Nel Piano Colao – finalmente! – viene evidenziato e viene considerato prioritario e strategico il requisito fondamentale per ogni sistema sanitario: rendere disponibili i dati dove e quando servono, per tutti gli scopi consentiti – per la cura del paziente, per l’organizzazione dei servizi nell’azienda e sul territorio, per la prevenzione e per la ricerca.
Disponibilità da cui, adesso, siamo molto lontani, con i dati che sono frammentati – anche all’interno delle stesse aziende – fra decine (se non centinaia) di basi dati diverse spesso inaccessibili, proprietarie e non in grado di condividere informazioni
Va anche osservato come si sottolinea che i dati devono servire secondo due coordinate:
- La cura e l’assistenza del paziente, disponendo del suo quadro clinico/sanitario completo, comprensivo dei dati provenienti da tutte le diverse fonti e visualizzato secondo le esigenze specifiche del singolo processo (variabile quindi caso per caso)
- La gestione dei servizi e dei processi dell’organizzazione (locale o territoriale)
Non è quindi sufficiente la sola implementazione e gestione di una “cartella clinica” (o fascicolo sanitario) individuale, per quanto completa ed integrata possa essere. In questo caso ad essere supportato è il singolo atto medico/assistenziale, ma non potrebbero essere gestiti i processi organizzativi. Una centrale di monitoraggio territoriale per pazienti cronici dovrebbe accedere, ogni secondo, a migliaia di cartelle/fascicoli per ricercare e visualizzare eventuali dati di allarme. Una lista di lavoro di sala operatoria necessita di dati clinici di tutti i pazienti in lista (ad esempio le infezioni) per poter definire ed ottimizzare l’ordine degli interventi nel programma giornaliero.
Accanto a questo, i dati devono essere integrati e pseudonimizzati, per consentire -nel rispetto della protezione- le analisi complessive per finalità di ricerca e prevenzione (screening).
Tutto questo deve essere però raggiunto tenendo conto della situazione esistente, mantenendo i sistemi e le applicazioni che già ci sono e che tendono sempre più ad aumentare con l’evoluzione dei modelli assistenziali e delle possibilità tecnologiche. IDC stima in 2.300 exabyte il volume dei dati sanitari nel 2020, con un incremento del 48% l’anno (da circa 10 anni), di cui il 16% proviene da dispositivi (compresa IoT, wearables, misuratori gestiti dai pazienti).
Viene inoltre ribadita l’importanza della telemedicina, per assicurare un supporto a distanza ai pazienti, limitando gli spostamenti e eseguendoli costantemente “a casa” sul territorio. E questo non può diventare causa di ulteriori applicazioni isolate, con le conseguenti frammentazioni, disomogeneità e inaccessibilità dei dati, confliggendo quindi con l’altro principale requisito.
Il fattore tempo
Il fattore tempo, si è visto ancora di più in questa emergenza, è un aspetto essenziale. Ci sono voluti circa 20 anni per arrivare ad un fascicolo sanitario, ancora molto incompleto, disomogeneo e formato in massima parte da documenti PDF non consultabili in forma automatica. L’implementazione di una struttura più dettagliata ne potrebbe comportare altrettanti.
La strategia migliore può essere individuata partendo “dal basso” ovvero concentrando l’attenzione sui dati stessi, che rappresentano -in tutti i settori di business- l’unico fattore stabile nel tempo: “le tecnologie cambiano, i dati restano”. Ottenendo subito risultati utilizzabili e validi e procedendo gradualmente, passo dopo passo ad ulteriori forme di integrazione, capitalizzando sui risultati man mano raggiunti ed aggiornando le tecnologie secondo le esigenze e l’evoluzione del mercato,
Non a caso il “Quadro europeo di interoperabilità -Strategia di attuazione” del 23.3.2017 ([1]) Bruxelles, 23.3.2017 COM(2017) prescrive che “tutti i dati pubblici dovrebbero essere liberamente accessibili per l’utilizzo e il riutilizzo da parte di terzi” e che “Le pubbliche amministrazioni devono rendere l’accesso e il riutilizzo dei loro servizi pubblici e dati indipendente da qualsiasi tecnologia o prodotto specifici”.
Va poi anche ricordata la Delibera numero 950 del 13 settembre 2017 dell’Autorità Anti corruzione che, per superare il rischio di lock-in, prescrive che “le pubbliche amministrazioni mantengano il controllo e, soprattutto, la proprietà, sui dati…comunque assicurandosi che (i dati siano) facilmente replicabili con strumenti non proprietari.”
Senza voler considerare il rischio che queste strategie si trasformino solo in guerre commerciali, non va comunque sottovalutato il fatto che lo studio e l’implementazione di gare complesse e di portata nazionale comporterebbero costi e soprattutto tempi inaccettabili, dalla fase di pubblicazione, aggiudicazione, implementazione ed integrazione con i sistemi esistenti. A quel momento le soluzioni non sarebbero più adeguate alle reali esigenze, come è avvenuto per il FSE.
Un Clinical Data Repository open source per la gestione dei dati
Da decenni, a fronte della volontà aziendale di disporre di informazioni amministrative complete e coerenti per consentire analisi economiche e controllo di gestione, è stato implementato datawarehouse.
Una strategia analoga si può seguire adesso per la gestione dei dati sanitari, partendo dalle singole aziende ed implementando un Clinical Data Repository (CDR) nel quale integrare i dati sanitari ed organizzativi dei pazienti gestiti dalle varie applicazioni. La struttura del CDR deve essere “open source” e di proprietà dell’azienda, e non una “scatola nera” acquistata da un fornitore.
Se questa struttura risponde poi ad uno standard e/o ad un modello dati definito centralmente, si ottiene poi l’ulteriore vantaggio di consentire la condivisione di dati omogenei fra diverse aziende, a livello territoriale, regionale e nazionale. È necessaria, ed è sufficiente, una chiara e dettagliata definizione del modello dei dati, definita a livello nazionale, secondo la quale ogni azienda poi possa procedere autonomamente secondo le proprie strategie e scelte tecnologiche. Esistono standard in questo senso (es. lo standard internazionale ISO 12967 e la specifica HL7 FIHR) che possono costituire il punto di partenza per definire rapidamente un modello dati comune, estendibile e non proprietario.
Questo permette di avere un insieme di dati integrati ed operativi, utilizzabili in modo affidabile e con prestazioni adeguate nell’ambito dei vari processi, a supporto dei nuovi sviluppi che si baseranno e potranno contare sul patrimonio informativo integrato.
Il CDR deve essere collegato con il FSE, che dovrebbe evolversi -con gli inevitabili tempi e difficoltà- verso una struttura più dettagliata, completa e consultabile anche automaticamente per indagare in profondità sullo stato del singolo paziente dagli attori che collaborano sul territorio nel percorso di cura del paziente.
Organizzato opportunamente, il CDR può costituire anche la fonte per i dati psudonomizzati sui quali effettuare -nel rispetto delle regole- le attività di ricerca, prevenzione e statistica, formalizzando le procedure tecnico-organizzative necessarie per l’eventuale identificazione del paziente qualora le analisi effettuate ne evidenzino la necessità.
La telemedicina oltre la pandemia
Per quanto riguarda la telemedicina (televisita, teleconsulto ed anche telemonitoraggio) questi mesi hanno dimostrato come sia possibile assicurare cure ed assistenza ai pazienti a distanza, anche facendo uso di quegli strumenti comuni, diffusi e gratuiti ormai largamente disponibili, e che assicurino le necessarie garanzie di sicurezza e protezione dei dati personali.
Nel numero 10 del 5 giugno del rapporto ALTEMS “Instant Report Covid-19” sono state individuate 160 iniziative di telemedicina avviate dall’inizio di marzo dalle varie aziende sanitarie. Oltre i due terzi sono rivolte alla cura dei pazienti ordinari, ed in massima parte sono relative a televisite con l’uso di piattaforme standard e disponibili.
Anche per questo obiettivo, il fattore tempo è un aspetto fondamentale, specialmente se si tiene anche conto dei problemi che si avranno nella “Fase 2”, sia organizzativi che -soprattutto- in termini di salute dei pazienti, come evidenziato già da molte società scientifiche. Oltre al recupero di tutte le prestazioni che sono state sospese in questi tre mesi -che in molti casi ha determinato anche un peggioramento delle condizioni del paziente-, sarà anche necessario rispettare le misure di protezione prescritte, che comporteranno quasi un raddoppio dei tempi di erogazione delle visite in presenza, con la conseguente riduzione delle capacità di offerta delle aziende sanitarie e della possibilità di accesso alle cure da parte dei pazienti.
Piattaforme specializzate possono sicuramente costruire strumenti validi ed utili, purché siano accompagnate da una strategia per la condivisione dei dati, evitando ulteriori frammentazioni ed incompatibilità. Richiedono però tempi di progettazione, di procurement, di implementazione e di adozione. Inoltre, se non opportunamente disegnate e manutenute in termini di apertura, flessibilità e scalabilità possono diventare facilmente un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi, oltre che fattori di dipendenza da singoli fornitori e di limitazione delle possibilità di crescita e di autonomia delle aziende, sia gradi che piccole.
Bisogna pensare che la “telemedicina” non è una cosa diversa dalla “medicina”. Sistemi informatici non possono imporre modelli organizzativi diversi e separati da quelli in presenza, unici e rigidi, né a livello aziendale, né a livello regionale. Come per qualunque altra applicazione sanitaria, devono piuttosto basarsi sulle esigenze organizzative della singola azienda, sia dal punto di vista organizzativo che clinico-assistenziale nelle diverse patologie, in modo da integrarsi nella struttura, senza richiedere overhead di lavoro e strutture/personale diverso e dedicato. In altre parole, un ambulatorio non deve essere costretto ad organizzarsi ed a consultare due liste di lavoro giornaliere separate, una delle visite in presenza ed una per quelle in telemedicina, magari incoerenti fra loro e con i conseguenti problemi in caso di variazione e/o di esigenze contingenti.
Anche qui la strategia può essere individuata partendo “dal basso”, analizzando i processi esistenti sotto il profilo sanitario, organizzativo e amministrativo, e definendo se/come gli stessi processi possono essere eseguiti nelle fasi, sostituendo le interazioni in presenza con i pazienti con interazioni a distanza mediante una piattaforma di comunicazione. Il tutto continuando a fare uso degli strumenti informatici (cartelle cliniche, CUP, sistemi di programmazione, procedure di interazione fra i servizi, etc.) già in uso.
Il tutto selezionando opportunamente gli strumenti tecnologici di comunicazione con il paziente, in funzione di criteri di sicurezza ed apertura, e definendo le procedure -tecnologiche ed organizzative- necessarie per assicurare la continuità dei processi e la protezione dei dati personali, in termini di misure tecnologiche ed organizzative, esattamente come prescrive il Regolamento UE 2016/679 già nell’Articolo 1.
Questi mesi sono serviti anche per verificare la validità di questo approccio, come discusso nel recente articolo “L’esperienza sul campo” su Agendadigitale.eu il 6 maggio scorso, a seguito dell’analisi di indicatori di efficienza, validità e gradimento da parte del paziente di oltre 700 prestazioni erogate in due settimane secondo questi criteri, facendo uso di piattaforme comuni, libere e già conosciute anche dai pazienti.
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