governance

Sanità, ecco perché si spende così poco in ICT

Spesa ICT a rilento nella sanità, colpita dalla spending review e dalla tendenza delle aziende del settore a investire sui processi core. Per cambiare bisogna affrontare il tema del ritorno economico dell’investimento, con una maggiore aderenza all’evidence based medicine, e affinare la governance

Pubblicato il 29 Gen 2018

Federico Spandonaro

Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” – Presidente di C.R.E.A. Sanità

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L’investimento in ICT nel settore sanitario (pubblico), secondo gli osservatori più accreditati, si attesta sull’1,2% della spesa sanitaria pubblica (più o meno stabile negli anni), contro livelli nel range 2-3% degli altri Paesi dell’Unione Europea.

Il dato è eclatante e deve anche essere evidentemente contestualizzato: in primo luogo perché la spesa sanitaria pubblica italiana è circa il 35% in meno di quella dei Paesi dell’Europa Occidentale (o meglio di quelli “originari”): quindi, assumendo la suddetta percentuale, in valore assoluto saremmo a meno del 30% del livello di investimento medio in Europa.

In secondo luogo perché va ricordato come, negli ultimi 5 anni, il capitolo della spesa per beni e servizi non sanitari si è ridotto del 34% (nelle regioni del nord circa il doppio che in quelle del sud), da una parte evidenziando il significativo impatto della cosiddetta spending review, e quindi del perseguimento di una maggiore efficienza negli approvvigionamenti, in sanità; dall’altro evidenziando come le aziende del settore si siano fortemente “concentrate” nell’investimento sui processi core, di tipo sanitario, probabilmente “penalizzando” tutto il resto.

Riassumendo, il primo “segnale” che viene dalle evidenze quantitative è che l’investimento in ICT, sulla base dei dati raccolti, sembra non solo basso, quanto del tutto residuale. Il secondo è che si “appoggia” al segmento dove è maggiore la tendenza al disinvestimento; sebbene vada aggiunto che, le pur frammentarie informazioni disponibili, dicono che non decolla ma neppure si contrae.

Quanto sopra sembra suggerire che la ICT non sia entrata, almeno culturalmente, nel novero delle tecnologie considerate intrinsecamente parte del core dell’attività sanitaria e, tanto meno, nell’alveo della cosiddetta innovazione.

Ricordiamo che il termine innovazione in Sanità assume per lo più il significato specifico di innovazione terapeutica e che, dove questa ha ricevuto una particolare attenzione e, quindi, regolamentazione, concordemente il suo riconoscimento è stato subordinato al concetto di bisogno (insoddisfatto) e di beneficio (incrementale e significativo).

In altri termini, potremmo interpretare il ritardo italiano dicendo che non sembra sufficientemente diffusa la convinzione che l’ICT (in tutte le sue svariate declinazioni) risponda al soddisfacimento di bisogni insoddisfatti e che porti benefici di salute davvero significativi.

Non è, quindi, probabilmente un caso che gran parte delle iniziative per la sanità digitale si riferiscano ad iniziative e azioni di razionalizzazione di stampo tipicamente organizzativo, volte alla archiviazione ed elaborazione dei dati relativi alla assistenza sanitaria (ad esempio il Fascicolo Elettronico), nonché ai relativi costi (ad esempio la Tessera Sanitaria), piuttosto che alla gestione dei percorsi diagnostico-terapeutici.

Se ne può altresì desumere che è certamente acquisito l’impatto benefico della ICT sull’efficienza amministrativa; mentre gli effetti, seppure indiretti, sulla salute non sono negati, ma neppure posti con risolutezza al centro delle motivazioni che sostengono l’esigenza di investimento.

Come cambiare rotta

Se questa lettura è, almeno in parte, condivisibile, allora per cambiare la governance del settore vanno riviste le priorità poste a sostegno dell’importanza dell’investimento in ICT.

Osserviamo che sul banco degli imputati è ancora per lo più posta la carenza del finanziamento, quando dovrebbe invece essere posta la carenza di evidenze in ordine alla costo-efficacia degli investimenti.

Sul tema del finanziamento va ricordato, in primo luogo, che l’ICT è promossa come foriera di risparmi e che, quindi, porre il problema della carenza di tariffe specifiche (ad esempio si pensi al caso del finanziamento degli interventi di telemedicina) è almeno contraddittorio; continuando a considerare, in senso paradigmatico, il caso attuale della telemedicina, essa in pratica non esita in nuove tipologie di prestazioni sanitarie (ancorché in prospettiva questo potrebbe avvenire, nella misura in cui si genereranno modifiche profonde degli approcci in Sanità indotti dall’ICT), quanto in un diverso regime di erogazione: e, quindi, una eventuale tariffazione ad hoc non potrebbe che determinare un regime tariffario ridotto, con l’unico esito di spostare risorse dalle aziende sanitarie alle istituzioni regionali.

La carenza di tariffe specifiche, quindi, è un alibi (tranne per casi specifici, per i quali la prestazione non “esiste” proprio negli attuali nomenclatori), difficilmente considerabile la causa del non sviluppo della telemedicina: anzi dovrebbe paradossalmente favorire le iniziative locali, nella misura in cui risultino capaci di procurare davvero risparmi significativi.

Il vero problema in tema di finanziamento appare, invece, essere quello della sostenibilità del delay fra investimento e relativo ritorno che, in una fase di risorse calanti per il settore, diventa un fattore tanto critico, quanto strategico: possiamo notare un parallelismo con la prevenzione, che sebbene sulla carta sia posta al centro delle politiche sanitarie, tende ad essere “posticipata”, dando di fatto priorità politica alla gestione delle urgenze correnti.

Quest’ultimo aspetto, può essere raccontato adottando un’ottica forse maggiormente evocativa: portare il finanziamento per l’ICT al 2% equivarrebbe a destinare una somma aggiuntiva al settore approssimativamente pari alla somma di tutti i fondi per l’innovazione farmaceutica o, in alternativa, a quanto necessario per abolire il cosiddetto super-ticket. Appare evidente come una tale decisione di allocazione, a risorse complessivamente date, avendo sul piatto della bilancia argomenti così “sensibili”, necessita di un fortissimo, e evidente, commitment sia tecnico, che politico.

Prima di analizzare il tema della “evidenza”, notiamo che, per inciso, nel settore in oggetto, rendere sostenibile il delay fra investimento e relativo ritorno è, almeno sulla carta, molto più facile che non in campo preventivo. Vuoi per i tempi certamente più brevi di rientro, vuoi perché la prevenzione è in larga misura autoprodotta dal servizio sanitario pubblico, che quindi dovrebbe autofinanziarsi l’investimento (qualche tentativo di acquisire sul mercato le risorse, con l’emissione di obbligazioni sul risultato di salute, per quanto affascinante come ipotesi, rimane per ora nel campo delle possibilità “visionarie”); di contro i produttori di soluzioni ICT per la sanità, potrebbero avere interesse a finanziare almeno in parte l’investimento, condividendo il rischio dei risultati con i committenti pubblici.

Il tema essenziale, è quindi, quello della misura dei “ritorni”, il che porta naturalmente al tema dell’evidenza.

Il termine “evidenza”, come quello “innovazione”, in sanità assume un significato preciso e peculiare.

Tutta la sanità moderna è costruita sul paradigma dell’Evidence Based Medicine (EBM); e questo approccio è oggi alla base di tutta la regolamentazione sanitaria, in particolar modo quella riferita all’innovazione tecnologica.

Si noti ancora che la produzione di evidence è, in larghissima misura, un onere rimasto a carico dei produttori, sebbene con diversi livelli di “requisito minimo”.

Nello specifico, la produzione formale di evidence nel campo dell’ICT è ancora agli albori: probabilmente perché non è nel “DNA” dei produttori; e perché anche il settore pubblico non ha sentito adeguata esigenza di raccogliere evidenze dalle numerose esperienze pilota condotte.

E questa osservazione forse aiuta a spiegare perché difficilmente si è passati dalle sperimentazioni ad un uso routinario delle soluzioni di Sanità digitale (in senso lato).

Ovviamente si può obiettare che i valori di investimento negli altri Paesi sembrano indicare che la carenza di evidence non rappresenta automaticamente un vincolo insormontabile.  Probabilmente, però, questo è maggiormente vero in Paesi con budget sanitari ampi o che, essendo anche produttori, beneficiano dei ritorni industriali indotti dalla spesa sanitaria. In latri termini, più il budget si restringe, e più si è importatori delle soluzioni tecnologiche, maggiore sarà il rischio che queste ultime non siano inserite nel giusto ranking di priorità.

Riassumendo, la letteratura sulla costo-efficacia delle soluzioni ICT in sanità è in generale modesta, sia quantitativamente, sia qualitativamente, e questo certamente non aiuta a portare gli investimenti on top dell’agenda delle politiche sanitarie.

Molto altro si potrebbe dire sulla governance del settore: ma nei limiti del presente contributo, ci sembra essenziale rimarcare come lo scoglio principale rimanga quello culturale.

La sanità è un mondo del tutto peculiare, con regole molto specifiche e, spesso, di assoluta avanguardia; la sensazione è che i professionisti della sanità non abbiano compreso, se non superficialmente, l’impatto potenziale dell’ICT (nelle sue infinite sfaccettature) e, principalmente, il contenuto rivoluzionario del’ICT sulla vita della popolazione, e quindi anche, in prospettiva, della promozione della sanità.

Di contro, l’industria dell’ICT tende a leggere la sanità come un segmento di business non dissimile dagli altri, disconoscendone gli aspetti del tutto peculiari, vuoi perché è rimasta l’ultima “industria di Stato”, vuoi per le sue innegabili specificità.

Questa mancanza di un terreno comune di dialogo lascia il settore ad una evoluzione spontanea e scarsamente governata, con il rischio di perdite di opportunità tanto di business, quanto di tutela della salute.

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