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Sanità, i 5 punti essenziali per una rinascita italiana

La sanità italiana, un tempo tra le migliori al mondo, è afflitta oggi da alti livelli di disomogeneità e inefficienza che ne rendono ardua la sostenibilità. Nuovi equilibri sarebbero possibili anche grazie al digitale, ma il confronto elettorale ha reso chiaro che la politica ignora la posta in gioco economica e sociale

Pubblicato il 06 Mar 2018

Mariano Corso

Presidente P4I e membro del Board Scientifico Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano

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Sul futuro del Sistema Sanitario Italiano avrebbe dovuto concentrarsi una parte importante del dibattito elettorale. Non è successo. L’unico elemento che ha catalizzato l’attenzione dei media è stato l’obbligo dei vaccini. Un dibattito quest’ultimo che, per come è stato portato avanti e strumentalizzato da più parti politiche, risulta francamente non solo ascientifico, ma surreale e indegno di un Paese civile.

Eppure la sanità rappresenta uno dei temi dal quale dipenderanno non soltanto la tenuta dei conti pubblici, ma anche una parte rilevante dello sviluppo economico e dell’occupazione nel nostro Paese. Ancora di più la sanità è il terreno sul quale si dovrà misurare la stessa nostra idea di Stato e società civile.

Sanità italiana, cinque punti per una rinascita

Le questioni da discutere riguardo al futuro della sanità sono molte e tra loro profondamente correlate ma possono, a mio parere, essere ricondotte a cinque punti essenziali:

  • Sostenibilità ed efficienza. L’Italia spende in sanità circa 150 miliardi di Euro l’anno. Una cifra apparentemente enorme, ma in realtà moderata in rapporto al PIL: la spesa sanitaria infatti rappresenta “appena” l’8,9% del reddito nazionale, una percentuale decisamente inferiore a quella di altri Paesi come Germania (11,3%), Francia (11%) e Regno unito (9,7%). Ciascun abitante in Italia spende per la Salute 3.077 USD PPP, contro i 3.453 della media europea e i 4.819 della Germania. Queste cifre, tuttavia, sono destinate ad aumentare radicalmente nei prossimi anni per effetto dell’invecchiamento demografico. Con il 21,4% dei cittadini over 65 e il 6,4% over 80, infatti, l’Italia è il Paese più vecchio in Europa, e si posiziona al secondo posto nel mondo, preceduto solo dal Giappone. La bassa natalità è destinata a peggiorare la situazione: si prevede che nel 2080 gli anziani sopra i 65 anni saranno il 31,3% della popolazione, mentre gli ultraottantenni raggiungeranno quota 13,3%. A ciò si aggiunga che i nostri anziani non sono poi così tanto in salute: l’aspettativa di vita in buona salute all’età di 65 anni in Italia è tra le più basse nei paesi OCSE, con 7 anni senza disabilità per le donne e circa 8 anni per gli uomini. Quali che siano le politiche di finanza pubblica, quindi, la spesa sanitaria reale, quella cioè a carico della collettività nel suo insieme, è destinata a crescere. Se non si pongono da subito adeguate contromisure la domanda di cura è destinata ad esplodere a livelli che metteranno a rischio non soltanto i conti pubblici, ma la tenuta sociale stessa del Paese.

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  • Qualità e livello di servizio. L’Italia ha avuto quello che è stato per anni considerato uno dei migliori sistemi sanitari al mondo. Nel 2000 la WHO classificava il sistema sanitario italiano come uno dei migliori al mondo. Ancora oggi l’Italia secondo, una recente classifica stilata da Bloomberg, è il Paese con il livello di salute più alto al mondo. Un patrimonio di civiltà, attrattività e sviluppo economico che, senza una politica industriale e dell’innovazione adeguata, rischiamo oggi di dissipare. Il declino della qualità del nostro sistema sanitario è ad un livello che già oggi rischia di minare il senso di sicurezza e fiducia da parte dei cittadini e in ultima analisi l’attrattività stessa del nostro Paese: secondo l’ultimo rapporto Euro Health Consumer Index dal 2010 al 2015 l’Italia è passata dal 15° al 22° posto delle 34 nazioni censite a livello europeo, siamo in particolare tra i peggiori Paesi per l’accessibilità ai servizi e i tempi di attesa, per gestione dei pazienti anziani sul territorio e per possibilità di offrire cure di nuova generazione. Nel 2015 per la prima volta il rapporto “Osservasalute” denuncia una riduzione della speranza di vita rispetto al 2014.
  • Universalità ed equità. Il nostro sistema sanitario universalistico è stato per anni segno di civiltà e fiore all’occhiello del nostro Stato sociale. La stessa Costituzione italiana all’art. 32 afferma che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti…”. Il diritto alla salute è quindi sancito come diritto fondamentale dell’individuo, ma quale livello di qualità della cura riusciamo oggi a garantire nella sanità pubblica? La spesa sanitaria “out of pocket”, ossia quella non coperta dal servizio pubblico ma a carico delle famiglie, ammonta già oggi a circa 30 Miliardi su una spesa sanitaria totale nazionale stimabile in 150 Miliardi l’anno. Esistono inoltre costi nascosti, difficili da quantificare ma non per questo meno preoccupanti, legati ad oneri di assistenza impropriamente scaricati sulle famiglie e a un fenomeno crescente di “povertà sanitaria” che porta fasce sempre più ampie di popolazione a rinunciare a curarsi: la ricerca condotta “Bilancio di sostenibilità del Welfare italiano” condotta dal Censis mette in luce come nel 41,7% dei nuclei familiari, almeno una persona ha rinunciato nell’ultimo anno alle prestazioni sanitarie a causa delle lunghe liste d’attesa della sanità pubblica e dei costi elevati di quella privata. Se, come risulta da stime recenti, la spesa sanitaria nazionale dovesse salire in pochi anni a 200 Miliardi, una larga parte degli ulteriori 50 Miliardi necessari potrebbe essere a carico delle famiglie, molte delle quali, anche nel cosiddetto ceto medio, si troverebbero nella sostanziale impossibilità di accedere alle cure producendo fenomeni preoccupanti di esclusione e degrado sociale indegni di un Paese come il nostro.
  • Governance e livello di centralizzazione. In Italia non esiste un “Sistema Sanitario Nazionale” bensì 21 “Sistemi Sanitari” diversi, uno per ogni Regione o Provincia Autonoma, che si sono dati modelli organizzativi e di governance fortemente disomogenei. Una scelta, sancita dal Titolo V della Costituzione, che ha portato all’emergere di livelli di inefficienza, non integrazione e disparità nel trattamento dei cittadini, oggi difficilmente accettabili. Un assetto che ha svuotato di poteri il Ministero della Salute e che rende anche molto più complessa l’attuazione di quelle misure di riforma e innovazione digitale indispensabili a modernizzare e rendere efficiente e sostenibile il sistema. Fallito il tentativo di riforma istituzionale, sono le stesse Regioni che si trovano oggi a dover cercare modalità di integrazione e condivisione di standard e best practice. Un percorso che fortunatamente appare a tutti sempre più necessario, ma che è reso difficile dalle discontinuità e contrapposizioni politiche tra le diverse Regioni e tra queste e gli enti centrali.
  • Innovazione digitale e ripensamento dei modelli di cura: L’innovazione tecnologica, ed in particolare quella digitale, rappresenta una delle chiavi fondamentali, forse l’unica, per trovare nuovi equilibri che rendano più sostenibile il sistema di cura. Applicazioni come la Cartella Clinica Elettronica, il Fascicolo Sanitario Elettronico e la Telemedicina, consentono non solo di rendere più efficienti le aziende ospedaliere, ma anche di spostare la cura verso il territorio e fare empowerment sul paziente. Con gli sviluppi delle applicazioni dei Big Data e dell’Artificial Intelligence, sarà possibile supportare le decisioni cliniche, migliorando l’appropriatezza ed evitando sprechi e possibili abusi. Eppure, nonostante l’apparente consapevolezza e la priorità affermata nel “Patto per la Sanità Digitale” e nel “Piano Nazionale della Cronicità”, la spesa reale in digitale continua a scendere. Per la sanità digitale spendiamo circa 21 Euro ad abitante, contro i 40 Euro della Francia, i 60 dell’Inghilterra e addirittura i 70 della Danimarca! Un gap di digitalizzazione che dovremmo cercare di colmare e che invece cresce: nell’ultimo anno abbiamo avuto un ulteriore calo del 5% attestandoci ad un livello di spesa digitale inferiore rispetto al 2011. Eppure dal 2011 ad oggi il mondo è cambiato, e lo ha fatto svoltando in chiave digitale. È cambiato il mondo ma, a quanto pare, non la Sanità italiana! Finito il tempo dei piani e delle promesse, è ora che i vari attori del sistema sanitario, collaborando tra di loro e con il mondo dell’offerta, mettano finalmente a terra quelle iniziative che consentiranno alla sanità di attuare quel rinnovamento organizzativo e tecnologico indispensabile alla modernizzazione e alla sopravvivenza stessa del sistema sanitario.

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I rischi di una sanità non adeguatamente tutelata

Osservando l’assordante assenza di dibattito su questi temi ci si chiede come sia possibile non rendersi conto della loro urgenza e centralità. Si tratta di sfide epocali che avrebbero meritato un dibattito competente, equilibrato e libero da pregiudizi. Tutte caratteristiche che il confronto elettorale non ha avuto. A parole nessuno afferma che la Sanità non sia importante, ma manca ancora quel senso di urgenza che dovrebbe derivare dal riconoscimento dell’importanza della posta in gioco.

Perché la Sanità non è soltanto un servizio fondamentale per i cittadini, ma anche un settore economico fondamentale in grado di influenzare lo sviluppo del sistema Paese. La White Economy, ossia la filiera delle attività rivolte alla salute che comprendono l’indotto a monte e a valle ha ormai raggiunto un valore di 290 miliardi di euro, corrispondente al 9,4% del PIL nazionale e impiega 3,8 milioni, pari al 16,5% degli occupati del Paese. Il sistema sanitario, meriterebbe di essere urgentemente tutelato e sviluppato con politiche industriali, fiscali, educative e di innovazione adeguate. Il rischio, invece, è che il nuovo Ministro della Salute, chiunque esso sia e quale che sia il suo schieramento, finisca per non avere le leve economiche e organizzative né il mandato istituzionale per intervenire con la forza e l’urgenza che la posta in palio richiederebbe.

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