Dopo la prima fase della pandemia, il lockdown e quella che sembrava l’uscita dall’emergenza sanitaria innescata dal covid, non c’è stata nessuna revisione critica su ciò che ha funzionato e cosa no, su cosa sviluppare o migliorare. Si è immaginato che il peggio fosse ormai passato e che le misure adottate nella prima fase fossero sufficienti anche per una seconda ondata del virus.
La cronica mancanza di autocritica e di pianificazione del Servizio Sanitario, sia a livello centrale, sia a livello regionale, ha impedito qualsiasi tentativo di miglioramento e di rafforzamento delle misure per il Covid-19.
Abbiamo perso del tempo prezioso e dobbiamo, nuovamente, lavorare in emergenza per combattere una guerra che sarà particolarmente difficile.
Se vogliamo davvero vincere questa guerra è quindi indispensabile adoperare delle “armi digitali” la cui progettazione deve comprendere competenze multidisciplinari. Non si può affrontare una pandemia di questa portata senza raccogliere e impiegare big data, intelligenza artificiale, tecnologie CRM, strumenti di comunicazione multicanale.
Cerchiamo allora di inquadrare i problemi a monte e di capire cosa si poteva cambiare, partendo dal presupposto che la lotta al Covid-19 ha soltanto reso ancor più evidenti limiti organizzativi e culturali del Servizio Sanitario e delle principali istituzioni della salute preesistenti alla pandemia.
Il fallimento del modello ospedale-centrico e della sanità “analogica”
Il modello sanitario che è stato costruito negli anni, ospedale-centrico, non è adeguato né strutturato per gestire una pandemia che si sviluppa sul territorio dove scontiamo la mancanza di reti assistenziali in grado di fornire aiuto e supporto ai pazienti.
La forma organizzativa della medicina di famiglia, composta perlopiù da singoli professionisti, non ha né gli strumenti, né le risorse necessarie per esercitare un ruolo che vada al di là della funzione di “gate-keeping” verso gli ospedali. Malgrado la buona volontà e l’impegno che buona parte dei MMG e PLS stanno profondendo nella gestione della pandemia, il crescente flusso di persone verso i pronto soccorso è la dimostrazione che la risposta che le cure primarie sono in grado di offrire non è sufficiente per soddisfare o almeno calmierare la domanda di assistenza e cura dei pazienti.
Il numero elevato di casi, sospetti o acclamati, rende evidente, in modo drammatico, tutti i limiti di una sanità “analogica” che si basa su modelli organizzativi del Novecento: lo studio medico, con poche attrezzature; il medico che visita i pazienti in studio e, molto più raramente, al suo domicilio; un supporto informativo che non ha la valenza legale di una “cartella clinica” e che è completamente isolato dai sistemi informativi delle ASL e delle aziende ospedaliere.
La necessità, nella prima fase, di far fronte all’emergenza Covid è stata affrontata concentrando tutte le risorse sulla gestione medica dei pazienti, lasciando ai dipartimenti di prevenzione il compito di contenere e monitorare l’andamento della pandemia.
La mancanza di multidisciplinarietà nel Comitato Tecnico Scientifico
Ma chi ha gestito e gestisce l’aspetto organizzativo? Con quali competenze? Con quali strumenti e, soprattutto, con quali informazioni?
È stato costituito il Comitato Tecnico Scientifico Nazionale che è composto da professori universitari, medici e ricercatori di elevato profilo professionale di diverse specialità della medicina. Nel CTS non c’è però nessun esperto di ingegneria dei processi né, tantomeno, di sanità digitale, big data e AI.
La mancanza di multidisciplinarietà e di competenze non mediche ha fatto sì che nell’organizzazione del sistema sanitario nazionale e regionale si sia seguito un approccio tradizionale – analogico con evidenti limiti e problemi.
La gestione dei casi è stata ed è tuttora, nella maggior parte dei dipartimenti di prevenzione, gestita con Excel e le email, con errori e problemi di varia natura (caselle di posta piene, copia e incolla di caselle sbagliate e così via).
Il processo di diagnostica è stato ed è gestito in modo ibrido con email, richieste elettroniche, sistemi di laboratorio, sistemi di comunicazione, attraverso un patchwork di soluzioni e strumenti tecnologici assai eterogeneo.
La sorveglianza domiciliare dei casi sospetti e dei positivi è stata concepita attraverso telefonate vocali, due volte al giorno, da parte di medici per raccogliere alcune informazioni sui sintomi e monitorare le condizioni cliniche dei pazienti.
La raccolta e la trasmissione dei dati dalle regioni al Ministero della Salute, all’Istituto Superiore di Sanità, alle Prefetture e ai Comuni avvengono attraverso flussi informativi che hanno l’obiettivo di “contare” i casi e poterli differenziare per territorio. Non ci sono, ad esempio, indicazioni su dove è avvenuto il contagio (ad. esempio luogo di lavoro, trasporti, etc..) e in che contesto (spostamento casa – lavoro, tempo libero, etc..).
Vengono prese decisioni su cosa chiudere o limitare senza alcuna evidenza, ma soltanto con supposizioni che prescindono completamente da ciò che realmente sta accadendo nel Paese.
Dopo il lockdown, nessuna autocritica
L’attenzione si è quindi concentrata soprattutto sugli strumenti che potessero permettere alle aziende sanitarie di recuperare il pregresso, visite ed esami diagnostici, mantenendo quando possibile il distanziamento sociale.
Si spiega così la forte spinta sulle televisite la cui introduzione è stata salutata da molti con enfasi e soddisfazione, sopravvalutando a mio avviso la reale portata di questa piccola rivoluzione medica.
Molto meno si è fatto nel campo dell’assistenza domiciliare dove, a parte qualche gara o progetto per attivare servizi di telemonitoraggio remoto, non si è affrontato il tema della tele sorveglianza attiva in modo compiuto, partendo dagli aspetti clinici e organizzativi e dal reperimento delle risorse umane.
Per quanto riguarda la diagnostica si sono provati e introdotti nuovi test senza però curare la digitalizzazione dell’intero processo e la sua integrazione con la presa in carico dei sospetti e dei pazienti Covid-19.
La carenza più importante riguarda però i sistemi di sorveglianza epidemiologica. Per aiutare il lavoro di contact tracing si è pensato di sviluppare un’app – Immuni – per tracciare i contatti e la possibile esposizione al virus. Come spesso accade quando non c’è maturità e manca una visione chiara sulle strategie digitali, si è dato vita a un progetto condotto in modo tecnocratico, fine a sé stesso, immaginando che un’app potesse, da sola, risolvere tutte le esigenze. Piuttosto che concepire e sviluppare un sistema nazionale di sorveglianza epidemiologica in grado di trattare i casi, definire le relazioni tra questi, gestire l’iter diagnostico e il percorso del paziente, si è preferito affrontare una piccola parte del problema, neanche la più importante.
Abbiamo perso del tempo prezioso e dobbiamo, nuovamente, lavorare in emergenza per combattere una guerra che sarà particolarmente difficile.
Se vogliamo davvero vincere questa guerra è indispensabile adoperare delle “armi digitali” la cui progettazione deve comprendere competenze multidisciplinari. Non si può affrontare una pandemia di questa portata senza raccogliere e impiegare big-data, intelligenza artificiale, tecnologie CRM, strumenti di comunicazione multicanale.
Per conoscere e approfondire le soluzioni e gli strumenti che possono essere adoperati nella lotta al Covid-19, vi invito a consultare la sezione Coronavirus del mio blog.