Il proliferare di APP e piattaforme che danno la possibilità di mettersi velocemente in contatto con un medico, fa sorgere il dubbio che l’offerta della sanità pubblica e in particolare il medico di medicina generale non siano più il primo e sicuro punto di riferimento per il cittadino con problemi sanitari non di emergenza.
Sì, in effetti la medicina e la sanità sono molto cambiate così come il mondo intorno. Inoltre l’attuale pandemia ha sicuramente evidenziato l’esigenza di un ripensamento/aggiornamento dell’organizzazione del sistema sanitario nazionale ad oltre 40 anni dalla sua istituzione, nonostante l’indubbia efficacia dimostrata in termini di salute complessiva degli italiani.
Il tema è molto ampio e pertanto occorre inquadrarlo brevemente.
Come nasce il modello italiano
Il punto di partenza è la legge 833/1978 di costituzione del Servizio Sanitario Nazionale SSN approvata sulla scia degli interventi normativi atti a consolidare il c.d. “welfare state” ispirato al Modello Beveridge del NHS britannico, fondato sulla fiscalità generale ed universalistico, in adempimento della Costituzione (art.32 La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti).
Negli anni ’90 fu evidente il problema della sostenibilità economica del SSN, sia strutturale sia dovuta alla cattiva gestione, e fu attuata una riforma con correttivi significativi con il Decreto Legislativo 502/1992 (De Lorenzo) e il 517/1993 (Garavaglia) di modifica. I provvedimenti si basavano su tre principi: aziendalizzazione; idea di “mercato” e responsabilità alle regioni.
Le Aziende sanitarie locali (Asl) ora istituite con personalità giuridica e definite come aziende devono erogare l’assistenza medico-generica in forma domiciliare e ambulatoriale, assicurando i livelli di prestazioni definiti dal piano sanitario nazionale. In questo contesto il SSN assegna al medico di assistenza primaria il ruolo di medico curante, responsabile clinico del paziente in ambiente extraospedaliero a cui spetta la sintesi di quanto proposto dagli specialisti. Sul territorio quindi il cittadino riceve le cure dal personale dipendente del servizio pubblico o attraverso il personale convenzionato con il medesimo servizio (art. 48 L. 833/1978 e art. 8 D.Lgs. 502/1992). La disciplina del rapporto convenzionato è demandata ad appositi accordi collettivi nazionali (ACN).
“Sicché, la scelta del medico di fiducia, laddove non si opti per il medico pubblico dipendente operante nella ASL (poiché la legge postula anche una tale alternativa, sempre frutto di opzione fiduciaria, laddove questa sia resa concretamente esercitabile in forza di apposito modulo organizzativo in seno alla medesima ASL), dovrà necessariamente cadere sul medico convenzionato operante nel Comune di residenza dell’utente del SSN (art. 25, co. 4)”- ci ricorda Zinni – Infatti l’assistenza medico-generica «è prestata dal personale dipendente o convenzionato del servizio sanitario nazionale operante nelle unità sanitarie locali o nel comune di residenza del cittadino» (art. 25, co. 3).
Per l’esercizio dell’attività di medico chirurgo di medicina generale nell’ambito del SSN è necessario, come indicato dall’art. 21 del D.Lgs. 368/1999, modificato dal D. Lgs. n. 277/2003 Titolo IV, il possesso del diploma di formazione specifica in medicina generale. Il diploma, rilasciato da parte degli assessorati regionali alla sanità, si consegue ora con un corso triennale. “Le regioni e le province autonome forniscono al Ministero della sanità entro il 3 ottobre di ogni anno l’entità del contingente numerico da ammettere annualmente ai corsi, anche sulla base delle previsioni relative all’assegnazione di zone carenti di assistenza primaria (art.25)”, e su questo punto poi ritorneremo.
Medici di base e “Lea”
Con il Decreto Legislativo 229/99 (Bindi) interviene una ulteriore riforma che definisce, fra l’altro, il rapporto esclusivo dei medici, libera professione ed età pensionabile. Per tutti i medici dipendenti o convenzionati il limite d’età per il pensionamento è fissato a 65 anni, elevabile a 67, con tempi e modalità applicative per i medici di famiglia stabilite in convenzione(ACN).
Con la riforma costituzionale del 2001 del Titolo V della Costituzione, viene inserita la c.d. “legislazione concorrente” per cui lo Stato si limita a determinare i livelli essenziali delle prestazioni (LEA) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117 Cost.) mentre spetta alle Regioni l’organizzazione dell’erogazione sia dei LEA che di eventuali ulteriori livelli.
In questo contesto il medico convenzionato è remunerato dalla Asl non in base ad un rapporto di lavoro subordinato (e, dunque, di pubblico impiego) ma con un rapporto di lavoro autonomo parasubordinato. Può svolgere anche della libera professione ma al di fuori della prestazione curativa di assistenza medico-generica, senza «pregiudizio al corretto e puntuale svolgimento degli obblighi del medico, nello studio medico e al domicilio del paziente» (art. 8, co. 1, lett. c), D.Lgs. 502/1992).
In questo modo la Medicina Generale e forse più correttamente, le Cure Primarie (MMG,MCA, PLS, Operatori Sanitari del Territorio) si affiancano soltanto al Sistema ma non sono un Comparto della Sanità Pubblica, con tutti i problemi che ciò comporta.
Il Decreto Balduzzi nel 2012 interviene su questi aspetti e riduce le forme organizzative e associative sul territorio indicando:
- Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT): monoprofessionali e senza una sede unificante di MMG
- Unità Complesse di Cure Primarie (UCCP): con partecipazione di più figure professionali (Medici specialisti, Infermieri, Fisioterapisti, ecc.) con diversa tipologia di rapporto di lavoro (dipendenti, convenzionati, a compenso orario o meno, ecc.) e con una Sede fisicamente individuabile e riconoscibile dalla popolazione.
Quindi per l’assistenza territoriale, esistono ora una pluralità di strutture e soggetti e l’assistenza primaria è assicurata dal medico di famiglia e dal medico di continuità assistenziale, riuscendo così ad essere attiva 24h su 24h e 7 giorni su 7.
Il contesto epidemiologico
Il Piano Nazionale della Cronicità, Accordo tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano del 15 settembre 2016, com’è noto, formalizza il cambio di contesto epidemiologico sottolineando che “il mondo della cronicità è un’area in progressiva crescita che comporta un notevole impegno di risorse, richiedendo continuità di assistenza per periodi di lunga durata e una forte integrazione dei servizi sanitari con quelli sociali e necessitando di servizi residenziali e territoriali finora non sufficientemente disegnati e sviluppati nel nostro Paese.”
Pur affermando che il Piano nazionale della Cronicità (PNC) “nasce dall’esigenza di armonizzare a livello nazionale le attività in questo campo” e pur essendo stato condiviso con le Regioni e ben strutturato, viene poi attuato con piani regionali concordi sull’obiettivo e sull’approccio centrato sulla persona ma poi molto diversi nelle modalità attuative.
Tali difformità attuative rendono poi difficile o quasi impossibile il confronto di risultati: infatti mentre per i servizi ospedalieri e le prestazioni ambulatoriali ci sono modalità nazionali di confronto quantitativo fra regioni (DRG o nomenclatore tariffario) e ci sono dei flussi informativi diretti al Ministero, per la cura della cronicità questo ad ora non avviene, fatta salva la rilevazione di alcune prestazioni ad esempio quelle dell’assistenza domiciliare integrata. Tale situazione dovrebbe essere ricondotta ad una possibile lettura comune, perchè più il tempo passa e più si possono allargare le differenze, sia in termini di sostenibilità sia di equità fra Regioni. Si consideri inoltre il significativo peso della cura della cronicità sul territorio e sulla medicina generale per la gestione della stessa.
L’attuale condizione di pandemia inoltre ha affiancato all’esigenza di cura delle patologie già presenti anche l’attenzione da porre alle situazioni di prevenzione delle malattie infettive.
La trasformazione digitale
Il patto Sanità digitale frutto dell’intesa fra Governo, Regioni e Province Autonome di Trento e di Bolzano del 7 luglio 2016 in attuazione del Patto per la Salute 2014-2016 “costituisce il piano strategico unitario e condiviso per il conseguimento degli obiettivi di efficienza, trasparenza e sostenibilità del Servizio sanitario nazionale, attraverso l’impiego sistematico dell’innovazione digitale in sanità”. Il patto si colloca dopo la costituzione dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AGID) (2012), le linee nazionali di indirizzo sulla Telemedicina (2014) e poco prima del Piano della Cronicità (2016) che contempla al suo interno l’utilizzo di strumenti innovativi diversi a supporto della medicina e della sanità per migliorare e facilitare l’accesso, la diagnosi, la cura e il follow up dei pazienti cronici.
Quindi, anche da lungo tempo ormai, sono presenti una serie di opportunità affinché sia facilitato l’utilizzo della tecnologia, e l’emergenza attuale ne ha messo in evidenza la necessità e in diversi casi la fattibilità d’uso: si pensi ad esempio al lavoro da remoto svolto dai medici. Molte informazioni su ciò sono emerse dai dati dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano nell’ambito del convegno on-line «Connected Care ed emergenza sanitaria: cosa abbiamo imparato e cosa fare adesso?» dello scorso 8 giugno.
Ad esempio il 51% dei medici di medicina generale del campione ha lavorato da remoto, è stato completato il percorso di dematerializzazione della ricetta elettronica nei confronti delle farmacie, evitando al paziente di doversi recare in studio per il ritiro, sono stati attivati servizi con il supporto della Telemedicina, quali quelli previsti dalle Linee nazionali di indirizzo (Tele-consulto, il Tele-monitoraggio, Tele-cooperazione, Tele-salute). I medici sia di medicina generale che specialisti hanno visto crescere significativamente il loro interesse per tale modalitàdi lavoro: i MMG in modo superiore rispetto agli specialisti che però ritengono (75%) che tale modalità sia stata decisiva nella fase di emergenza.
“Mediamente, secondo i MMG, si potrebbe svolgere attraverso strumenti digitali il 30% delle visite a pazienti cronici e il 29% delle visite ad altre tipologie di pazienti, mentre per i medici specialisti queste percentuali scendono rispettivamente al 24% e al 18%.” Inoltre “un cittadino su tre vorrebbe sperimentare una Tele-visita con il proprio MMG”. Sorge quindi la domanda del perché non vi sia un utilizzo diffuso della Telemedicina e il principale motivo, secondo il campione di quasi 1500 specialisti consiste per il 43% di essi nella mancanza di normativa specifica (es. tariffe, contesti applicativi, ecc.).
A ciò hanno cercato di sopperire alcune Regioni, quali Toscana e Veneto, con indicazioni emergenziali ma anche prospettiche da realizzare, o solo temporanee come Lazio e Lombardia, o limitate ad alcuni contesti come la provincia autonoma di Trento. Anche la circolare del Ministero della Salute “Linee di indirizzo per la progressiva riattivazione delle attività programmate considerate differibili in corso di emergenza da COVID-19” che ha ancora però carattere emergenziale raccomanda, per ridurre l’affollamento delle strutture sanitarie, di “privilegiare modalità di erogazione a distanza (telemedicina, videochiamata, videoconferenza), per particolari tipologie di prestazione (es. alcune tipologie di visite di controllo, aggiornamento di piani terapeutici)”.
L’Mmg nella medicina territoriale
Le difficoltà del territorio in ambito sanitario, in particolare nel momento attuale, sono ben evidenziate da Fulvio Lonati che riflettendo sulla sua realtà mette in luce la mancanza di una regia per coordinare e governare i molti attori dei servizi presenti, perchè, come diceva Seneca “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.
Quindi è stato il territorio che ha subito l’impatto maggiore e su ciò ha inciso certamente il fatto che le forme associative della medicina generale sono decollate in pochi casi, in modalità dìverse e disomogenee, e forse solo dove i MMG erano già presenti come realtà forte e solidale nel contesto sanitario territoriale.
L’inserimento di una figura come il MMG, libero professionista, nelle UCCP, ma anche nelle AFT monoprofessionali si è quindi rivelato problematico, soprattutto in quelle realtà dove il distretto, luogo di possibile integrazione degli attori territoriali si è dimostrato troppo grande o poco governato o in capo a realtà come ad esempio le ASST più abituate ad erogare prestazioni che non a governare il territorio.
Più in generale il problema potrebbe essere quello dello “status giuridico-professionale di libero professionista para-subordinato e retribuito a quota capitaria in un Sistema dove tutti sono dipendenti e/o retribuiti a quota oraria. Il MMG è l’unico Libero Professionista che lavora in un contesto di tipo Aziendale strutturato per Comparti. Una contraddizione non sanabile: o si accetta il Sistema Aziendale o si accetta la Libera Professione”.
Una ulteriore riflessione è il collegamento/collaborazione con le altre figure professionali della sanità: mentre negli ospedali le diverse “famiglie professionali” sono state, anche grazie ai sistemi di gestione aziendale, costrette ad integrarsi, sul territorio il riferimento resta ancora il medico “solo”, salvo qualche situazione di presidi territoriali strutturati in cui le diverse figure sono state effettivamente integrate (vedi ad esempio le c.d. case della salute” emiliane).
Il Medico di Medicina Generale: nodi critici
Numero dei medici. L’assistenza territoriale “ruota attorno alla figura del medico di famiglia, che costituisce il principale riferimento per le cure di base del cittadino. I medici di medicina generale nel 2017 sono circa 44 mila (43.731)”. Tale valore è andato diminuendo dal 2011, quando era pari a 46.061, ultimo valore presente sul sito del Ministero. “Con un valore di 7,2 medici ogni 10 mila abitanti nel 2017. A livello territoriale la variabilità regionale passa da 6,5 medici ogni 10 mila abitanti nel Nord-ovest a 7,9 nel Sud e Isole”.
Al numero di MMG in calo si affianca però anche un significativo aumento dell’età dei medici evidenziata dagli anni trascorsi dalla laurea, con percentuali decisamente più elevate in alcune regioni quali Abruzzo, Molise, Calabria e Basilicata che al 2017 superano l’80% del totale.
Punti critici: la formazione
Considerata la carenza di MMG che si sta accentuando è lecito chiedersi se e come si potrebbe incidere sulla loro formazione. Come già accennato per esercitare la professione di Medico di Medicina Generale è necessaria l’abilitazione all’esercizio della professione di Medico Chirurgo (Laurea + Esame di Stato), l’iscrizione all’Albo dei medici (Ordine professionale), il diploma di formazione specifica in medicina generale (corso post-laurea della durata di tre anni) e la partecipazione ai concorsi regionali a seguito dei quali si è inseriti in graduatorie regionali.
Il punto critico del percorso è senza dubbio il diploma di formazione specifica in medicina generale che è l’elemento caratterizzante di tale formazione. Sembra utile sottolineare come la formazione specifica di tre anni, diversamente dalle altre specializzazioni mediche, non è gestita dall’università, bensì “il corso ha durata triennale (art. 14 del d.lgs 277/2003) e vi si accede mediante concorso bandito annualmente dalle regioni che prevede il superamento di un esame scritto contenente quesiti riguardanti casi clinici e nozioni di medicina generale e specialistica al quale possono accedere solo i medici abilitati” . La norma di riferimento che disciplina il Corso di formazione specifica è il d.lgs. 17 agosto 1999 n. 368, modificato dal D. Lgs. n. 277/2003 Titolo IV.
Questa modalità di formazione che peraltro prevede il riconoscimento di borse di studio è gestita dalle Regioni che si avvalgono di scuole a livello locale. Il sito del Ministero su questo tema è aggiornato al settembre 2018 e non fornisce un trasparente quadro d’insieme.
Alcuni dati d’insieme sono pubblicati, a firma di Claudio Cappelli, su Quotidiano sanità. Si tratta di alcuni interventi di approfondimento che cercano di far luce rispettivamente sul definanziamento della formazione dei MMG e sulle carenze di formazione delle risorse umane in medicina generale di cui riportiamo la tavola di sintesi.
Interessante il confronto fra la scelta di una specializzazione medica rispetto alla medicina generale dove si evidenzia anche il diverso valore della borsa di studio riconosciuta agli studenti per la durata del corso di studi (da €22.700,00 lordi/anno a €10.604,50 lordi/anno), ma anche molte altre utili informazioni per facilitare la scelta degli studenti.
Punti critici: il rapporto di lavoro
Analogamente interessante è l’indicazione, molto dettagliata che si trova su un sito dedicato alle offerte di lavoro sullo stipendio medio di un Medico di Base che viene indicato in 105.000 € lordi all’anno (circa 4.600 € netti al mese), con la precisazione che la retribuzione di un Medico di Base può partire da uno stipendio minimo di 64.400 € lordi all’anno, mentre lo stipendio massimo può superare i 192.900 € lordi all’anno per un medico massimalista.
Il rapporto di lavoro del MMG si rifà all’Accordo Collettivo Nazionale (2018 – ACN 21 giugno 2018 – Medicina Generale), attualmente in vigore, che
- pone obiettivi prioritari di politica sanitaria nazionale (Piano nazionale della cronicità ; Piano nazionale prevenzione vaccinale 2017-2019; accesso improprio al pronto soccorso; governo delle liste d’attesa e appropriatezza) (art.1)
- fornisce dettagliate indicazioni su: Graduatoria regionale e graduatorie aziendali per incarichi temporanei e sostiituzioni (art.2); Titoli per la formazione della graduatoria regionale (art.3); Procedure per l’assegnazione di incarichi di assistenza primaria (art.5) e di continuità assistenziale (art.6); assegnazione degli incariichi di emergenza saniitaria territoriale (art.7)
- definisce il valore economico degli Arretrati (art.9) per Medici di Assistenza Primaria (quota capitaria); Medici di Continuità Assistenziale (€ /ora); Medici di Medicina dei Servizi Territoriali (€/ora);Medici di Emergenza Sanitaria Territoriale (€/ora)
- indica Modifiche all’ACN 23 marzo 2005 e s.m.i.(art.8) e definisce l’Accordo nazionale per la regolamentazione del diritto di sciopero nell’area della medicina generale (art.3 e 11)
- stabilisce l’Entrata in viigore dell’accordo e rappresentatività a livello decentrato (art.10), richiamando gli Accordi Integrativi Regionali (AAIIRR)e gli Accordi Attuativi Aziendali.
Per la piena applicazione dell’ACN è necessaria quindi la responsabilità delle istituzioni (Regioni e Aziende) ed infatti per quanto riguarda l’obiettivo nazionale sull’accesso in Pronto Soccorso si precisa che “in tale contesto gli AAIIRR prevedono l’integrazione nelle reti territoriali dei medici di assistenza primaria e delle loro forme organizzative con le strutture, con i servizi e con tutte le altre figure professionali del territorio, per garantire la continuità dell’assistenza ed evitare, per quanto possibile, l’accesso al pronto soccorso per prestazioni non urgenti e/o considerabili inappropriate, anche con il coinvolgimento dei medici nelle prestazioni diagnostiche di primo livello collegate all’accesso improprio”. Mentre per l’obiettivo Liste attesa si precisa che “per l’erogazione delle prestazioni potrà essere previsto il coinvolgimento delle forme organizzative dei medici di medicina generale nei processi di budgeting aziendali”:
Tutti i Medici di medicina generale convenzionati sono tenuti a rispettare gli obblighi e i compiti previsti dall’ACN, ma anche dagli AAIIRR e dagli Accordi Aziendali. Tra gli obblighi del MMG vi è la partecipazione a corsi di aggiornamento e qualificazione previsti nell’ambito del programma nazionale per la formazione degli operatori della sanità (ECM).
Continuità Assistenziale (CA) e Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA). La continuità assistenziale integra l’orario di attività del MMG ed è parte delle attività distrettuali per garantire sul territorio la cura ai cittadini h24. Trova origine nell’art. 8, comma 1, lettera e) del decreto legislativo n. 502/92 e successive modifiche, sulla base della organizzazione distrettuale dei servizi stabilita dalle aziende nel rispetto degli indirizzi della programmazione regionale.
Queste attività sono soggette ad accordi regionali che possono essere differenti fra Regioni. La tabella seguente evidenzia le ampie difformità regionali in particolare sul numero di medici titolari e nel numero di visite effettuate per 100.000 abitanti.
Le c.d. USCA – Unità Speciali di cui all’art. 8 del Decreto Legge 14/20 del 9 Marzo 2020, “Linee di indirizzo per la costituzione delle Unità Speciali di Continuità Assistenziali” sono istituite dalle Regioni, ”entro dieci giorni dall’entrata in vigore del presente decreto, presso una sede di continuità assistenziale già esistente una unità speciale ogni 50.000 abitanti per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero, volte a implementare la gestione dell’emergenza sanitaria per l’epidemia da COVID-19 nell’ambito dell’assistenza territoriale e hanno il compito di gestire a domicilio (consulto telefonico, video consulto, visite domiciliari) i pazienti sospetti o accertati Covid-19, che non necessitano di ricovero ospedaliero.”…” L’unità speciale è attiva sette giorni su sette, dalle ore 8.00 alle ore 20.00, e ai medici per le attività svolte nell’ambito della stessa è riconosciuto un compenso lordo di 40 euro ad ora.” Si tratta quindi di un’esternalizzazione di un servizio, implementato in tutte le Regioni ma in modo difforme sia numericamente sia qualitativamente.
Sembra quindi si rafforzi un’idea di aziendalizzazione che ha portato in alcune regioni maggiormente di altre ad esternalizzare funzioni o servizi ad erogatori esterni, con esiti anche molto diversi, o con i dubbi poi sorti a cose fatte. Certamente l’avvenire delle USCA dovrà essere inserito in un serio ripensamento sull’organizzazione delle cure territoriali che potrebbero trarre molto giovamento da un lavoro di valorizzazione dei dati, di standardizzazione dei flussi in una logica di ecosistema.
Il paziente al centro: la scelta del MMG
Altro tema di interesse è comprendere il carico di lavoro dei MMG perché questo dovrebbe riflettersi anche sulla disponibilità di tempo per pazienti. Il valore medio a livello nazionale è di 1194 pazienti per medico, con valori nulli (in due regioni) per MMG con solo 50 pazienti (situazioni forse temporanee o da verificare) e una quota del 7,3% di MMG con un numero di pazienti compresi fra 50 e 500. Il 17,9% segue fra i 500 e i 1000 pazienti e la quota più rilevante 41,7% un numero di pazienti compresi fra i 1000 e i 1500. Quasi un terzo dei MMG (31,6%) è però sopra il tetto massimo di 1500 pazienti e questo valore arriva a superare la soglia del 50% degli MMG in Lombardia (57,6%) e nella Provincia Autonoma di Bolzano, dove tocca il 65,6%.
Altro aspetto di interesse che si ripercuote sul paziente è il numero di MMG che lavora in forma associata, perché a livello nazionale il 70,5% dei medici si trova in tale condizione con valori che superano l’80% in quattro realtà: Provincia Autonoma di Trento (85,3%), in Veneto (84,9%), in Emilia Romagna (82,9%) e in Toscana (86,6%). Si tratta di valori riferiti al 2017, ultimo dato reso disponibile dall’Annuario ISTAT 2019. Tale distribuzione che denota un’abitudine maggiore alla collaborazione per il presidio del territorio può avere avuto riflessi anche nella gestione di quest’emergenza Covid 19.
Ultimo aspetto che però non è facile documentare è l’età dei pazienti seguiti o il livello di cronicità che può essere un fattore di differenza sul peso assistenziale in capo al MMG.
L’Mmg: sanità digitale e telemedicina
Per definire quanto sanità digitale e telemedicina abbiano avuto attenzione in questo periodo da parte di cittadini e medici non si può che far riferimento all’ultimo istant report ALTEMS e al recente convegno dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità rispettivamente dell’Università Cattolica di Roma e del Politecnico di Milano.
Nel Report citato si indicano 174 soluzioni digitali avviate dopo il 1 marzo 2020, di cui 14 riconducibili alla medicina generale e attuate in 9 regioni. Le Televisite rappresentano quasi la metà (47%) del totale delle 174 iniziative seguite dal monitoraggio (33%). Le iniziative sono riconducibili, oltre che alla medicina generale anche ad altre specialità mediche e per oltre il 60% sono state dirette a pazienti non Covid. Gli strumenti utilizzati sono di uso comune ed immediato: web (38%), piattaforma (29%), telefono (20%) e App (13%).
Le analisi dell’Osservatorio del Politecnico sono state svolte su un campione di 1000 cittadini e nell’analisi volta a capire il ruolo del digitale nella comunicazione medico-paziente, per quanto riguarda il MMG si rileva che E-mail, SMS e WhatsApp venivano utilizzati anche prima rispettivamente per il 19%, per il 9% e per il 14%, e hanno avuto un uso inferiore durante l’emergenza (4%, 2%, 6%) essendo stati utilizzati soprattutto per lo scambio del numero di ricetta elettronica.
Anche l’uso delle piattaforme (di collaborazione tipo Skype o di comunicazione dedicate) risulta non superiore al 2% sia prima, sia durante l’emergenza, ma gli intervistati hanno dichiarato un interesse all’utilizzo indicativamente intorno al 20% per ciascuna soluzione rivolta alla comunicazione con il proprio MMG. Il campione di MMG intervistato, formato da 740 MMG, sembra invece decisamente più interessato indicando valori alti di utilizzo pregresso di E-mail, SMS e WhatsApp (rispettivamente 82%, 60% e 56%) e ancora più elevati di interesse, ma sopratutto indicando interesse futuro molto elevato per le piattaforme, in particolare per quelle di comunicazione dedicata (usate in passato per l’11%) e che sono interessati ad usare in futuro per il 65%.
Anche per l’utilizzo della telemedicina i valori di interesse sono “esplosivi”, al contrario di un’analoga indagine svolta su un campione di specialisti che hanno mostrato un interesse più contenuto, come si può vedere dalla tabella sottostante. In particolare fra i MMG i definibili contrari all’uso della telemedicina sono solo il 5%, mentre il valore tra gli specialisti raggiunge il 30%.
Le indicazioni del Piano Colao
Fra le iniziative per il rilancio “Italia 2020-2022” a cura del Comitato di esperti in materia economica e sociale, si segnalano, fra le 102 individuate, le seguenti.
Piano di Digital Health nazionale: “Sviluppare Ecosistema Digitale Salute a livello nazionale, che connetta tutti gli attori della filiera e renda disponibili tutti i dati sanitari del paziente agli operatori autorizzati, per permettere una cura integrata a casa, presso strutture sanitarie pubbliche/private e in ospedale, attraverso personalizzazione, monitoraggio ed interventi più efficienti”.
Contesto: “L’emergenza Covid19 evidenzia la necessità di applicazione della telemedicina, non solo per il Covid”, ma soprattutto per assicurare l’accesso alle cure a tutti gli altri pazienti.
Ancora, “la sanità non è ancora disegnata secondo i nuovi paradigmi “health-in-all” (ad es., visione olistica del cittadino , connessione tra tutti i sui dati sanitari sociali ambientali, lavorativi) value-based (valutazione risultati rispetto ai costi) e personalizzata (trattamento personalizzato anche rispetto alle sue caratteristiche genomiche), condivisione dei dati con tutto l’ecosistema (dalla R&S, alla produzione di farmaci, all’erogazione dei servizi).
Ecco quali sono le azioni specifiche previste:
- Avviare una revisione organica dei processi sanitari in un’ ottica di sanità integrata e personalizzata, composta da: i) Digitalizzazione e accesso da remoto a tutti gli asset sanitari relativi al paziente ii) Televisita (rapporto medico di medicina generale-paziente) sia pubblica sia privata; iii) Teleconsulto (anche residente); iv) Gestione amministrativa e pagamenti v) Raccolta dati monitoring remoto IoT/wearables iv) Condivisione dati psedonomizzati o anonimizzati ai fini ricerca/statistici, come da leggi vigenti.
Nello specifico, per la realizzazione di questa trasformazione è necessario:
- Superare il Fascicolo Sanitario Elettronico convergendo verso il “Digital Twin”, ovvero la rappresentazione virtuale del cittadino con integrazione di tutti i suoi dati, dalla genomica ai dati clinici alla sensoristica con viste diversificate per tipologia di utente (Ricerca, Industria, Istituzioni Operatori Sanitari).
- Avviare revisione dei processi anche da un punto di vista normativo, nell’ottica dell’inserimento di nuove tecnologie (e.g., IoT, AI , Big data), definendo regole chiare per la condivisione dati tra tutti i soggetti della filiera (dalla R&S alle assicurazioni integrative e servizi privati).
- Definire architettura e costruire/adottare la piattaforma abilitante per questo ecosistema, valutando problematiche di integrazione con sistemi esistenti a livello regionale
Monitoraggio sanitario nazionale
“Sviluppare un sistema di monitoraggio sanitario nazionale, anche a supporto del piano di digital health e di sistemi di early warning nel monitoraggio delle pandemie, garantendo la disponibilità di dati omogenei, di buona qualità e in tempo reale, nonché di adeguate capacità di elaborazione e sintesi”.
Contesto:
▪ Al momento esiste: (i) frammentazione nelle procedure per la raccolta dei dati; (ii) lentezza nel processo di elaborazione legate a ritardi tecnologici (trasmissione di dati su nascita e morte attraverso modulistica cartacea: 600.000 moduli cartacei anno, che richiedono all’Istat lunghi tempi tecnici di controllo); (iii) mancato sfruttamento di sinergie tra enti diversi
▪ Per superare queste rigidità in alcuni casi si richiedono interventi normativi, per altre bastano procedimenti amministrativi
Ecco quali sono le azioni specifiche previste:
a. Creazione di un sistema di “early warning” basato sull’infrastruttura di Tessera Sanitaria (che già collega in tempo reale tutti gli operatori sanitari italiani) integrata con le infrastrutture delle altre amministrazioni, attraverso i seguenti passi operativi:
- L’informatizzazione della rilevazione delle cause di morte (inserita in DL e da attuare);
- L’interoperabilità delle banche dati digitali sanitarie già esistenti (prescrizioni mediche, uso dei farmaci, comunicazioni di malattia all’INPS);
- La condivisione dei dati sui ricoveri ospedalieri, al momento raccolti dal Ministero della Salute.
b. La raccolta dei dati avverrebbe con ampie garanzie in materia di Privacy e sarebbe gestita da SOGEI che già mantiene i dati “tessera sanitaria” sulle prescrizioni mediche emesse dai medici di base (sistema SAC). L’uso a fini statistici delle informazioni così raccolte consentirebbe la rapida identificazione a livello territoriale di focolai di specifiche patologie.
c. I dati raccolti sarebbero un supporto al piano di digital health e in generale alla gestione in remoto di diversi servizi sanitari
Se queste indicazioni possono essere condivise, va però rilevato che l’indicazione di “Superare il Fascicolo Sanitario Elettronico convergendo verso il “Digital Twin”” non è ad oggi percorribile in quanto molti cittadini tuttora ignorano l’esistenza del Fascicolo Sanitario Elettronico, ma molti altri hanno imparato a conoscerlo ed utilizzarlo e quindi trovargli un nuovo nome – si potrebbe inoltre discutere sulla scelta di un termine in inglese – non ne consentirebbe di certo il decollo.
Conclusioni e proposte per lo scenario futuro
La recente pandemia ha evidenziato la necessità di una risposta veloce e coesa del servizio sanitario pubblico sia a livello ospedaliero sia a livello territoriale per non lasciare scoperti i cittadini. Il ruolo della medicina territoriale ha acquisito centralità e attenzione collettiva anche perché in alcuni contesti ha dimostrato di essere in difficoltà. Ma se l’attenzione si pone sul territorio si capisce che diventa cruciale il ruolo del medico di medicina generale e della regia e della guida che deve essere data ai numerosi attori che si occupano di salute al di fuori dell’ospedale. Quest’ultimo ha forse una identità maggiore in cui è più facile per tutti riconoscersi anche se le attività da affrontare richiedono alta specializzazione e competenze, e per alcuni aspetti, anche maggior riconoscimento sociale.
L’aver cercato di ripercorrere la situazione della medicina generale ci ha fatto capire che forse può essere questo il momento giusto per introdurre innovazione e far fare un salto di semplificazione e qualità ormai indispensabile, pena un progressivo deterioramento della situazione e dei rapporti fra gli operatori e fra questi e i cittadini.
Il rapporto convenzionale come abbiamo cercato di ripercorrere mostra ormai molti limiti, anche se forse ha creato molti interessi in un mondo che gli ruota intorno e che trae beneficio dalla mancanza di trasparenza e di maggior concentrazione su aspetti burocratici o sindacali invece di porre attenzione agli esiti di cura e di gestione del paziente. Si pensi ad esempio alla formazione che, pur essendo triennale non è neppure universitaria, in balia delle diverse scelte regionali e pertanto non incentivata ad una competizione qualitativa anche internazionale. Forse è soltanto invece una risposta che ha fatto il suo tempo e non più adeguata al mondo odierno che offre soluzioni, per alcuni aspetti più facili , che richiedono però lo sviluppo di ulteriori competenze.
Medici: come dovrà essere il nuovo contratto
Alcuni numeri già evidenziano l’impossibilità per il medico singolo, libero professionista ma con contratto parasubordinato (deve rispondere al cittadino, ma soprattutto al datore di lavoro) con un contratto che risente di tre livelli di accordi (nazionale, regionale, aziendale), quando anche la contrattazione collettiva è sempre stata, formalmente solo su due livelli. In tal senso si vede che mediamente il 70,5 di essi a livello nazionale ha scelto comprensibilmente una forma associata. Ma questo non sembra essere sufficiente a fornire garanzie, sia per il cittadino che ricorre molto spesso a pronto soccorso e medicina specialistica, creando tensioni e lunghi tempi di attesa, sia per lo stesso medico che non ha prospettive di carriera, mancando spesso un Distretto dedicato e molte incombenze non gratificanti, anche in termini di ruolo sociale essendo stata definita “medicina di base”.
Anche il finanziamento delle cure primarie, pur in un contesto di sottofinanziamento dello stesso Servizio Sanitario Nazionale che vede crescere il contributo out of pocket del cittadino, non è trasparente in quanto non c’è una chiara destinazione in tal senso, ma è legata agli Accordi Contrattuali Nazionali e a quelli Integrativi Regionali.
“In realtà c’è una sola eccezione a questo trend polidecennale ed è costituito dall’iniziativa del Ministro della Salute on. Speranza che nell’ultima Legge di Bilancio ha inserito una voce di spesa di 236 milioni, su 114,5 miliardi, per finanziare l’acquisto di attrezzature diagnostiche di primo livello da parte dei MMG (ecografi, elettrocardiografi, spirometri, ecc.) finalizzati a ridurre gli accessi impropri in Pronto Soccorso (sic!)”. Questa la sconsolata osservazione di un MMG che prosegue osservando che “lo stanziamento non arriva direttamente alle Cure Primarie, ma va alle Aziende che provvedono poi a ripartire i fondi fra i vari MMG.” Il suo rammarico lo porta poi ad osservare che “il fabbisogno individuato per il rinnovo contrattuale dei MMG, il nuovo ACN, si aggira intorno ai 60 milioni. Un rinnovo che si attende da oltre 10 anni e che rappresenta un quarto di quanto si dovrebbe impiegare quest’anno per la semplice dotazione strumentale (un aspetto meramente organizzativo!)”. La proposta che viene poi formulata è di “elevare a sistema le cure primarie”, ma apre anche alla possibilità di inserimento del MMG nel sistema con un rapporto di dipendenza.
Formazione a prova di futuro
Partendo da questa apertura formulata da un MMG pensiamo sia forse questo il momento di consentire, soprattutto in vista delle nuove e indispensabili immissioni di leve di giovani medici di mandare ad esaurimento la vecchia modalità di contratto para subordinato, preparando l’avvio prima del bando del prossimo anno ad una formazione universitaria triennale per la medicina generale e l’inserimento dei nuovi specializzati come parte del sistema sanitario nazionale a tutto campo.
Del resto un esempio efficace di integrazione fra ospedale e territorio l’abbiamo sotto gli occhi: è il settore della salute mentale ove il medico specialista opera indifferentemente sui servizi territoriali o nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, in modo integrato con le professioni sanitarie e con una “presa in carico” del singolo paziente ed un indirizzamento del paziente stesso al livello di cura più adeguato.
I medici specialisti della medicina generale potranno rafforzare e potenziare i servizi di cura e assistenza sul territorio e al domicilio che si avvarranno di innovazione e tecnologia, come auspicato anche dal Rapporto Colao, in una logica di squadra e di parità con i colleghi ospedalieri ed in raccordo con le numerose professioni sanitarie.