IL TREND

Robot sanitari alla sfida autonomia: la svolta “quinta dimensione”

Lo sviluppo di Intelligenza artificiale e IoT sta spianando la strada a un futuro di automi in grado di attuare una doppia rivoluzione: svolgendo compiti ad alta efficienza. E permeando i processi medico-assistenziali. Ma c’è un problema: i costi. Che solo Mes e Recovery Fund potranno risolvere

Pubblicato il 21 Ott 2020

Mauro Moruzzi

Dipartimento Trasformazione Digitale-Presidenza del Consiglio dei Ministri, Scuola di Welfare Achille Ardigò

robotic process automation

Sempre più robot nel futuro della Sanità digitale.

Sì, operano già da tempo in sala operatoria, nell’attività diagnostica, in fisioterapia, nella preparazione dei farmaci e più recentemente nell’assistenza materiale al paziente.

Ma oggi, “complice” l’emergenza sanitaria, si sta programmando la loro diffusione come componente strutturale del sistema curativo e assistenziale europeo. Vediamo come, partendo dalla visione di Cartesio, siamo arrivati alla “quinta dimensione” della sanità digitale.

Il “mondo parallelo” di Cartesio

“Come noi, quegli uomini saranno formati di un’anima e di un corpo”, scriveva nel 1635 René Descartes, meglio noto come Cartesio, in riferimento agli automi del futuro, quelli che oggi chiamiamo Robot. Pensava che l’uomo e l’animale avessero la struttura delle macchine, dove i tessuti, i nervi e i muscoli sostituivano le molle, i pistoni e i tubi. Il corpo-macchina di Cartesio smise di funzionare nel 1650, pare proprio per una polmonite molto aggressiva. Però, prima che ciò accadesse, il grande filosofo profetizzò anche l’avvento di un ‘mondo parallelo’ che oggi chiameremmo virtualizzato, dotato di intelligenza artificiale. E quel mondo sta effettivamente arrivando.

I robot sono già tra di noi, dotati di un corpo solido e di un’anima elettrica o elettronica, composta di particelle non molto diverse dal tessuto dei corpi umani. Un’anima, quindi, di materia, sia pur infinitesimale, non dissimile da quella umana, come osò scrivere nel lontano 1747 Julien Offray de La Mettrie suscitando un tale scalpore che lo costrinse a fuggire da Parigi e a rifugiarsi a Leida, in Germania.

I robot – un nome inventato dal romanziere ceco Karel Čapek nel 1920 – si stanno diffondendo anche nel mondo della sanità digitale (eHealth) perché si nutrono di bit, di atomi d’informazione trasmessi attraverso gli impulsi elettrici. La sanità dematerializzata, ‘liquida’ direbbe Zygmunt Bauman, dei primi venti anni del nuovo millennio, ha prodotto o perfezionato alcune aggregazioni intelligenti di dati digitali, come la Cartella Clinica Elettronica del medico, il Dossier Sanitario ospedaliero e soprattutto il Fascicolo Sanitario Elettronico.

Robot per la sanità: il nodo dei costi

Ora però si sta diffondendo qualcosa di molto diverso. Un prodotto tecnologico con il quale le future generazioni dovranno convivere a lungo, forse per diversi secoli: il robot impiegato nel welfare sanitario e assistenziale. Non necessariamente ha sembianze umane e comunque è molto diverso da come potevamo immaginarlo dopo tanti film di fantascienza. È, come cercherò di spiegare in queste pagine elettroniche, una ‘materializzazione di bit’, di informazioni digitali riferite al paziente e al sistema sanitario ma alla ‘quinta dimensione’.

I robot sono ormai parte del mondo sanitario ma hanno un problema: sono molto costosi. Il costo di un’apparecchiatura si attesta tra i 2 e i 3 milioni di euro, più le ingenti spese di manutenzione che raggiungono e superano i 100.000 euro annui. Essi, inoltre, richiedono un forte investimento, in risorse umane, in formazione, in chirurghi e operatori specializzati necessari soprattutto per garantire un utilizzo delle apparecchiature a tempo pieno 24×7. Con il budget digitale della sanità italiana, che continua ad oscillare attorno all’1% – 1,5 % del fatturato, non è certamente ipotizzabile una ‘robotizzazione’ delle cure intensive e tanto meno dell’assistenza al paziente non autosufficiente. Un investimento che invece è programmabile utilizzando i fondi straordinari europei (Recovery Fund e Mes) in quanto coerente con le direttive comunitarie.

La robotizzazione della sanità, infatti, può essere considerata l’ultimo stadio della dematerializzazione-digitalizzazione delle informazioni di salute (eHealth). Quella in cui l’uso intelligente degli eData-Big Data, con programmi di intelligenza artificiale (AI), si spinge oltre l’impiego dei software nelle attività mediche – la CCE, il FSE, la governance clinica real-time – e genera una ‘materializzazione intelligente’ dei processi medico-assistenziali e perfino socio-assistenziali.

I presupposti di questo nuovo stadio della rivoluzione digitale della sanità – come già è stato ricordato su Agendadigitale.eu – sono però tre. Uno di natura quantitativa riferito appunto alle risorse economiche disponibili (il passaggio dell’investimento eHealth a cifre che superino almeno il 6-7% del Fondo Sanitario). Un altro culturale e progettuale: l’innovazione tecnologica-digitale, dopo un certo stadio, necessita di ‘progetti di comunità’ dove team di professionisti e di cittadini lavorano assieme, co-progettano questo cambiamento di medium operando come una ‘comunità di salute’ o ‘comunità di assistenza’. Infine, occorre superare una atavica diffidenza verso le tecnologie più a diretto contatto con gli umani. I robot non voglio sostituire l’uomo, nemmeno il medico.

Robot al servizio del medico. Non viceversa

Paolo Dario, ordinario di Robotica biomedica e fondatore dell’Istituto di Bio-robotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa – ha scritto: “I robot hanno dimostrato che nella stragrande maggioranza dei casi non sostituiscono gli uomini. Inizialmente i chirurghi avevano il timore che potessero sostituirli, ma non è successo: oggi sono loro stessi i più convinti sostenitori di questi strumenti di grandissima precisione in grado di realizzare meglio le loro intenzioni. Ma è sempre il chirurgo che decide, pianifica e controlla”. Come già è accaduto con l’introduzione del computer e poi di Internet nel lavoro del medico, anche in questo caso siamo infatti in presenza di un cambiamento di medium, la forma e gli strumenti attraverso cui le nostre idee e la nostra volontà sono trasmesse ad altri. In quel ‘cum’ medico-paziente su cui si fonda la medicina moderna, né il professionista né tanto meno il cittadino possono essere sostituiti dalla tecnologia.

Jeffrey Schnapp, fondatore dello Stanford Humanities Lab, aggiunge infatti che “i robot non devono essere costruiti come forme di vita ma come applicazioni sociali, modi di interazione”. In altre parole, i robot non appartengono certamente al mondo dell’intersoggettività umana – come direbbe il sociologo Achille Ardigò – ma sono un prodotto di una tecnologia, di una ‘emotività reificata’. I robot però ci possono aiutare in modo straordinario a creare una nuova inter-soggettività nel welfare assistenziale, in un mondo dove l’emergenza Coronavirus ha riscoperto il valore della vecchia ‘medicina di comunità’. In sostanza diventano dei ‘nodi tecnologici’ altamente produttivi di prestazioni di salute che possono essere usati in due diverse modalità: al servizio di un nuovo business, socialmente discriminante o di un rilancio del servizio sanitario per tutti come il Covid e l’esplosione delle cronicità con l’allungamento della vita richiedono.

Il robot, una stampante penta-dimensionale

Il robot è un sistema per trasformare bit in atomi, è una ‘stampante pentadimensionale’. L’esempio delle stampanti serve per comprendere meglio il concetto. In una stampante bidimensionale i bit di un file si materializzano in un foglio stampato a due dimensioni (altezza e larghezza del testo scritto). Una stampante tridimensionale esegue la stessa operazione trasformando i bit in un prodotto materiale. Ad esempio, in un Lego per i giochi di un bambino. Una stampante quadridimensionale introduce la dimensione tempo, cioè esegue gli stessi procedimenti di una stampante tridimensionale inserendo il fattore tempo come elemento di materializzazione.

Noi stessi come umani siamo soggetti a questo processo quadridimensionale, cioè cambiamo nel corso del tempo la disposizione delle nostre cellule corporee (purtroppo non in meglio). Qualcuno di voi ricorderà un vecchio giocattolo che regalavamo ai nostri figli, cioè una specie di uovo di dinosauro che messo per una notte (fattore tempo) in acqua, generava un piccolo drago. Nelle stampanti quadridimensionali questo permette di trasformare acciaio liquido in solido e altri procedimenti che si basano sul cambiamento, soprattutto molecolare, introdotto dal fattore tempo.

Con il robot siamo invece alla stampante pentadimensionale, cioè in grado di trasformare unità di informazioni dematerializzate in azioni e comportamenti subumani, cioè copiati dall’uomo. Tutti noi abbiamo visto nei documentari televisivi i bracci meccanici di una fabbrica di automobili robotizzate. Anche questo è un processo di materializzazione di bit in atomi.

Decodificare l’energia

Un’azione, non importa se muscolare o cerebrale, è un processo di materializzazione perché, come ci ricorda Einstein, è prodotta dall’energia che è una forma di trasformazione della materia. Quando penso e quando agisco, come può accadere per un medico durante un intervento chirurgico, consumo energia quindi atomi. Per far funzionare un robot occorre materializzare delle informazioni in atomi che si trasformano in energia e per questo si può senz’altro affermare che il robot è una stampante penta-dimensionale.

Da una massa di informazioni dematerializzate, ad esempio sulla salute del mio corpo, posso materializzare in forme bidimensionali una ricetta medica su carta stampata, una pillola (tridimensionale) o una serie di azioni comportamentali programmate nel tempo in forma interattiva con l’ambiente, compiute da un robot. Ad esempio, facendo svolgere all’automa forme di assistenza utili a una persona non autosufficiente.

La quarta dimensione è una forma di materializzazione che si sviluppa nel tempo e in comportamenti intelligenti interattivi con l’ambiente circostante (quinta dimensione). Quest’ultimo concetto potrebbe apparire astruso e pertanto vorrei approfondirlo.

Mentre sto parlando con una persona, io trasmetto degli impulsi, che non sono elettrici ma sonori, regolati dal mio cervello, prodotti dal mio sistema laringo-faringeo e recepiti dal cervello del mio interlocutore che a sua volta li trasforma in significati. Qualcosa di simile alle trasmissioni con il codice Morse. Queste onde sonore codificate dal linguaggio si sviluppano in una quarta dimensione tempo attraverso la quale l’interlocutore raccoglie e trasforma in significati il messaggio.

Ma la rappresentazione della comunicazione bilaterale è estremamente recente nella storia dell’umanità dove l’individuo come tale, come singolo socialmente distinto, è esistito soltanto da alcune migliaia di anni. Gli esploratori ottocenteschi dell’Africa raccontavano che in realtà i messaggi si trasmettevano da uno a tutti e da tutti a uno. Nelle foreste si usavano i tamburi e in altre occasioni i lamenti. Il concetto era: io parlo a tutti perché tu possa capire. Ad esempio tu possa comprendere che io sono sola, abbandonata nella mia capanna e ho bisogno di aiuto.

Io sono parte di una comunità, di un gruppo, di un clan e tutto il clan deve sapere. In questo modo l’interazione emotiva espressa dalla voce o dalla forma musicale degli strumenti a percussione assorbiva la dimensione ambientale. Il ritmo dei tamburi poteva trasmettere il messaggio di dolore da villaggio in villaggio lungo l’intero corso del fiume.

Come agisce il robot in sala operatoria

Se io ordino al mio computer di compiere un’operazione (aprirmi il giornale online a cui sono abbonato) lui agisce indipendentemente dall’ambiente circostante. Se il mio iPad avesse possibilità di muoversi e io ordinassi a questo robot di portarmi il giornale, lui dovrebbe agire con l’impulso dei bit che gli ho dato e contestualmente con l’impulso di tutti i bit che gli provengono dall’ambiente, evitando quindi di sbattere contro un tavolo o di strappare il giornale a mia moglie che lo sta leggendo. È la ‘quinta dimensione’. Poi, come sappiamo, i fisici teorici, insaziabili di conoscenza, hanno studiato altre dimensioni e nella letteratura scientifica si racconta perfino dell’undicesima dimensione in cui si articolerebbe l’universo, ma qui il caso si fa più complicato.

Un robot-computer che guida un’automobile deve operare nella quinta dimensione perché, contestualmente, è costretto ad agire in base a un input originario (il trasferimento del mezzo da un punto A a uno B della mappa stradale) e a input di informazioni che provengono da un ambiente non sempre prevedibile.

La stessa cosa che deve fare un robot in una sala operatoria dove all’input originario (ad esempio, l’estrazione di un tumore) si aggiungono altri input ambientali dati dalle circostanze e dal controllo medico. Non necessariamente, però, un robot deve operare alla quinta dimensione. All’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dove sperimentiamo molte cose innovative, alcuni robot sono da tempo utilizzati per la produzione di farmaci e si limitano a trasformare bit di informazioni tratte dal paziente in molecole necessarie alla cura.

Robot sanitari: dal farmaco all’assistenza

I robot ‘sanitari’, quindi, non sono altro che l’ultima soluzione tecnologica di un complesso processo che trasforma prima un input emozionale – necessariamente emozionale come tutte le manifestazioni umane di sofferenza – in un’informazione medica razionale (che chiamiamo scientifica); poi de-materializza questa informazione in bit (nella cartelle cliniche elettronica, nel FES, ecc.); infine materializza questi eData prima in un prodotto chimico, in consigli comportamentali, in interventi chirurgici, e infine in azioni a supporto della stessa farmacologia, chirurgia, riabilitazione e assistenza.

I robot quindi possono essere utilizzati in una vasta gamma di attività nell’ambito di una sanità interamente dematerializzata e virtualizzata. La virtualizzazione è un passaggio necessario dopo la dematerializzazione perché parte dalla necessità di ri-costruire virtualmente i corpi dotandoli di tutte le informazioni ottenute dalle visite e dalle diagnosi sullo stato di salute della persona e poi del suo ambiente sociale e fisico di riferimento, del suo ‘corpo sociale’. La generazione di robot addetti all’assistenza alle persone opererà con un alto livello di informazioni riferite a questo corpo sociale. Saranno un prodotto tecnologico necessario per un nuovo Welfare di Comunità che verrà utilizzato sotto la guida di caregiver e assistenti sociali. Inoltre diventeranno ‘nodi digitali’ di quella generazione recente di social (tematici) dedicati alla socializzazione della salute, ma di questo parleremo prossimamente.

Conosciamo già i robot in sala operatoria. Dall’ormai famoso robot Da Vinci della Surgical System agli sviluppi dell’industria tecnologica italiana con il Senhance Surgical Robotic System. Per altro Italia e Francia sono leader europei nell’utilizzo dei robot chirurgici. Al Policlinico di Bologna, non lontano da dove abito, ce n’è uno composto da quattro bracci: tre muovono bisturi o altri strumenti medici; il quarto ha una telecamera per fornire al chirurgo una rappresentazione tridimensionale dell’intervento. Con la chirurgia robotica è possibile operare in quasi tutte le zone anatomiche del corpo, con micro incisioni che permettono di ridurre i tempi di degenza. In Italia sono già operativi più di cento robot chirurgici e oltre centomila pazienti sono già stati operati, soprattutto per rimuovere tumori, in particolare alla prostata.

Un futuro di nano-robot

“Il trend del futuro” – afferma Guang-Zhong Yang, uno dei fondatori dell’Hamlyn Centre for Robotic Surgery dell’Imperial College di Londra – “è quello di robot in scala nanoscopica, specializzati su singole tipologie di intervento e che iniziano a prendere decisioni, magari reagendo ai comandi solo visivi del chirurgo”. Con gli ulteriori sviluppi dell’intelligenza artificiale, nel giro di alcuni anni potremmo infatti arrivare a robot sanitari dotati di una maggiore autonomia nell’applicazione diretta delle procedure. Resterebbe, ovviamente, il chirurgo in sala operatoria ma il suo ruolo sarebbe sempre meno manuale. Uno scenario ben presto raggiungibile con la diffusione dei software di AI, di Machine Learning e dell’Internet of Things in ambito medico.

Nella diagnostica, già micro-robot – a volte del diametro di un capello – possono esplorare il corpo umano fornendo dati e informazioni, anche predittive, con una precisione incredibile. Robot delle dimensioni di una cellula (nanorobot) possono essere introdotti nel circolo sanguigno per eliminare cellule tumorali e altre cose ancora. L’utilizzo di robot in ambito fisioterapico apre però un nuovo scenario per la diffusione di questa ‘quinta dimensione’ nel welfare assistenziale. Si è iniziato con esoscheletri e altri sistemi per la rieducazione degli arti; robot indossabili dal paziente in grado di restituire una parziale mobilità.

Robot per l’assistenza ai non autosufficienti

Il passaggio verso l’assistenza alla persona non autosufficiente e poi anche a quella fragile è iniziato. Vedremo questo robot assumere sembianze un po’ più umane mentre porta un vassoio di the con i pasticcini a un anziano immobilizzato a letto. Mi immagino che cominci ad assomigliare al primo robot che l’umanità ha conosciuto, quello fabbricato nel 1738 da Jacques de Vaucanson, un androide che suonava il flauto. Per questo motivo non appartengono solo al mondo della fantascienza le famose ‘Tre Leggi’ di Isaac Asimov riferite al mondo robotico e che possono essere così riassunte: un robot non deve far danni a un essere umano ma anche la propria esistenza (tecnologica) ha diritto di essere protetta quando l’umano sbaglia. Regole valide anche per un robot di sala operatoria!

Quando la tecnologia avanza al punto che la gente intravede le ‘creature meccaniche’ come qualcosa che non è più un giocattolo, ma nemmeno un ferro chirurgico, scattano però delle paure che medici e pazienti hanno già avuto di fronte a un personal computer. Occorre chiarire che il robot, quindi, è un’apparecchiatura artificiale che compie azioni in base a comandi programmati, a input in tempo reale ricevuti in ambito sistemico (professionista e struttura assistenziale) e ambientale (paziente e suo ambiente socio-fisico). L’autonomia del robot è quindi un processo che incrocia la potenza di calcolo, l’intelligenza artificiale e l’accesso a eData e Big Data. Soltanto così il robot può essere dotato di connessioni guidate dalla retroazione tra percezione e azione, riducendo l’area del controllo umano diretto.

Dai robot ‘non autonomi’, dalle azioni ripetitive o soltanto guidate indoor, scarsamente utilizzati in sanità, si passa quindi a quelli dotati di una certa ‘autonomia’ e indipendenza dall’intervento umano, in grado di prendere decisioni anche a fronte di eventi inaspettati. La loro programmazione richiede algoritmi costruiti con tecniche di AI, algoritmi genetici, a ‘logica sfumata’, di apprendimento automatico, a imitazione delle reti neurali. La generazione dei ‘robot autonomi’ è di grande interesse per un impiego nel welfare assistenziale e perfino sanitario. Essi infatti possono svolgere compiti in ambienti ‘non noti a priori’, inoltre, sono dotati di una certa mobilità e i più moderni arrivano ad essere perfino bipedi.

Le 4 tipologie di lavoro per i robot

Kevin Kelly, un autore che ci è caro per la sua attenzione ai comportamenti sociali, ha illustrato quattro tipologie di lavoro che i robot possono svolgere. Lavori che gli umani sono in grado di svolgere ma che i robot sanno fare meglio; lavori che gli umani non sanno svolgere, ma i robot sì; lavori che gli umani non sapevano di dover fare e infine lavori che solo gli umani potranno fare, inizialmente.

Raymond Kurzweil, notissimo inventore e scrittore statunitense, nel ‘lontano’ 2005 presentò il K-NFB Reader, un dispositivo tascabile dotato di una telecamera digitale e di un computer per aiutare persone non vedenti con la lettura di testi ad alta voce. Kurzweil è anche un teorico della cosiddetta ‘Singolarità’: un punto nel futuro dove gli avanzamenti tecnologici cominceranno ad avvenire con una tale rapidità che costringerà gli esseri umani a una problematica rincorsa per non essere “tagliati fuori dal ciclo”.

Kurzweil, come metafora di questo concetto, ha dato vita a una letteratura ricca di mondi fantascientifici. Ma in realtà questo mondo, da lui descritto con enfasi, è già tra noi al tempo del COVID e forse da diversi anni. È la società italiana e occidentale, disarticolata nella vita di tutti i giorni da un welfare state in profonda crisi finanziaria, culturale, politica e, con il Coronavirus, anche medica.

In Italia ci sono dieci milioni di persone molto anziane che forse vivranno a lungo, ma probabilmente non bene e di queste, tre milioni sono già ‘non autosufficienti’. Il COVID ha drammaticamente aggravato lo scenario. Tuttavia le ‘Intelligenze Artificiali Auto-miglioranti’ – una delle idee di Kurzweil – dove ogni nuovo progresso rende possibili diversi progressi di livello più elevato, è qualcosa che oggi sappiamo possibile e indicizzabile verso una nuova forma di stato sociale post-COVID. Internet e il web fanno già parte di questa storia. Come del resto il Progetto Genoma Umano e i possibili sviluppi del Fascicolo Sanitario Elettronico del cittadino. I robot di ultima generazione sono dietro l’angolo, in fila. Aspettano un segnale e sono pronti ad entrare in campo.

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