La vicenda della signora di Bari, “prigioniera” dell’app dopo aver ricevuto l’alert sino all’esito del tampone – che si è rivelato negativo – è probabilmente solo la punta dell’iceberg dei problemi organizzativi a cui sta andando incontro Immuni.
Perché l’app può portare a disagi per l’utente
Il sistema non può funzionare per diversi motivi.
Il primo è di natura normativa.
L’App per funzionare si deve (o dovrebbe) integrare con i sistemi normativi ed organizzativi di altre amministrazioni, oltre a quella che ha gestito il processo di creazione dell’app, ovvero il ministero dell’Innovazione.
Oggi questo non avviene.
Il difetto di coordinamento tra la fase dell’alert, il sistema sanitario e il meccanismo di caricamento sulle diverse infrastrutture tecnologiche coinvolte appare francamente incomprensibile dal momento che, come riferito dalla Ministra Pisano, i lavori successivi alla scelta dell’app per più di due mesi sono stati seguiti da un gruppo di lavoro interministeriale all’interno del quale queste problematiche sarebbero dovuto emergere.
Il secondo problema riguarda la natura stessa della volontarietà dell’app.
A dispetto delle affermazioni di principio e della vulgata sul punto l’alert che giunge sul telefonino di chi ha scaricato l’app trasforma quell’evento dall’ultimo passo della procedura che va dallo scaricamento dell’app sino alla fase dell’ exposure notifications, del tutto volontario, al primo step di un processo sanitario che di volontario non ha più nulla, come ha plasticamente dimostrato il caso di Bari.
Questo perché chi riceve l’alert è qualificato dalle norme sanitarie come contatto stretto di un infetto e come tale viene trattato, ovvero come un soggetto che deve essere messo in quarantena.
In particolare per i contatti stretti di un caso COVID-19, come stabilito dalle norme in vigore l’operatore di sanità pubblica del Dipartimento di Prevenzione territorialmente competente deve provvedere infatti alla prescrizione della quarantena per 14 giorni successivi all’ultima esposizione, che l’app segnala (e non 14 giorni dal momento in cui il paziente si “autodenuncia” al sistema sanitario, Ndr.).
Questo profilo, anche i virtù delle decine di articoli sul punto doveva essere conosciuto da chi ha gestito il processo di creazione e messa in opera dell’app.
Si obietta che l’auto-denuncia è facoltativa, come se tra l’altro tale aspetto fosse qualcosa di cui andare fieri, viste le possibili conseguenze sulla salute propria e di terzi di chi, dopo aver scaricato l’app, poi decide di ignorare l’avvertimento.
Nemmeno questo però è vero.
Perché siamo di fatto obbligati a comunicare l’alert Immuni
Per poter dire che un determinato fatto è del tutto volontario occorre vedere quali conseguenze quest’atto ponga e se altre norme, eventualmente emanata in precedenza, non impongano comportamenti diversi, rispetto a quelli presuntivamente volontari.
Le norme infatti non possono essere prese da sole ma devono essere valutate sulla base delle altre norme esistenti in base a quella che si chiama interpretazione sistematica delle leggi.
Se dall’interpretazione sistematica emerge la contrarietà di una norma rispetto ad altre che prevedono principi diversi, la norma di rango inferiore deve cedere il passo a quella di rango superiore in base ad un giudizio di bilanciamento.
Nel caso di specie il diritto alla salute per sé e per gli altri, che all’atto dello scaricamento dell’app ancora non sussiste e che è di rango superiore, deve necessariamente prevalere, una volta arrivata la notifica di esposizione, rispetto al principio della privacy informatica alla base della volontarietà del proprio comportamento.
E questo è proprio il caso di Immuni, dal momento che, ad esempio nel settore del lavoro esistono precisi obblighi per il lavoratore, in caso di alert, il quale si ricordi sempre, viene qualificato come contatto stretto di un soggetto positivo.
Tra gli obblighi viene in rilievo ad esempio la necessità di rendere l’autodichiarazione prevista dal “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, siglato da Governo e parti sociali. Quest’ultimo prevede che il datore di lavoro informi i propri lavoratori circa “la consapevolezza e l’accettazione del fatto di non poter fare ingresso in azienda e di doverlo dichiarare tempestivamente laddove, anche successivamente all’ingresso, sussistano condizioni di pericolo (sintomi di influenza, temperatura, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti, etc.) in cui i provvedimenti dell’Autorità impongono di informare il medico di famiglia e l’Autorità sanitaria e di rimanere al proprio domicilio”.
Appare evidente che l’alert inviato dall’applicazione di contact tracing imponga al lavoratore di rendere tale dichiarazione e a giustificare il divieto di accesso nel luogo di lavoro ai sensi della disciplina del protocollo o dell’art. 20 del Testo Unico di Salute e Sicurezza (d.lgs. n. 81/2008) che prevede l’obbligo in capo al lavoratore di comunicare al datore eventuali situazioni di rischio di cui sia venuto a conoscenza.
Quello che nessun datore di lavoro, né pubblico né privato può fare è invece di imporre al lavoratore, nemmeno sotto forma di consiglio, nota di servizio, circolare o altro atto, l’uso dell’app. perché questo contrasterebbe con il principio della volontarietà per colui che non scarica l’app.