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Studi clinici retrospettivi: i nodi privacy che frenano la ricerca



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La ricerca clinica affronta la complessità della privacy dei dati personali, in particolare quando si tratta di utilizzare campioni biologici. Le normative, come il GDPR, cercano un equilibrio tra progresso scientifico e diritti individuali, ma le sfide rimangono, soprattutto nell’anonimizzazione dei dati e nel consenso per l’utilizzo futuro dei campioni. Soluzioni praticabili sono ancora in discussione

Pubblicato il 16 feb 2024

Vittorio Colomba

ESSE-CI Centro Studi

Beatrice Iannaccone

ESSE-CI Centro Studi



ricerca

“Ha donato il proprio corpo alla scienza”. È sempre una frase che fa un certo effetto, e che testimonia la generosità del morituro a beneficio dei progressi della medicina e della buona salute di chi verrà.

Ma al giorno d’oggi è così semplice, anche volendolo, regalare le proprie spoglie mortali, o anche solo parte di esse, alla ricerca clinica?

Le logiche della medicina e quelle della privacy

L’attuale disciplina in punto di protezione dei dati personali, in queste dinamiche, probabilmente qualche complicazione l’ha introdotta.

Qualora i dati clinici fossero conservati e riutilizzati per finalità differenti da quelle originarie, difatti, il quadro delle previsioni strutturate nell’informativa resa in origine al paziente potrebbe rivelarsi inadeguato e, con esso, l’ampiezza del consenso raccolto in prima battuta.

Un vizio nei rapporti tra Titolare del trattamento e interessati, in sostanza, potrebbe precludere il legittimo svolgimento di successive ricerche.

E se esiste un problema, si pone in modo ancora più significativo nella fase antecedente rispetto al decesso di un individuo, vale a dire tutte le volte che il paziente partecipa volontariamente alla ricerca clinica e – per sua fortuna – le sopravvive.

La medicina ragiona secondo logiche differenti rispetto alla privacy.

L’utilità dei campioni biologici, in effetti, potrebbe permanere per un tempo ulteriore e indefinito, rispetto a quello necessario per terminare la ricerca che ne ha giustificato la raccolta.

Per la scienza è impossibile determinare, con certezza, i potenziali utilizzi futuri di dati medici raccolti nel presente: studiandole oggi, le cartelle cliniche dei pazienti vissuti nell’Ottocento potrebbero fornire interessantissimi spunti di osservazione, anche nell’ambito delle più moderne indagini cliniche.

Li chiamano studi clinici retrospettivi.

Eppure, i se i campioni biologici fossero riconducibili al concetto di dati personali, sarebbe difficile considerarli come semplice “materiale” donato alla scienza, utilizzabile senza alcun vincolo o limitazione.

Campioni biologici e dati personali

Volendo orientarsi in quest’ambito, bisogna partire dal concetto di dati genetici, ossia “i dati personali relativi alle caratteristiche genetiche, ereditarie o acquisite, di una persona fisica, che risultino dall’analisi di un campione biologico della persona fisica in questione, in particolare dall’analisi dei cromosomi, dell’acido desossiribonucleico (DNA) o dell’acido ribonucleico (RNA), ovvero dall’analisi di un altro elemento che consenta di ottenere informazioni equivalenti”

Il GDPR non fornisce una definizione univoca di campione biologico, ma è comunque possibile comprenderne il significato combinando alcune disposizioni, a partire dal considerando 35, che figura il campione biologico come una parte del corpo o una sostanza organica da cui è possibile trarre, all’esito degli opportuni esami e controlli, informazioni relative alla salute di una persona fisica.

Il campione biologico, quindi, non è un dato personale, ma costituisce la fonte dalla quale è possibile attingerne significativi quantitativi di informazioni, relative allo stato di salute – passato, presente e futuro – di un individuo.

Ricostruire l’identità di una persona dalle informazioni di un campione biologico

Se è vero quanto sopra, studiando le informazioni contenute in un campione biologico, è possibile ricostruire l’identità della persona da cui esso è stato raccolto?

Se così fosse, il campione non sarebbe semplice massa organica, ma una cassaforte contenente dati personali, sicché del loro utilizzo bisognerebbe, in ogni tempo, rendere conto ai diretti interessati.

Gli strumenti offerti dalle nuove tecnologie, in questa prospettiva, rappresentano indubbiamente una insidia in più, per l’enorme disponibilità di dati che si possono utilizzare per le operazioni di raffronto e in virtù delle sofisticatissime capacità di ricerca dei moderni elaboratori.

Uno studio pubblicato sulla rivista Science, ad esempio, ha condotto alla re-identificazione di un paziente, tramite il trattamento incrociato di dati genetici anonimizzati e altre informazioni reperibili sul web.

L’operazione si è resa possibile grazie al sequenziamento di dati genetici privi di identificatori, il recupero dei cognomi dei potenziali interessati attraverso il profiling di brevi ripetizioni tandem sul cromosoma Y e l’interrogazione di alcune banche dati genealogiche genetiche.

Combinando il cognome ottenuto con altri tipi di metadati, ad esempio l’età, facilmente e liberamente disponibile online, è stato possibile risalire con certezza all’interessato.

Anonimizzare un campione biologico

Al ricercatore, in linea di principio, non interessa affatto ricostruire l’identità dei donatori dei suoi campioni biologici: la possibilità che ciò accada è un indesiderato effetto collaterale che nulla aggiunge alle ragioni della ricerca. Semmai ne complica lo svolgimento.

Qualora fosse possibile anonimizzare il patrimonio informativo contenuto nel campione, difatti, i problemi privacy verrebbero meno, mentre la ricerca clinica non ne patirebbe alcun pregiudizio.

Per curare una malattia, serve potere studiare lei, e non serve conoscere l’identità del malato.

Ma sarebbe possibile applicare le tecniche che conosciamo, cioè la pseudimizzazione e l’anonimizzazione, anche al materiale biologico?

La risposta è negativa. Sono tecniche ovviamente applicabili ai risultati estratti dai campioni, ma non ai campioni medesimi.

Il DNA è la nostra prima e primordiale carta di identità: è come se ogni cellula contenesse un timbro, univocamente e inscindibilmente riconducibile al suo “proprietario”.

Il rischio di identificabilità, in sostanza, è intrinseco alla natura stessa del dato, sicché risulterebbe impossibile, in astratto, escludere la sua re-identificazione.

L’attuale panorama normativo

La ricerca dell’equilibrio tra le ragioni della ricerca e i diritti dei pazienti è alla base di alcuni bilanciamenti chiaramente operati dalle vigenti normative di riferimento.

Il Regolamento europeo e il Codice privacy (D.lgs. n. 196/2003), in quest’ottica, prevedono alcune disposizioni specifiche volte ad agevolare l’effettuazione di studi scientifici e al contempo garantire una tutela dei diritti, della libertà e riservatezza degli interessati.

In taluni casi ben specificati, difatti, è stata esclusa la necessità che il promotore della ricerca, Titolare del trattamento, debba domandare un nuovo consenso degli interessati per l’utilizzo dei dati forniti in occasione di una precedente ricerca.

L’art. 9, par. 2, lett. j) del GDPR, in primo luogo, esclude la necessità del consenso in campo medico, biomedico o epidemiologico, quando il trattamento sia già stato disciplinato da norme di legge, regolamenti o dal diritto dell’Unione.

Pertanto, ogni qual volta il trattamento risulti necessario per fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici, non appare necessaria l’acquisizione del consenso dell’interessato per trattare i campioni biologici e i dati particolari da questi estraibili.

L’assenza del consenso, inoltre, nell’ottica di operare un corretto bilanciamento degli interessi, potrebbe essere compensata dalla predisposizione di una valutazione d’impatto, svolta ai sensi degli articoli 35 e 36 del GDPR.

In ultimo, il titolare non deve raccogliere il consenso al trattamento ogniqualvolta gli risulti impossibile o tale operazione implichi uno sforzo sproporzionato, oppure nel caso in cui lo svolgimento di queste procedure rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento delle finalità della ricerca.

In tali ipotesi, il titolare del trattamento è unicamente tenuto ad adottare misure appropriate per tutelare i diritti, le libertà e i legittimi interessi dell’interessato.

In particolare, si prevede che il programma di ricerca debba essere oggetto di un parere motivato e favorevole del comitato etico competente a livello territoriale e debba essere sottoposto a una preventiva consultazione del Garante ai sensi dell’articolo 36 del Regolamento.

Conclusioni

Le soluzioni per non bloccare la ricerca, in definitiva, esistono. Che siano facilmente praticabili, purtroppo, non lo si può affermare a cuor leggero.

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