Che cosa è la sanità digitale? Come se ne dovrebbe parlare? Come non se ne dovrebbe parlare?
Sono tre domande legittime. Riguardo la prima esistono numerose definizioni, che partono da differenti punti di vista (tecnologico, clinico, ingegneristico, metodologico, ecc). Riguardo la seconda esistono tanti tentativi, anch’essi molto dipendente dal pubblico a cui si rivolgono. Riguardo la terza, la risposta è più semplice: come ne ha parlato la trasmissione di inchiesta giornalistica Report.
I messaggi chiave della puntata di Report sulla Sanità digitale
Facciamo un passo indietro. Lunedì 3 gennaio è andata in onda una puntata di Report sulla Sanità Digitale, lanciata nei giorni precedenti da “promo” che promettevano la “proposta Report su come fermare sul nascere le pandemie del futuro”.
In estrema sintesi, questi i messaggi chiave del programma:
– l’intelligenza artificiale e il cloud ci salveranno (in futuro) da qualunque problema di tipo sanitario
– il gemello digitale rimpiazzerà il Fascicolo Sanitario Elettronico
– gli strumenti digitali che raccolgono i dati fisiologici ci faranno risparmiare tempo e denaro
– la Telemedicina in Italia non esiste, esistono solo esperienze locali.
Non si è parlato di Indicazioni nazionali per l’erogazione di prestazioni di Telemedicina e di Teleriabilitazione, non si è ricordata la nuova normativa sui dispositivi medici che regolamenta tools digitali e di AI in sanità, non si è menzionato al fatto che esiste un’ampia carenza di prove di efficacia clinica (e spesso di sicurezza) in relazione a molti strumenti disponibili (compresi quelli di cui il programma si è occupato).
Si potrebbe osservare che si trattava di un servizio divulgativo che scontava la necessità di semplificazione ma che comunque evidenziava l’arretratezza dell’innovazione del nostro sistema sanitario anche rispetto al resto del mondo e l’incapacità del nostro Paese di non saper cogliere le opportunità’ che la tecnologia può’ fornire.
Ma questo non basta perché rischia di semplificare troppo un problema che per sua natura è complesso.
Strumenti tecnologicamente avanzati in sanità: un case study non fa primavera
L’introduzione di strumenti tecnologicamente avanzati non è detto che si trasformi in un miglioramento del sistema sanitario. L’esperienza americana, dove pure la tecnologia è più diffusa rispetto alla nostra situazione, è lì a testimoniarlo. Tutte le statistiche ci pongono tutt’oggi, nonostante le mille difficoltà, ai vertici della sanità mondiale.
Che l’introduzione di strumenti tecnologicamente avanzati si traduca in un miglioramento del sistema sanitario occorre dimostrarlo. Le esperienze illustrate nel programma televisivo non bastano. Si trattava in quel caso di esperimenti (uso questa parola perché sperimentazione, in ambito medico, significa tutt’altro) locali (nazionali e internazionali) che non possono essere generalizzati/generalizzabili. Non solo per questioni organizzative, ma anche per quelle normative (che riguardano la nostra sicurezza) e per quelle scientifiche. La cosa non riguarda a ben vedere solo Report. Riguarda anche molti convegni (sempre più numerosi in questo periodo) che ospitano i “case studies”, come se questi potessero rappresentare la garanzia del successo della tecnologia.
Dove sono le prove su sicurezza, affidabilità, efficacia delle tecnologie avanzate in Sanità?
Misurare l’impatto sulla salute, sui processi, condurre studi clinici per misurare la sicurezza degli strumenti tecnologici, l’efficacia (clinica), il rapporto costo/efficacia. Questo occorre fare. Governare la sanità digitale e la telemedicina significa gestire/regolamentare i dispositivi medici (a cui i sistemi di AI in sanità insieme a molti tool che favoriscono attività come il monitoraggio o la sorveglianza appartengono). La nuova direttiva entrata in vigore a maggio a livello europeo ne parla diffusamente, così come le Indicazioni nazionali per l’erogazione di prestazioni di Telemedicina e di Teleriabilitazione approvate rispettivamente nel dicembre del 2020 e nel novembre 2021. Da lì bisogna quindi partire.
Dove sono le prove? Quali a sostegno della sicurezza, affidabilità, efficacia? Quali strategie nazionali a supporto di una sanità digitale equa, accessibile a tutti e sicura? Queste sono le domande che dovremmo porci quando parliamo di sanità digitale per evitare di raccontare le solite magnificenze, fine a sé stesse, della tecnologia applicata alla sanità/salute.
Porsi questi obiettivi non significa, come qualcuno potrebbe pensare, difendere lo status quo. Si tratta invece di ottenere garanzie che gli strumenti tecnologici che si adottano siano sicuri, affidabili, efficaci. Tre parole alle quali la gente comune non è abituata, ma di fondamentale importanza soprattutto quando i costi per l’adozione di questi interventi sono a carico della collettività.
Su alcuni aspetti la letteratura scientifica (grazie a studi clinici) è concorde nell’evidenziare dei benefici. Su altri (e tra questo l’uso dell’AI) lo è meno. Per esempio, in ambito cardiologico numerose sono le evidenze scientifiche presenti in letteratura sulla sicurezza ed efficacia di alcuni strumenti digitali (monitoraggio, aderenza trattamento, riduzione pressione, ecc). Sull’AI in cardiologia invece esistono molte meno certezze.
Dal punto di vista di sanità pubblica, anziché prendere visione dei “case studies”, meglio sarebbe condurre revisioni sistematiche su Medline (il più importante database di citazioni bibliografiche contenente gli articoli scientifici pubblicati dalle maggiori riviste mediche) per vedere in quali aree mediche e per quali patologie esistono evidenze solide della loro utilità, e partire da quelle per porsi la giusta domanda: perché il nostro Sistema Sanitario Nazionale non utilizza quel genere di strumenti se le prove di sicurezza, affidabilità, efficacia clinica esistono? La stessa cosa potrebbero chiedersela i produttori di tecnologie per individuare aree nelle quali evidenze scientifiche (o addirittura strumenti tecnologici) non esistono o sono limitate/i e sulle quali investire per realizzare soluzioni che andrebbero comunque passate al vaglio della ricerca clinica.
Televisita e telemonitoraggio: tutte le cautele necessarie
Il discorso non cambia quando la tecnologia è usata per implementare servizi riguardanti la salute a distanza come la televisita o il telemonitoraggio, anche quando esiste una forte volontà (documentata da numerosi studi) da parte degli italiani ad usarli. Se si tratta di servizi, è necessario che siano sicuri (non solo dal punto di vista della privacy, ma anche da quello della “safety”, cioè la sicurezza dal punto di vista clinico). Se si tratta di monitoraggio, la normativa è chiara ed è necessario che tali strumenti siano approvati come dispositivi medici. È compito dei produttori di tecnologie dimostrare (con studi clinici) queste proprietà. Lo hanno capito i big dell’informatica come Apple, e Fitbit che infatti hanno collaborato – e collaborano tuttora – con le principali società scientifiche americane per condurre studi clinici che hanno portato a dimostrare l’efficacia clinica, anche rispetto a interventi di controllo, di alcune soluzioni digitali. E’ ora che inizino a pensarci anche le altre aziende.
I problemi organizzativi e gestionali della sanità digitale
Poi esistono i problemi organizzativi e gestionali della sanità digitale causati dalla regionalizzazione della sanità. Da sempre sostengo che questo è un grosso limite. Lo è stato per la gestione di Covid-19, per il tracciamento (tutti ricordano l’app Immuni e il suo fallimento causato anche dal mancato aggiornamento dei portali da parte delle Regioni sui quali avevano la competenza), per la gestione del Fascicolo Sanitario Elettronico (così diversi tra loro), per l’organizzazione delle USCA, e per tanti altri aspetti. È arrivato il momento della “nazionalizzazione” degli aspetti legati alla sanità digitale che possano superare le differenze esistenti tra Regioni.
Un’Agenzia Nazionale per la Sanità Digitale
Un’Agenzia Nazionale per la Sanità Digitale, come suggerito tra i tanti anche da Sergio Pillon, potrebbe essere un’ottima risposta in grado di identificare soluzioni che si dimostrino sicure, efficaci e costo/efficaci (o che si siano dimostrate tali a livello locale) per proporle a livello nazionale. Nel fare ciò è però importante muoversi coerentemente rispetto a quanto oggi esiste dal punto di vista normativo.
A meno di scelte coraggiose da parte del governo che vadano verso la “nazionalizzazione” della sanità digitale dobbiamo fare i conti con l’esistente. Per esempio, le Indicazioni nazionali per l’erogazione di prestazioni di Telemedicina e di Teleriabilitazione, sono un punto di partenza per rendere omogenei i trattamenti, per chiamare le prestazioni con un nome preciso, per prevedere un modello di rimborso (che potrebbe essere limitato a quelle dove esistono chiare evidenze di efficacia).
Conclusioni
In conclusione, a oggi non ci sono altri modi per dimostrare la bontà degli strumenti di sanità digitale se non passando dalla ricerca clinica, usando una metodologia di ricerca che prende il meglio da quella farmaceutica, che preveda un braccio di controllo (per verificare che gli eventuali miglioramenti osservati siano diversi da quelli che potrei osservare con l’approccio standard), che verifichi che gli eventuali miglioramenti non si vedano in soggetti nei quali questi si sarebbero manifestati – per via della loro propensione a modificare stili di vita e abitudini – a prescindere dall’impiego dello strumento, che sia esente da bias di selezione di qualunque forma.
L’uso in assenza di queste prove rischia di essere frutto di scelte non oculate o non perfettamente in linea con il giusto operare. E francamente studi pubblicati su riviste mediche che illustrino le prove in riferimento all’impiego di questi strumenti ancora non se ne sono visti molti.