il sistema sanitario ad accelerare l’introduzione di nuove tecnologie promettenti. Dall’altro, questo processo accelerato in maniera non fisiologica potrebbe comportare lo sviluppo di strumenti non controllati che bypassano i processi regolatori, mettendo in questo modo potenzialmente in pericolo i pazienti.

L’app Immuni

Lo sviluppo di app che raccolgono i big data della popolazione e gli algoritmi che sono in grado di prevedere la diffusione dei focolai epidemici sono altri strumenti estremamente utili. Un’app, Immuni, è stata scelta per l’adozione, ma in questa fase convulsa non rimangono poco chiari punti essenziali relativi alle modalità di utilizzo dei dati, alla loro gestione e alla loro tutela. Se è pur vero che ogni attività sui social o sullo smartphone genera una gran mole di dati personali di cui non ci preoccupiamo, è però anche vero che ancora non c’è stata sufficiente trasparenza sull’app Immuni che dovrebbe essere utilizzata per tracciare i contatti. Questo gap comunicativo deve essere colmato in breve, perché l’app di tracciamento è uno strumento di sanità di comunità, ma come tutti gli strumenti comunitari deve essere capito e condiviso, anche perché come tutti gli strumenti comunitari funziona se viene adottato dalle comunità e se viene utilizzato dalla quasi totalità della popolazione.

Se verrà percepito come una sorta di “Grande Fratello” verrà sicuramente snobbato e fallirà miseramente. Se, invece, correttamente comunicata questa strategia sarà efficace contro l’epidemia e potrà essere anche la base per una sinergica collaborazione fra strutture dello stato e popolazione e diventare prodromica alla realizzazione di un nuovo meccanismo di collaborazione fra istituzioni e cittadini che potrebbe essere applicabile anche ad altre situazioni di rischio o di gestione di disastri.

Questa epidemia ci sta insegnando che solo reagendo in maniera comunitaria possiamo sconfiggere le nuove minacce che si affacciano all’orizzonte dell’umanità e questa lezione può essere molto utile non solo per difenderci dai pericoli, ma anche per riscoprire una nuova dimensione della convivenza civile.

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