La questione dei cosiddetti passaporti vaccinali o Green Pass non presenta unicamente connotazioni giuridiche, ma anche etiche ed economiche, ed è probabilmente questa molteplicità di implicazioni la ragione principale dell’incertezza del dibattito e delle differenti sensibilità fin qui emerse.
Passaporto vaccinale, il perimetro di liceità
Sul tema dei passaporti vaccinali ha già espresso alcune puntuali riflessioni Guido Scorza, sempre su Agendadigitale.eu, non appena l’avvio della campagna di immunizzazione di massa ha iniziato ad accendere il dibattito pubblico.
L’autorevole componente del Garante ha opportunamente disegnato un perimetro di liceità oltre il quale sarebbe improvvido che si spingessero le iniziative volte ad utilizzare, non solo per fini strettamente sanitari, le informazioni “vaccinato sì/vaccinato no”. Si tratta di limitazioni che potrebbero coinvolgere l’accesso a determinati servizi, il sistema dei trasporti, gli spostamenti (non solo transfrontalieri), ed è ancora presto per capire cos’altro.
Il contributo di Guido Scorza costituisce una delimitazione di confini – tra lecito e illecito – tempestiva e quanto mai necessaria, in un contesto ancora privo di sostanziali certezze, laddove le istituzioni sovranazionali ancora esprimono pareri non unanimi e, in alcuni casi, si sono perfino apertamente contraddette.
È sufficiente, a tal proposito, porre attenzione all’ Organizzazione Mondiale della Sanità e a come essa sia riuscita a diffondere due pareri dissonanti perfino in un unico contesto, durante il confronto con la stampa del 4 dicembre 2020 a Copenaghen.
Da un lato l’Emergency Officer per l’Europa – Catherine Smallwood – si è mostrata scettica (in linea con l’opinione espressa dalla stessa organizzazione nel Scientific Brief del 24 aprile 2020) e ha sottolineato l’importanza di una continua implementazione, alla luce dei dati, delle linee guida nazionali in materia di spostamenti: «We do not recommend immunity passports nor do we recommend testing as a means to prevent transmission across borders […] What we do recommend is that countries look at the data on transmission both within their countries and beyond their borders and adjust their travel guidance to people accordingly».
D’altro lato, la collega Siddhartha Sankar Datta, Programme Manager Vaccine-preventable Diseases and Immunization dell’OMS si è espressa in tutt’altri termini, ammettendo come sia in corso un’attenta analisi sul miglior utilizzo delle tecnologie nel contrasto al Covid-19 e sulle possibili modalità di collaborazione con gli stati per dare vita ad un “e-vaccination certificate”.
Il 12 gennaio la proposta di un passaporto vaccinale europeo è stata avanzata direttamente dal ministro greco Kyriakos Mitsotakis, mentre il 17 gennaio, il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel ha chiarito come una decisione sul tema sarebbe ancora prematura e quando gli è stato chiesto se, in futuro, sarà possibile viaggiare in Europa solo se vaccinati, ha risposto di “non escludere nulla”. “Ma so anche che questo dibattito è una questione sensibile in molti paesi europei” ha aggiunto.
Nel frattempo, anche in Italia è partita la sperimentazione di Aokpass, l’applicazione sviluppata dalla Camera di commercio internazionale (ICC), che memorizza il risultato negativo di un Covid-test sullo smartphone attraverso un QR code. Il suo utilizzo è attualmente previsto nella tratta Roma-New York, presso l’aeroporto di Fiumicino. Al momento dell’imbarco gli assistenti di volo scannerizzano il codice e verificano le credenziali sanitarie dei passeggeri, che così, atterrati a New York, hanno il via libera per muoversi senza doversi sottoporre a una quarantena preventiva.
Liste vaccinati e discriminazioni
Dal punto di vista giuridico c’è davvero poco da aggiungere, come già accennato, alle valutazioni espresse dall’Authority: se il tema dei passaporti vaccinali è da inquadrarsi unicamente nell’alveo dalla data protection, i rischi da considerare sono esattamente quelli lucidamente evidenziati da Guido Scorza.
Semmai permane un solo dubbio, almeno per chi scrive, che concerne la configurabilità di un “trattamento”, per così dire “in negativo”.
Cerco di spiegarmi.
Non è immaginabile che la questione vaccini venga approcciata attraverso un modello censuario, cioè con la creazione di un database che tracci le scelte di ogni individuo: tizio vaccinato, caio no.
I non vaccinati, immagino, non troverebbero il proprio nome in alcun elenco, poiché le “liste” di cui si discute conterrebbero unicamente i dati di chi si fosse sottoposto al trattamento sanitario. I nominativi di coloro che non vi avessero provveduto sarebbero intuibili solo per differenza.
Le eventuali conseguenze discriminatorie derivanti dalla non vaccinazione, in sostanza, dipenderebbero da un “non dato”, vale a dire dall’assenza di un nominativo dall’elenco.
Si tratterebbe di una situazione piuttosto originale.
I dati dei vaccinati verrebbero raccolti ed utilizzati per la formazione del loro “lasciapassare”, ma è immaginabile che nessuno, dopo essersi sottoposto al trattamento, rifiuterebbe i benefici del proprio status di (presunto) immune anche al di fuori dell’ambito strettamente sanitario.
I problemi riguarderebbero quindi i non vaccinati, cioè tutti coloro che risultassero privi di idonea certificazione. In quel caso, tuttavia, i dati degli interessati non verrebbero raccolti, conservati, comunicati né diffusi in alcun modo. Non ce ne sarebbe bisogno.
La discriminazione deriverebbe quindi da un “non trattamento”, con buona pace delle logiche della data protection, così come enucleate dal GDPR, in primis con riferimento alle basi giuridiche.
Il consenso degli interessati è previsto come condizione per poter trattare i loro dati, non per astenersi dal farlo.
La pretesa di quella parte di opinione pubblica che si oppone alla formazione di un passaporto vaccinale si sostanzia nella richiesta di incidere sul trattamento di dati altrui.
Essendo tizio contrario a questa forma di classificazione, anche caio dovrebbe astenersi dall’aderirvi. In caso contrario, dalla lista dei “buoni” sarebbe molto facile intuire quella dei “cattivi”. Ma il mancato consenso dei contrari potrebbe condizionare il trattamento – invece presumibilmente autorizzato – dei favorevoli?
In definitiva, la volontà di coloro che non desiderassero la formazione di un “club”, potrebbe ostacolarne la nascita, anche a scapito di chi vorrebbe farne parte?
Norme sulla privacy e interessi collettivi
Sorge da queste considerazioni qualche dubbio sul fatto che il tema si possa dirimere unicamente con gli strumenti messi a disposizione dalle normative in materia di privacy, costituite, per loro natura, al fine salvaguardare i diritti di singoli individui, ma probabilmente non del tutto idonee a farsi carico degli interessi, più ampi, della collettività.
Allora è forse limitativo approcciare il tema unicamente attraverso le logiche della data protection. Il punto potrebbe essere (anche) un altro.
La costituzione di una “lista” degli individui che si fossero sottoposti al trattamento sanitario e ne avessero autorizzato la formazione, probabilmente lascerebbe poco spazio a dubbi di legittimità, anche in assenza di specifiche fonti normative che la prevedessero. Non è però detto che di quella “lista” potrebbe farsi qualunque tipo di uso.
La “lista”, in sostanza, diventa “passaporto” se si decide di attribuirle una specifica funzione.
Prendiamo in considerazione il tema del giorno, vale a dire il trasporto aereo e l’idea che molte compagnie stanno accarezzando di consentire ai soli vaccinati di accedere ai propri servizi.
La lista che diventa passaporto
Siamo nell’ambito dell’iniziativa privata, è vero, ma le compagnie aeree operano in forza di specifiche licenze soggette ai requisiti imposti dal Codice della navigazione e ai Regolamenti comunitari di settore e, a determinate condizioni, svolgono un servizio di pubblico interesse.
Basti pensare che lo stesso codice della navigazione giustifica perfino la sospensione della licenza proprio al ricorrere di “gravi motivi di pubblico interesse” (art. 785).
Tema complesso che meriterebbe, in altro contesto, un ben più ampio approfondimento.
Ciò che preme qui evidenziare, tuttavia, è solo che anche l’autonomia privata, in determinati ambiti, può subire serie limitazioni e che il potere pubblico, in taluni casi, ha il potere (e il dovere) di dettare la linea.
Per recarsi in Arabia Saudita, solo per fare un esempio, è obbligatorio sottoporsi al vaccino contro la malattia meningococca, ma non lo stabiliscono i regolamenti interni delle compagnie aeree, bensì il Regolamento Sanitario Internazionale.
La fruibilità del trasporto aereo non è questione che possa sciogliersi nell’indifferenza del potere pubblico, filtrata unicamente attraverso le logiche d’impresa.
Probabilmente non spetterà alle istituzioni decidere se formare o meno il “club” dei vaccinati, ma esse, e solo esse, dovranno decidere quali privilegi attribuire ai suoi membri.
Mobilità transfrontaliera e vaccini
Un’ultima riflessione, di carattere più generale.
La mobilità transfrontaliera non è affatto nuova al tema vaccini. Ed è proprio valutando le disposizioni già vigenti in tema di vaccini e trasporti che non può non cogliersi qualche distonia nell’attuale dibattito.
Esistono vaccinazioni, come nel caso poc’anzi citato, fortemente raccomandate se non obbligatorie, propedeutiche al raggiungimento di tantissimi paesi esteri.
La logica di quelle vaccinazioni, senza che si registri alcuna protesta in proposito, risiede nella necessità di tutelare la salute del singolo viaggiatore che, in caso di mancato trattamento, esporrebbe sé stesso al rischio di infezione.
Nel caso di Covid-19, la vaccinazione sarebbe imposta al singolo viaggiatore non per tutelare sé stesso, ma per evitare che questi trascini con sé un potenziale focolaio di contagio.
Non è affatto semplice digerire la posizione di chi è disposto ad accettare un trattamento sanitario, seppure imposto, per la tutela della propria integrità fisica, ma ne rifiuta l’obbligatorietà se l’interesse in questione è della collettività e non gli appartiene direttamente.