La telemedicina può essere davvero d’aiuto nella lotta al coronavirus, come ribadito da molti esperti nel mondo e non è un caso che una delle prime mosse del ministero dell’innovazione, a fronte dell’emergenza, sia stato in tal senso.
Se l’Italia vi avesse investito prima – come promesso da anni, segnatamente dal Governo Renzi – forse avremmo avuto meno contagi e meno morti ospedalieri, perché la telemedicina, come l’e-ecommerce, significa evitare di muoversi da casa quando non è necessario.
Sergio Pillon, coordinatore della Commissione Tecnica del Ministero della salute per lo sviluppo della telemedicina nazionale, ha descritto, norme alla mano, come al momento sia impossibile ricevere a casa un certificato telematico di malattia, il certificato medico che serve per l’ufficio, se non ci si reca fisicamente dal medico o in ospedale, luoghi non certo salubri quando c’è un’epidemia in corso.
Ovviamente la televisita non è indicata in caso di emergenza, ma è sicuramente un primo livello di controllo; se si riuscissero anche a realizzare delle App da dare ai pazienti che si prenotano, il dialogo con il proprio medico o con gli specialisti potrebbe migliorare di molto.
Con pochi investimenti si potrebbe scongiurare quello che per Pillon è un concetto semplice: “oggi nell’era del digitale pensare di dover riempire lo studio del medico ogni volta che abbiamo l’influenza stagionale, coronavirus a parte, è anacronistico e persino stupido”.
Sanità digitale perciò vuol dire meno ricoveri in ospedale, un monitoraggio o un consulto a distanza con specialisti. Anche il risparmio permesso, con la Sanità digitale, per il sistema sanitario nazionale torna utile in questi tempi perché significano fondi in più per ciò che davvero conta (terapie intensive…).
Le mosse del Governo e la fast call telemedicina
La buona notizia è che l’Italia forse ha preso la direzione giusta per rimediare agli errori fatti in passato. La notizia dell’istituzione della task force incaricata di valutare e proporre soluzioni tecnologiche per affrontare l’emergenza, al di là della numerosità dei componenti – ben 74 esperti scelti con procedure poco trasparenti – ciò che colpisce è l’enfasi che il Governo ha voluto dare alle tecnologie digitali data driven, considerate come pilastri su cui appoggiare il futuro del sistema sanitario nazionale. In materia di teleassistenza, ad esempio, l’attività degli esperti si focalizzerà nell’individuare possibili soluzioni digitali per supportare l’assistenza domiciliare, sia in fase di emergenza Covid-19, sia successivamente per la teleassistenza in condizioni di normalità. Le possibili soluzioni, sotto il profilo tecnologico e dell’efficacia nell’ausilio a pazienti e persone a casa, saranno individuate tra quelle proposte nell’ambito della recente “Fast Call Telemedicina e sistemi di monitoraggio per il contrasto alla diffusione del Covid-19” promossa dal Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione, dal Ministro dello Sviluppo economico, dal Ministro dell’università e della ricerca e dal Ministro della Salute. “L’obiettivo – come riporta in una nota il Ministero – è individuare, nei prossimi giorni, le migliori soluzioni digitali disponibili relativamente ad app di telemedicina e assistenza domiciliare dei pazienti e a tecnologie e strategie basate sulle tecnologie per il monitoraggio “attivo” del rischio di contagio, e coordinare a livello nazionale l’adozione e l’utilizzo di queste soluzioni e tecnologie, al fine di migliorare i risultati in termini di monitoraggio e contrasto alla diffusione del Covid-19”.
Il Governo, quindi, si sta muovendo bene per dare una direzione e per spingere verso un maggior utilizzo di questi strumenti di innovazione tecnologica, al pari della dematerializzazione delle ricette mediche avvenuta con i medici di base, che il servizio sanitario nazionale dovrebbe utilizzare sempre di più.
Il ritorno alla centralità del dato
Meglio tardi che mai. Già nel luglio 2012, quasi dieci anni fa, il Consiglio superiore di sanità approvava le Linee di indirizzo italiane sulla telemedicina, chiedendo al Ministero della salute di perseguire uno sviluppo “coordinato, armonico e coerente” delle pratiche di e-Care in ogni Regione. Secondo gli esperti dell’epoca, l’innovazione tecnologica sarebbe stata in grado di riorganizzare l’assistenza sanitaria attraverso modelli assistenziali innovativi, incentrati sul cittadino, che avrebbero facilitato l’accesso alle prestazioni sul territorio nazionale.
Successivamente c’è stata la stipula del Patto per la sanità digitale (correva l’anno 2016), allorché si è continuato a parlare di telemedicina come modalità di erogazione delle prestazioni sanitarie e della necessità di ricorrere alle televisite, ai teleconsulti, alla telecooperazione sanitaria, attraverso un infermiere o altro professionista sanitario, per conseguire importanti cambiamenti del sistema, oltre che per ottenere grandi risparmi.
Ma quali sviluppi ci sono stati nel frattempo? Quali reali vantaggi ha apportato a medici e pazienti l’utilizzo di questa “nuova” tecnologia? Purtroppo, non è facile reperire dati sulla reale attuazione del Patto. Ci voleva un’emergenza come quella del covid-19 per ritornare a parlare di utilità della telemedicina. Parlare di sanità digitale e telemedicina vuol dire avere ben chiara la separazione che esiste tra l’erogatore del servizio clinico (definito Centro Erogatore) e l’erogatore del servizio tecnologico (definito Centro Servizi), ciascuno con le proprie responsabilità[1].
La tecnologia necessaria deve essere ovviamente guidata dal clinico nell’uso, ma certificata dalla componente tecnica del servizio (fornitori di apparati, di cloud, di software), secondo le attuali disposizioni di legge, nazionali ed europee. Bisogna tenere conto anche della sicurezza, intesa esattamente come i medici hanno sempre fatto, Safety (evitare che per errore si possa far male al paziente) Security (proteggere nei limiti del possibile il pazienta da un’azione deliberata di danno), Resilience (come la capacità del sistema, degli attori sanitari, istituzioni a far fronte ai problemi) e Trust (affidabilità del risultato). All’interno di questi problemi rientra la privacy, la sicurezza dei dati, che nel mondo digitale, se mal gestita, può produrre danni enormi. Con un solo atto, nel mondo digitale, si possono rubare migliaia di cartelle; se sono di carta, in un reparto, se ne possono rubare al più una cinquantina.
Stiamo vedendo che il tema della centralità dei dati è fondamentale in questa pandemia, sia per la protezione civile che per l’organizzazione della sanità e lo sarà anche per la ripresa economica. Migliore è il dato (formato e gestito da una organizzazione) e migliore è la funzionalità di una pubblica amministrazione o di una azienda. Per essere “migliore” il dato oggi non può che essere solo nativamente digitale (superamento del sistema misto, pernicioso, dannoso, costoso, bloccante) ma deve fare parte di una organizzazione progettata e realizzata nel rispetto della semplificazione, della digitalizzazione dei processi amministrativi o aziendali, della tracciabilità dei dati/processi. Fuori da questo approccio (data driven e dati digitali) i dati non servono, sono costosi, non sono utilizzabili a fini di governo, programmazione, direzione, gestione; innescano processi involutivi ad alto costo sociale. Il contesto delle burocrazie pubbliche (compreso le strutture sanitarie) non opera sulla base di dati digitali (e nel rispetto dei requisiti: aggiornati, completi, validi giuridicamente, affidabili, leggibili, accessibili telematicamente, sicuri, trasparenti, tracciabili, ecc.). Non c’è la cultura del dato come “risorsa informativa” necessaria ed indispensabile alle attività di programmazione, governo, direzione, gestione, monitoraggio. L’attuale modello organizzativo sanitario (amministrazione e servizi sanitari) sicuramente non fa affidamento sulla risorsa dei dati.
E in una situazione di forte emergenza sanitaria, ciò che sta facendo la differenza è il ruolo personale degli operatori sanitari (preparazione, dedizione, impegno personale, ecc.) per supplire ad un modello organizzativo scarsamente orientato a trattare le emergenze. Questa pandemia ha dato una chiara indicazione: c’è bisogno di una riflessione urgente sulla validità dei modelli organizzativi che supportano i servizi sanitari; sulla necessità di avere un capitale sociale e una coesione sociale su cui poter contare e appoggiare le prospettive di sviluppo economico che verranno, qualunque esse siano. Non basta perciò solo parlare di aspetti clinici, tecnici e tecnologici; il vero punto di svolta ormai è più legato ai modelli assistenziali. Integrare nei modelli del SSN lo strumento telemedicina richiede attenzione e pazienza, in un cambiamento spesso del concetto stesso di assistenza sanitaria, che sta passando dal curare al prendersi cura.
Lo stato della telemedicina in Italia
La telemedicina non è certo una novità, ma se in Italia se ne parla poco una ragione c’è: è ancora poco sviluppata. Eppure, dal 2007, esiste un Osservatorio nazionale per la valutazione e il monitoraggio delle applicazioni e-Care. Siccome, però, la sanità è amministrata a livello regionale, l’iniziativa non ha investito tutta la penisola. I partecipanti infatti sono solo otto: l’Emilia-Romagna, fra le promotrici del progetto, la Liguria, le Marche, la Campania, il Veneto, la Sicilia e la Lombardia.
Lo scopo è duplice: valutare lo stato dell’arte della telemedicina, monitorando anche i risultati ottenuti con una sanità più digitale, avviare nuovi progetti sul territorio. Peraltro, dal 2017, l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza (LEA) prevede l’inserimento di “software di comunicazione alternativa” e “dispositivi per allarme e telesoccorso”, in particolare per i pazienti disabili. Il sistema sanitario, insomma, da diversi anni, sta cercando di recepire e imparare a sfruttare le nuove tecnologie. La domanda a questo punto diventa: quali servizi di telemedicina puoi trovare oggi? La risposta, purtroppo, se c’è, dipende da dove vivi.
In Sicilia è in fase di sperimentazione un sistema di teleradiologia per l’invio di immagini radiologiche, come lastre o risonanze magnetiche, a centri specializzati e ottenere un teleconsulto. In Lombardia, dove la telemedicina è già molto diffusa, sono stati avviati alcuni progetti per il monitoraggio di pazienti cronici, anziani non autosufficienti e teleriabilitazione con robot.
La Puglia si è fatta notare il per progetto di TeleHome-Care, che punta a seguire i malati dopo il ricovero in ospedale, per evitare che debbano rivedere le corsie troppo presto, e a migliorare l’assistenza a domicilio per pazienti con malattie cardiache e diabete.
In Emilia-Romagna, chi è affetto da malattie croniche può scaricare dal portale della Asl la ricetta del medico curante con la prescrizione dei farmaci che deve assumere abitualmente.
Esiste poi il sistema “Sole”, che crea una rete fra medici di famiglia e strutture ospedaliere e sanitarie. Ulteriori progetti sono stati avviati o promossi anche in altre Regioni. Ma si tratta sempre di iniziative scollegate fra loro, che faticano a trovare una linea di sviluppo comune. Insomma, molteplici sono le iniziative di telemedicina a livello nazionale, che troppo spesso si riconducono a sperimentazioni, prototipi, progetti, caratterizzati da casistica limitata e elevata mortalità dell’iniziativa.
L’economia della telemedicina
Il nostro sistema sanitario è pubblico e gratuito. I costi, in sostanza, gravano sullo Stato. E non si parla certo di poche briciole: nel 2018 l’Italia ha destinato alla sanità l’8,8% del proprio Pil. Il punto dolente, poi, è che quasi un quarto del totale è a carico degli italiani. Cioè paghiamo di tasca nostra. In base ai dati Ocse, possiamo analizzare anche la spesa pro capite per il sistema sanitario nazionale italiano: nel 2018, questa cifra si aggirava intorno ai 2.326 euro, in aumento rispetto ai 2.225 euro del 2010. La spesa sanitaria ha subito un forte definanziamento pubblico, di circa 37 miliardi di euro nel decennio 2010-2019[2]. Il 40% di quello che spendiamo, lo destiniamo ad esami e visite mediche. Una macchina gigantesca da mantenere. Ma ne vale la pena, lo abbiamo visto in questi giorni. La telemedicina può aiutare ad abbattere i costi. L’Enpam (l’Ente di assistenza e previdenza dei medici) ha calcolato che si potrebbe arrivare a risparmiare 6 miliardi di euro per ogni struttura. Ovvero, 115 euro all’anno in meno per ciascuno di noi. E la metà di questi sarebbe dovuta solo alla possibilità di evitare il ricovero a pazienti cronici.
Naturalmente, prima di arrivare ai risparmi bisogna passare dagli investimenti. Il ministero della Salute aveva preso l’impegno di aumentare i finanziamenti fino a 10,2 miliardi di euro entro il 2020, destinandone una parte alla realizzazione di servizi di telemedicina.
Prima dell’emergenza, a dicembre 2019, nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni è stato siglato il Patto per la salute 2019-2021 che al momento non si sa bene quanto sia ancora attuale e realizzabile. Con riferimento agli investimenti in tecnologie, nel Patto è riportato che “Il Ministero della salute, in collaborazione con le Regioni, ha effettuato una ricognizione sullo stato del patrimonio immobiliare e tecnologico del Servizio Sanitario Nazionale, la cui analisi ha evidenziato la necessità di procedere ad interventi infrastrutturali per un importo complessivo pari a 32 miliardi di euro. A questi vanno aggiunti circa 1,5 miliardi di euro necessari per un adeguato ammodernamento tecnologico delle attrezzature a disposizione dei servizi sanitari regionali”.
Ben poca cosa sembra quel 1,5 Mld per l’ammodernamento tecnologico, sebbene nel Patto stesso sia riportato che “si conviene di valutare, in relazione a particolari esigenze straordinarie e/o alla situazione di emergenza di alcune aree geografiche soggette a calamità naturali, il superamento della legislazione ordinaria, per consentire interventi urgenti di edilizia sanitaria e per l’ammodernamento tecnologico”.
Cosa servirebbe in Italia
Andando oltre, che bisogna fare per sviluppare davvero la telemedicina in Italia?
Innanzitutto, una rete che accorci le distanze. Telemedicina significa che ti verrà lo stesso garantito un buon servizio sanitario grazie a internet, anche se abiti in una piccola isola o in un paese sperduto fra le montagne. Una possibilità che in alcune Regioni esiste già e che, in generale, potrebbe anche contribuire a evitare lo spopolamento di alcune zone d’Italia.
La discussione riguarderà come transitare verso un modello organizzativo di sanità digitale (sistema integrato di risorse informative, umane, economiche, tecnologiche) che veda una contaminazione, un’integrazione, tra software e settore sanitario tradizionale, attraverso la composizione di team multidisciplinari che includano specialisti lato software (sviluppatori, data scientist, esperti di intelligenza artificiale, di video gaming, ecc.), specialisti lato sanitario (medici, ricercatori, specialisti di patologia, psicologi, terapeuti comportamentali) e manager capaci di relazionarsi con grandi aziende, pharma, amministrazioni.
Un altro passaggio importante sarebbe trovare un accordo con il Garante della Privacy per rendere meno lenta e difficoltosa la trasmissione dei dati fra strutture ospedaliere e fra medico e paziente. Infine, servono ulteriori interventi da parte del Governo. A fronte di una diffusione non organica di servizi sanitari erogati con modalità di telemedicina, si rende necessario disporre di un modello di governance condivisa delle iniziative, che deve avere il punto centrale nelle conoscenze specifiche del settore sanitario.
È necessaria una armonizzazione degli indirizzi e dei modelli di applicazione della telemedicina, quale presupposto alla interoperabilità dei servizi e come requisito per il passaggio da una logica sperimentale a una logica strutturata di utilizzo diffuso dei servizi.
L’impianto normativo esiste già, quello che serve è una serie di provvedimenti per limitare al massimo le differenze fra le Regioni. La sentenza della Corte di Cassazione (la numero 38485 del 2019) ha stabilito che un centro sanitario può essere un hub di molte postazioni, dove il paziente viene aiutato nell’esecuzione di esami e dove vengono forniti gli strumenti e il supporto per la teleassistenza, la televisita, per un teleconsulto o per una telecooperazione sanitaria. Queste postazioni non devono avere l’autorizzazione spettante ad un centro sanitario anche se, ovviamente, dovranno essere in regola con le norme di sicurezza relative ai luoghi di pubblico accesso.
Finora ostacolata in ogni modo, dopo questa sentenza, la telemedicina sarebbe oggi pronta per ingenti investimenti dei privati. Sarebbe arrivata anche l’ora, dopo cinque anni, di rivedere le linee di indirizzo nazionali, con una maggiore consapevolezza sull’importanza dei dati e delle tecnologie digitali, affinché con la deospedalizzazione, la continuità delle cure a domicilio e il monitoraggio continuo dei pazienti, ci sia un effettivo miglioramento della salute e della qualità di vita dei cittadini.
La sanità digitale, come il tema dei digital therapeutics, si legano a quello altrettanto importante, di cui tanto si sente parlare in questi giorni, degli investimenti in banda ultra larga. Senza adeguate ristrutturazioni strutturali, come ad esempio una copertura nazionale della banda larga, i servizi di telemedicina risulterebbero inutili. D’altra parte, i progetti di telemedicina non possono più essere pensati come a soli progetti tecnologici, devono convogliare in sé aspetti sociali, politici ed economici, serve sinergia di intenti fra le varie componenti statali. Senza un adeguato supporto politico, legislativo ed economico, l’ammodernamento del nostro sistema sanitario sarà impossibile. Senza adeguate politiche sociali volte all’informazione del cittadino riguardo ai benefici che la telemedicina mette a disposizione, non si potrà ottenere un risultato soddisfacente. Senza una stretta collaborazione tra le Regioni, che godono del “federalismo sanitario”, non si potrà arrivare ad un risultato omogeneo che favorisca il miglioramento dei servizi telematici sperimentati.
Conclusioni
I progetti di telemedicina, laddove sono stati avviati negli ultimi anni, hanno portato a risultati apprezzabili, ma sono sempre stati progetti di ridotte dimensioni, utili per capire l’utilità delle nuove tecnologie, ma poco incidenti per un impatto economico sistemico. Attraverso un miglioramento del modello organizzativo sanitario e una maggior presa di coscienza del fenomeno, ci si augura di poter avviare progetti di più ampio raggio, coinvolgendo un numero sempre maggiore di pazienti, arrivando a conclusioni più complete sotto ogni punto di vista. Al momento le visite da remoto servono più a scremare le richieste più urgenti o fare follow up di terapie. Quando in casa avremo dei dispositivi medici più accurati, più conoscenze sui marker biologici delle patologie, le visite da remoto avranno una diffusione maggiore e sarà possibile per il medico o per l’intelligenza artificiale analizzare i dati e suggerire cure. L’investimento economico iniziale può spaventare, ma si deve guardare ad esso con lungimiranza, considerando anche i benefici e i risparmi che ne conseguiranno negli anni a venire. I servizi di telemedicina possono portare inoltre a quell’apertura verso l’Europa tanto auspicata dallo stesso Parlamento Europeo, perché la circolazione di informazioni e di conoscenza è un benefit che i servizi di telemedicina promuovono e che anzi ne fanno la sua ossatura principale.
In Paesi come la Norvegia e la Svezia, la telemedicina è una realtà già dal 2008. In Spagna negli ultimi 15 anni sono state sviluppate linee di innovazione condivise, mentre in Germania il ministro della sanità ha previsto che entro la fine di quest’anno il digitale funzioni a pieno regime. Per la digitalizzazione della sanità non è più tempo di stare fermi, il nostro Paese deve restare al passo. Se non ora quando.
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- Possono anche essere un’unica entità (come accade ad esempio in un poliambulatorio tradizionale), ma con una chiara separazione dei ruoli e modelli organizzativi, spesso appoggiati a fornitori esterni di tecnologia. ↑
- Fonte: Report Osservatorio GIMBE n. 7/2019 “Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale” https://www.gimbe.org/osservatorio/Report_Osservatorio_GIMBE_2019.07_Definanziamento_SSN.pdf ↑