LO SCENARIO

Sanità digitale alla svolta “Value Based”: i vantaggi e le sfide etiche

In via di affermazione modelli innovativi basati sul valore, che puntano a migliorare gli esiti di salute dei pazienti contenendo le risorse. Ma che aprono anche a scelte morali su cui vale la pena interrogarsi. Un’analisi delle proposte in campo e delle relative implicazioni

Pubblicato il 22 Apr 2019

Giuliano Pozza

Chief Information Officer at Università Cattolica del Sacro Cuore

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Sarà la Sanità digitale – ma “value based” – ad affrontare un cambio di passo nella governance. I sistemi occidentali stanno affrontando profonde trasformazioni in risposta a fattori socio-economici che mettono in crisi il modello attuale di assistenza.

Emergono strategie innovative a forte vocazione tecnologica, come la Value Based HealthCare, che definisce percorsi basati sul valore: l’obiettivo è la restituzione di centralità al paziente contenendo le risorse. Si tratta però di modelli che pongono interrogativi etici sfidanti. Ecco un’analisi delle proposte in campo: potenzialità e limiti.

Il nostro sistema sanitario, così come lo conosciamo, è destinato a scomparire, o per lo meno a cambiare radicalmente. Non è un’affermazione gratuitamente apocalittica e nemmeno necessariamente una cattiva notizia: semplicemente il sistema di welfare europeo ed italiano dovrà essere riformato in modo strutturale per non implodere sotto il peso delle cronicità e dell’invecchiamento della popolazione, ma se lo farà, riuscirà ad accogliere i nuovi bisogni con cui ci confrontiamo.

Non mi interessa qui presentare statistiche a supporto di queste affermazioni: potete trovare tanti studi seri accessibili anche su internet, tra cui il classico rapporto GIMBE[1] sulla “Sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale”. Vorrei invece soffermarmi su alcune proposte (ovviamente non mie, prenderò al solito in prestito idee da alcune delle menti più lucide tra quelle che hanno affrontato il problema), per uscire da quest’impasse.

Le proposte di cui parleremo ruotano tutte intorno al concetto di “valore” in sanità. Problema risolto quindi? Non proprio. Anche perché, a parte le difficoltà di riforma di sistemi pachidermici secondo un paradigma così radicalmente diverso da quanto abbiamo visto finora, la sanità basata sul valore evidenzia, in modo più accentuato rispetto ad oggi, i dilemmi etici e le sfide di un sistema tecno-umano così complesso.

Dagli output agli outcome

Nelle strutture sanitarie di quasi tutto il mondo, il modello prevalente di remunerazione è quello basato sulle prestazioni o su insiemi di prestazioni (episodio di cura). Nella prima fattispecie rientrano le prestazioni diagnostiche e ambulatoriali, nella seconda ad esempio i DRG che remunerano i ricoveri, ma la logica dei meccanismi di rimborso è sempre la stessa.

Ovviamente tutti i sistemi sanitari hanno introdotto dei correttivi al meccanismo, per evitare abusi: tetti di budget, indicatori di appropriatezza, misure e controlli di qualità. Correttivi che in generale, anche grazie all’etica professionale del personale sanitario e di staff delle strutture, funzionano abbastanza bene.

Il punto però è che in nessuna parte dell’equazione che descrive il meccanismo di remunerazione di una struttura sanitaria compare il valore ultimo che dà senso alle strutture che erogano servizi sanitari, ossia la salute e il benessere dei pazienti.

Quattro anni fa, durante un workshop di AISIS[2], Francesco Longo professore associato dell’Università Bocconi ci diceva: “Chi riuscirà veramente a misurare il valore, avrà trovato la chiave di volta per la sanità del futuro.

Questa frase mi è rimbalzata dentro per anni e, curiosando tra libri ed esperienze nazionali ed internazionali, ho trovato tanti modi di misurare le performance in sanità. Alcuni più sensati, altri meno. Alcuni molto orientati al valore percepito dal paziente (importante, certo, ma non sufficiente), altri più rivolti alla misura di compliance rispetto a standard, processi, procedure (pensiamo a Joint Commission).

Poi ci sono i modelli tecnologici, come ad esempio il modello EMRAM di HIMSS, per misurare la maturità dei sistemi informativi clinici, così come i modelli sulla gestione “green” dei building tipo LEED. A questi si aggiungono i vari modelli e progetti regionali, i KPI richiesti dalle ATS, i sistemi qualità interni alle strutture.

Quello che mi sono sempre chiesto è se questi modelli di misura siano o meno collegati a quello che è l’obiettivo finale, ovvero far stare meglio il paziente. Qui i pareri non sono univoci.

C’è ad esempio un interessante studio che nasce nell’ambito della Harvard University,[3] che mostra come l’accreditamento secondo Joint Commission non appaia essere legato a una variazione statisticamente significativa rispetto alla mortalità e ad altri parametri di misura degli esiti clinici.

Un altro esempio interessante sono gli studi di HIMSS per analizzare il legame tra un livello di maturità maggiore nei sistemi informativi clinici e una miglior qualità della cura[4]. Anche in questo caso, i risultati sono “variegati”: rispetto ad alcuni parametri (efficientamento dei processi, diminuzione errori clinici e ricoveri ripetuti), certamente il legame positivo c’è. Rispetto ad altri (tempestività della cura, esperienza del paziente), addirittura in alcuni casi sembra esservi una correlazione negativa tra indicatori di performance e digitalizzazione dei processi clinici.

Ovviamente questo non significa che i modelli citati, JCI e EMRAM, non siano validi: li ho presi ad esempio proprio perché, a mio parere, sono tra i migliori che abbiamo a disposizione. Michael Porter[5] però direbbe che stiamo sbagliando su almeno due fronti: innanzitutto abbiamo un modello di remunerazione e di incentivazione che premia le attività (output) e non i risultati (outcome). Inoltre, nei nostri processi di miglioramento e di innovazione, stiamo misurando le cose sbagliate e non stiamo competendo al livello corretto. Vediamo perché.

I modelli basati sul valore

Prima di introdurre i modelli basati sul valore più conosciuti, ossia quello di Porter e il Triple Aim, partiamo da uno strumento molto usato soprattutto nei Paesi anglosassoni, che è l’Analisi Costi-Efficacia[6] (CEA) e che ci verrà comodo per le considerazioni finali sui dilemmi etici.

Rispetto alla più famosa (soprattutto di questi tempi) Analisi Costi-Benefici, ha la caratteristica di non ridurre tutto ad aspetti monetari. Infatti confronta misure disomogenee, ossia degli indicatori di efficacia con dei costi. L’obiettivo è supportare la scelta tra innovazioni o trattamenti alternativi confrontando il rapporto tra efficacia e costo per “unità di miglioramento”.

Un tipo particolare di CEA è l’analisi costo-utilità, che confronta gli impatti economici di una scelta con i QALY (Quality Adjusted Life Year). Ecco, i QALY sono un concetto interessante. La formula base è #QALY = (Anni di vita) x (misura qualità della vita). Quindi se una terapia mi allunga la vita di 5 anni, ma con una qualità (in una scala da 0 a 1) di 0.4, questo equivale a 2 QALY. Senza entrare nel merito di come si valuta la qualità della vita, l’approccio di Analisi costo-utilità permette di produrre dei grafici interessanti come quello sotto riportato:

Nel quadrante 3 ci sono gli interventi che allungano la vita e riducono i costi: da realizzare senz’altro! Nel quadrante 1 quelli che aumentano i costi riducendo l’aspettativa di vita, quindi da non fare assolutamente. Dei quadranti 2 e 4 parleremo più avanti, perché qui la situazione si complica un po’.

Un concetto simile è stato usato da Porter, il padre della Value Based Healthcare, che nei suoi articoli e poi nel famoso libro “Redefining Healthcare” scritto con Elizabeth Olmsted  Teisberg propose la famosa formula:

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Rispetto alla CEA e all’analisi costo-utilità ci sono alcune differenze. Innanzitutto gli outcome sono definiti come i risultati misurati dal punto di vista del paziente. Inoltre la misura non è puntuale, ma deve avvenire lungo tutto il corso della condizione clinica. I principi della Value Based Healthcare “alla Porter” sono:

  1. Focalizzazione sul valore, non sui costi
  2. Competizione basata sui risultati
  3. Competizione centrata sull’intero ciclo della patologia
  4. La sanità di alta qualità è meno costosa
  5. Il valore è strettamente legato all’esperienza, le dimensioni e la specializzazione in una certa condizione clinica del provider
  6. La competizione deve essere regionale o nazionale, non locale
  7. Le informazioni sui risultati (outcome) devono essere largamente disponibili
  8. Le innovazioni che creano valore devono essere fortemente incentivate.

Come si vede, le parole chiave del modello di Porter sono valore, costi, risultati e competizione.

Su quest’ultimo termine si sono focalizzate alcune critiche al modello.

Infatti, sempre negli Stati Uniti, è stato proposto dall’Institute for Healthcare Improvement (IHI) un modello diverso e più orientato alla collaborazione chiamato Triple Aim[7]. Secondo questo modello, è necessario adottare un approccio collaborativo tra i diversi stakeholder della sanità per perseguire tre obiettivi:

  • Miglioramento dell’esperienza di cura dei pazienti
  • Miglioramento della salute a livello di popolazione
  • Riduzione dei costi della sanità.

I due approcci, Value Based Healthcare di Porter e Triple Aim di IHI, si differenziano fondamentalmente per il focus, il meccanismo di diffusione e il metodo di miglioramento[8]:

Tutti questi modelli comunque ci conducono da un approccio in cui la remunerazione è basata sugli output, a sistemi di pagamento legati in modo diverso agli outcome e al valore (P4P o Pay for Performance). Va detto però che questo passaggio non è sempre indolore ed efficace come si penserebbe, come evidenziato in diversi studi[9].

Se guardiamo al contesto internazionale, il concetto della Value Based Healthcare si sta diffondendo in modo disomogeneo. Ci sono alcuni paesi che stanno già percorrendo da anni questa strada, altri che arrancano, molti che non hanno ancora neppure iniziato, come evidenziato dal recente report commissionato da Medtronic,[10] da cui è estratta la mappa seguente.

In particolare Svezia, Olanda e UK sono tra i Paesi in cui la VBHC ha prodotto i risultati più significativi.

In tutto questo ragionamento sui modelli teorici e di valore, non ci dobbiamo dimenticare che la misurazione puntuale di outcome e di costi richiede, come condizione irrinunciabile, la presenza di piattaforme tecnologiche di digital health che abilitino la raccolta e l’analisi dei dati.

Porter mette le “Enabling Information Technology Platforms” tra i sei punti della sua Strategic Agenda per la VBHC. Non entriamo qui nei dettagli per mancanza di tempo, ma vi rimando al prossimo Digital Health Summit del 9-10-11 ottobre 2019 a Milano, dove parleremo proprio di Value Based Digital Health.

Dilemmi etici e limiti dei modelli basati sul valore

Non sappiamo quale dei modelli visti prevarrà, se quello della Value Based Healthcare alla “Porter” o l’impostazione meno competitiva del Triple Aim. Forse un mix delle due o altro ancora. Certo è che, come oggi nessun Paese sviluppato paga più i ricoveri valorizzando le giornate di degenze, così nel prossimo futuro (ma è già così in molte regioni italiane), nessuno pagherà più per un cronico le singole prestazioni.

L’altro aspetto interessante è che ci sarà un fiorire di innovazioni farmaceutiche, tecnologiche, di processo e organizzative. Ora nel modello di Porter l’innovazione è sempre buona in sé, perché in un modello competitivo mutuato da altri mercati, questo è un dogma incontestabile.

Ad esempio nelle telecomunicazioni, ogni innovazione può essere valutata da un’analisi costi benefici (o un’analisi costo/efficacia), che ci porta a decidere in modo non ambiguo se va implementata o no. Ma se applichiamo lo stesso metodo nell’ambito sanitario le cose si complicano non poco. Per spiegare le implicazioni, partiamo dal grafico dell’analisi costi-efficacia che abbiamo già visto (ma il discorso vale anche nel modello di Porter):

Come abbiamo già visto, i quadranti 1 e 3 sono semplici. Infatti, le innovazioni che ricadono nel quadrante uno possono essere tranquillamente scartate, perché a fronte di un costo incrementale peggiorano gli outcome misurati in QALY, ossia accorciano la vita ai pazienti.

Nello stesso modo le innovazioni del quadrante 3 vanno ovviamente perseguite, perché a fronte di un costo decrescente allungano l’aspettativa di vita dei pazienti.

Aspettativa di vita e costi della cura

Ma cosa succede nei quadranti pari, ossia il 2 e il 4? Nel quadrante 2 ci sono innovazioni che allungano l’aspettativa di vita ma aumentano i costi. Qui la domanda è: fino a quanto siamo disposti a spendere? Perché sappiamo che ci sono delle terapie geniche fantastiche, che però possono arrivare a costare anche 4-5 milioni di euro a trattamento! Quindi un paziente guarito può costare qualche milione di euro. Se volete approfondire, partite da qui che vi si apre un mondo: https://www.risingtidebio.com/what-is-gene-therapy-uses/.

Il dilemma si complica se aggiungiamo anche la variabile età (tema molto sentito ad esempio per i trapianti, altra terapia risolutiva ma molto costosa): in che condizioni ha senso somministrare terapie così costose? Che, detto altrimenti, significa: come valorizziamo un anno di vita in più?

Qualcuno avrà notato la retta che discrimina il valore di 50.000$ per QALY: è un valore convenzionale usato da molte compagnie di assicurazioni per monetizzare un anno di vita. A questo punto molti lettori si sentiranno a disagio. Ma andando avanti, scopriamo che nel quadrante 2 ad esempio, le innovazioni che stanno sopra la retta hanno un costo superiore ai 50.000 $ per anno di vita, mentre quelle sotto inferiore.

Qualunque sia il valore (50.000, 100.000… io comunque mi sento sempre a disagio nel monetizzare la vita), la logica è che le terapie che costano meno della soglia convenzionale per anno di vita vanno perseguite (quadrante 2b) quelle che costano di più no (quadrante 2a).

Nel quadrante 4 invece ci sono le terapie che “accorciano la vita” ma riducono i costi. Il ragionamento sotteso è che in alcuni casi ha senso passare dalla terapia A alla terapia B, perché peggiora la condizione del paziente, ma riduce i costi.

Pensiamo ad alcune terapie costose per pazienti terminali, che a fronte di un esborso elevato danno benefici marginali. Anche qui c’è un trade-off da valutare (fino a che livello è accettabile un peggioramento per risparmiare?) e gli aspetti etici sono ancora più inquietanti…

E ancora: è corretto investire la maggior parte delle risorse in una sanità reattiva spesso a scapito della prevenzione, che potrebbe avere un valore immenso in termini medici ma anche umani e sociali? E qual è il costo e il valore distrutto dalle disuguaglianze regionali e dall’emigrazione sanitaria? È possibile pensare ad una Value Based Healthcare anche in realtà dove mancano perfino i requisiti base di una sanità decente, siano queste strutture in paesi in via di sviluppo o ospedali abbandonati dal sistema sanitario nazionale?

Insomma credo sia evidente che, in un mondo rotondo (io ancora credo che la terra non sia piatta) e a risorse limitate, alla fine bisogna fare delle scelte. Ed è già ora così: non effettuiamo trapianti in modo indiscriminato, alcuni tipi di interventi sono preclusi oltre una certa età, o in certe condizioni.

Tuttavia fare delle scelte in sanità è diverso rispetto ad altri settori. Un conto è sapere che esiste una macchina bellissima che costa molto ma che non potrò mai permettermi (io personalmente ci convivo serenamente), altro è decidere in un sistema sanitario universalistico di non dare corso ad alcune terapie che pure esistono e potrebbero salvare la vita a noi o ai nostri figli!

Qualcuno obietterà che, come sostiene Porter, la competizione e l’innovazione aprono nuove frontiere prima impensabili: se cominciassimo a produrre artificialmente gli organi per i trapianti a basso costo, o realizzassimo anche solo in parte le promesse dell’intelligenza artificiale in medicina, come si ripromette di fare la Cina[11], questo cambierebbe le regole del gioco. O forse sposterebbe solamente l’asticella, facendo diventare i trapianti una commodity (quadrante 2 o 3).

Ci saranno però sempre nuovi trattamenti o innovazioni che ci porranno di fronte ai dilemmi etici che abbiamo visto, perché una sanità a risorse illimitate è possibile solo per un’élite piccola a piacere, mentre una sanità per tutti è by definition una sanità a risorse limitate, con tutte le implicazioni del caso.

Questo ovviamente è vero anche nel contesto attuale, basato su strutture orientate agli output e a capacità finita: le scelte etiche sono in questo caso spesso implicite o inconsapevoli (LEA parzialmente erogati, liste di attesa che si allungano…), mentre i modelli formali basati sul valore rendono esplicite delle scelte morali su cui faremmo bene ad iniziare ad interrogarci! Anche di questo parleremo al prossimo Digital Health Summit del 9-10-11 ottobre 2019 a Milano!

Note bibliografiche

  1. http://www.rapportogimbe.it/3_Rapporto_GIMBE.pdf
  2. www.aisis.it
  3. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/30337294
  4. https://www.himssanalytics.org/sites/himssanalytics/files/HIMSS%20Analytics%20HIMSS17%20-%20From%20Improved%20Data%20to%20Improved%20Outcomes.pdfehttps://www.himss.eu/sites/himsseu/files/analytics/ehealth-trend/EMRAM%20Performance%20Report%20HM3.pdf
  5. https://it.wikipedia.org/wiki/Michael_Porter
  6. https://it.wikipedia.org/wiki/Analisi_costi_efficacia
  7. http://www.ihi.org/Engage/Initiatives/TripleAim/Pages/default.aspx
  8. https://www.essenburgh.com/en/blog/the-3-differences-between-value-based-healthcare-and-triple-aim-that-you-need-to-know
  9. Si veda ad esempio: ““Understanding Value-Based Healthcare” di C. Morates – V. Arora – N. Shah. Ed. McGrow Hill. In particolare il capitolo 15.
  10. http://vbhcglobalassessment.eiu.com/
  11. https://medicalfuturist.com/china-digital-health

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