Scienza aperta

Sanità, come l’Italia tradisce la ricerca aperta (nonostante le norme)

La  legge 112/2013 dispone l’accesso aperto agli articoli scientifici, prodotti almeno al 50% con fondi pubblici, entro 18 mesi o da agenzie erogatrici di fondi come Telethon o Wellcome Trust.  Ma, allo stato attuale, tale legge non risulta affatto applicata

Pubblicato il 25 Ago 2017

Gaetana Cognetti

Biblioteca Digitale Centro di conoscenza “Riccardo Maceratini” e Biblioteca del Paziente – Istituto Regina Elena

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Una delle problematiche di grande rilevanza, oggi, è quella dell’accesso aperto alle informazioni scientifiche. Il movimento della cosiddetta “Scienza Aperta” promuove la visione “etica”, fondamentale per l’avanzamento della ricerca, che impegna a rendere di pubblico dominio la documentazione, in particolare quella prodotta con uso di fondi pubblici. Ma non solo, anche i dati della ricerca, che consentono, tra l’altro, la verifica della qualità degli studi, dovrebbero essere accessibili a tutti.  Il loro “riuso” permetterebbe alla scienza di procedere a partire dalle scoperte già effettuate, senza restrizioni dovute a diritti editoriali o altre barriere, garantendone soprattutto la visibilità con il deposito in archivi digitali aperti e salvaguardandone naturalmente la paternità intellettuale,

Qual è la situazione in Italia?

La Legge 112/2013 dispone l’accesso aperto agli articoli scientifici, prodotti almeno al 50% con fondi pubblici, entro 18 mesi, molto più tempo dei sei mesi disposti dalla Unione Europea o in USA, o da agenzie erogatrici di fondi come Telethon o Wellcome Trust.  Ma, allo stato attuale, tale legge non risulta affatto applicata.

Nel 2016, in Italia è stato condotto il primo studio sull’accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche che ha coinvolto i 60 istituti di ricerca del Servizio Sanitario Nazionale. La metà delle istituzioni (30) ha risposto. Solo due istituzioni hanno dichiarato di aver emanato politiche relative all’accesso aperto. La produzione di articoli ad accesso aperto in riviste con Impact Factor era pari al 19.4%, nel 2014 (solo 15 istituzioni hanno risposto a questa parte del questionario).

In più, solo 7 istituzioni hanno dichiarato di aver pubblicato articoli in riviste tradizionali (ibride) pagando per garantire l’accesso aperto (circa il 7.6% degli articoli con Impact Factor prodotti dalle stesse istituzioni).

Sommando le percentuali fornite dal campione con un piccolo arrotondamento, presumibilmente circa il 30% della produzione nazionale di articoli potrebbe essere aggregata in un deposito digitale per renderla meglio fruibile.  Purtroppo non c’è alcuna direttiva a livello nazionale per il deposito e l’accesso di tali articoli, come invece avviene in USA e in Europa dove rispettivamente PubMed Central e Europe PMC sono alcune delle infrastrutture deputate a ricevere e rendere accessibile la documentazione prodotta in ambito biomedico, frutto della ricerca finanziata con fondi pubblici.

Per quanto riguarda i dati della ricerca, pur in presenza di regolamenti e direttive a livello internazionale ed europeo, non si registra ancora in Italia una grande attenzione. La problematica è particolarmente densa di aspetti etici nel settore sanitario in cui l’accesso alle informazioni e ai dati della ricerca è “vitale”.

L’Unione Europea ha definito le linee guida per l’accesso aperto alle pubblicazioni e ai dati della ricerca con riferimento al programma Horizon 2020. L’ acronimo FAIR identifica le 4 caratteristiche che dovrebbero avere i dati della ricerca. Dovrebbero essere cioè: Findable (reperibili) Accessible (accessibili) Interoperable (interoperabili) Reusable (riutilizzabili).

A seguito della prima indagine già citata,  Bibliosan  la rete delle biblioteche di ricerca dell’SSN,  ha costituito il  gruppo di lavoro Bibliosan per la Scienza Aperta (BISA) che, nel 2017, ha prodotto una indagine sulla gestione dei dati della ricerca rivolgendo un questionario ai ricercatori dei 60 istituti di ricerca.  Le risposte sono state 2.433, provenienti da 58 istituti (tasso risposta 15,5%). Ciò che è emerso è un quadro drammatico. Manca in generale una politica per la gestione, l’accesso, la preservazione dei dati della ricerca, affidati per lo più al singolo ricercatore che spesso li salva solo sulla propria postazione di lavoro (33,2%) o su un dispositivo USB (20,11%) o su una unità esterna (disco rigido 15,31% – CD DVD 2,18%).  Il 7,37% salva su un’applicazione cloud e solo il 2,82% su un archivio istituzionale. Non ci si stupisce del fatto che molti abbiano dichiarato perdita dei dati per cancellazione accidentale o per altri motivi (guasto, furto, virus informatico, cattivo funzionamento del server ecc.).   L’ accesso per gli altri ricercatori risulta avvenire spesso tramite email (20,81%) o tramite pen drive (20,73%), oppure non è consentito (14,45%). Il responsabile della conservazione dei dati è nel 52% dei casi lo stesso ricercatore.

Insomma il settore sanitario della ricerca sembrerebbe un gigante dai piedi di argilla ove anche la semplice conservazione e preservazione dei dati, per non parlare dell’accesso e dell’interoperabilità che richiederebbero l’uso di metadata standard, è demandato ai singoli senza un alcun piano di gestione (Data Management Plan).

In conclusione, in Italia, oltre a restare inattuata la legge 112/2013, non vi sono norme o direttive per la gestione dei dati clinici e di ricerca nel SSN. Ciò espone il nostro paese, che resta comunque molto vitale per la ricerca e l’innovatività, al rischio di disperdere le conoscenze scientifiche prodotte e di non poterle adeguatamente diffondere, scambiare e condividere per garantire la salvezza di vite umane, fine ultimo delle attività di studio prodotte in ambito biomedico.

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