Come tutti sappiamo e abbiano potuto sperimentare, il Covid-19 è stata una formidabile occasione per lanciare servizi di telemedicina e, più in generale, strumenti di digital health.
In Italia Altems, che fin dall’inizio dello scoppio della pandemia ha costantemente monitorato le esperienze lanciate dalle Aziende Sanitarie Locali, ne conta diverse centinaia, con una crescita importante proprio in corrispondenza dei periodi più difficili della pandemia, quando ogni tipo di prestazione sanitaria in presenza era di fatto impossibile da fornire. Diversi articoli pubblicati dalle maggiori riviste mediche hanno registrato aumenti importanti nella diffusione delle prestazioni di telemedicina.
One digital health: un framework armonizzato per raggiungere gli obiettivi di salute globale
In Catalogna, regione spagnola particolarmente avanzata dal punto di vista tecnologico, già a fine marzo 2020 il numero di prestazioni a distanza aveva superato quello delle prestazioni in presenza. Negli Stati Uniti, merito anche della decisione da parte della governo federale di parificare il rimborso delle prestazioni sanitarie offerte in telemedicina a quello delle prestazioni in presenza, della scelta di fornire gratuitamente le prestazioni in telemedicina agli assistiti al programma Medicare (di cui usufruisce circa 40 milioni di americani), e della “deregulation” che ha consentito ai medici di liberarsi di responsabilità penali in caso di errori commessi durante la visita a distanza o di scarsa aderenza ai principi che regolano la privacy dei pazienti, le prestazioni di telemedicina e di televisita sono cresciute di 10 volte durante la fase acuta delle pandemia.
In Italia, inoltre, le nuove linee guida sulla telemedicina approvate a dicembre 2020 dalla Conferenza Stato Regione che normano alcune prestazioni di telemedicina, promettono nei prossimi mesi di allargare la platea dei pazienti ai quali questo genere di prestazione si può applicare (sempre che le strutture abilitate a farlo si attrezzino adeguatamente).
La televisita non è una videochiamata: modelli e requisiti per gestirla al meglio
Telemedicina, davvero nulla sarà più come prima?
Diversi osservatori (soprattutto americani) si stanno ponendo alcune domande: fino a quando sarà garantita la parità dei rimborsi delle prestazioni rese in presenza e da remoto (la normativa americana prevedeva che questa durasse fino al termine della emergenza sanitaria)? E’ immaginabile pensare che si possa ritornare in qualche modo indietro, con una forte contrazione delle televisite?
Gli esperti (nostrani ed europei) continuano a sostenere che “la strada è tracciata”, “nulla sarà più come prima”, “il digitale trasformerà tutti gli aspetti della sanità”.
La domanda (anzi tutte le domande) è lecita. E lo è per due ragioni. Intanto è la stessa domanda che si sono posti i big dell’informatica. Google, tra le prime ad adottare lo smart working per i propri dipendenti all’affacciarsi della pandemia, da settembre 2021 ha deciso di richiamare i dipendenti in ufficio e lo smart working sarà concesso su richiesta e solo per “circostanze eccezionali”. La stessa cosa accade alla Apple dove in base alle nuove regole che verranno applicate da settembre 2021, tutti dovranno tornare alle proprie scrivanie per almeno tre giorni a settimana. L’altra ragione è di tipo economico. Negli Stati Uniti molti sostengono che rimborsare una prestazione erogata in telemedicina al pari di una prestazione in presenza disincentivi i medici a seguire questa modalità. Anche in Italia, come in Europa, c’è un problema di sostenibilità del sistema.
Cosa ci dicono i numeri
Da qualche tempo diverse pubblicazioni scientifiche offrono dati interessanti per inquadrare il fenomeno. Per esempio, un recente studio pubblicato dal Journal of Medical Internet Research condotto in Ontario (Canada) su dati amministrativi che ha confrontato il numero di televisite prima e dopo la fase acuta della pandemia (giugno 2020), ha scoperto che nelle zone rurali tali visite sono passate da 11 per 1000 abitanti a 147 per 1000 abitanti, mentre nei centri urbani da 7 visite 1000 abitanti rispetto a 220 visite per 1000 abitanti, segno che la crescita c’è stata ma a favore delle zone urbane. Inoltre, limitando l’analisi ai pazienti che hanno usufruito di prestazioni di telemedicina (indipendentemente dal numero di prestazioni) si è osservato che la crescita si è concentrata tra i pazienti adulti, lasciando invece ai margini giovani e anziani, questi ultimi tra le categorie che più potrebbero avvantaggiarsi di questo genere di prestazioni.
Un altro articolo pubblicato su Jama Surgery ha confrontato le prestazioni di televisita chirurgica in Michigan scoprendo che a un aumento di questo genere di prestazioni durante la fase acuta della pandemia (quando la percentuale dei pazienti seguiti in questa modalità è passata da meno dell’1% precedente alla pandemia al 34%), è seguita una drastica riduzione nei mesi successivi, portando questa percentuale al 3%. In questo studio si è osservato come l’uso di prestazioni di telechirurgia sia stato ridotto nelle zone rurali rispetto a quelle urbane e tra i pazienti che vivevano in zone particolarmente svantaggiate dal punto di vista economico.
Le principali ragioni alla base della riduzione di queste prestazioni? Difficoltà a entrare in contatto con il paziente, difficoltà a stabilire un rapporto empatico, difficoltà nella comunicazione verbale.
E le cose non vanno meglio quando si cambia patologia. In ambito oncologico una altro recente studio pubblicato su JAMA Otolaryngology – Head & Neck Surgery ha dimostrato che esistono delle correlazioni inverse tra le caratteristiche demografiche/socioeconomiche dei pazienti con una diagnosi di tumore a collo e testa e il ricorso a prestazioni di telemedicina. L’analisi ha permesso infatti di concludere che i pazienti non assicurati, i pazienti seguiti dal programma Medicaid (il supporto sanitario federale per individui e famiglie statunitensi a basso reddito) e, in generale, quelli con redditi familiari più bassi hanno avuto meno probabilità di completare una visita di telemedicina rispetto agli altri pazienti, differenza che invece non si è manifestata tra le visite telefoniche.
Insomma, il ricorso alla telemedicina sembra essere legato alla emergenza. Terminata la quale sembra assistere a un suo ridimensionamento. Soprattutto il ricorso alla telemedicina sembra creare disuguaglianze nel suo accesso, arrivando al paradosso che coloro che potrebbero avvantaggiarsene sono in realtà coloro che fanno meno uso.
Cosa fare ora
Cosa fare? La formazione dei medici e degli operatori sanitari è certamente un aspetto fondamentale per garantire il successo delle prestazioni di telemedicina.
Relazionarsi a distanza con il paziente è cosa molto diversa e più complicata di un rapporto medico/paziente tradizionale. Tuttavia, da più parti si segnala come oggi, più che mai, sia necessario condurre studi clinici in grado di misurare l’efficacia (e la sostenibilità economica) di sistemi di telemedicina rispetto alla visita tradizionale. Altri ancora suggeriscono di condurre ricerche in grado di identificare i pazienti che possono maggiormente beneficiare dell’impiego di strumenti di telemedicina e patologie/aree mediche nelle quali più numerose e convincenti sono le prove di efficacia. In un recente articolo del New England Journal of Medicine da titolo “Remote Patient Monitoring – Overdue or Overused?” queste sono le raccomandazioni che i ricercatori suggeriscono in riferimento agli strumenti di monitoraggio, ma che si possono tranquillamente estendere a tutti gli strumenti di digital health e a tutti i sistemi di telemedicina.
Anche perché, ritornando alla sostenibilità di cui ho scritto all’inizio di questo articolo, tutto questo ha un costo. E quando i fondi inizieranno a ridursi occorrerà fare delle scelte che non potranno che essere dettate dalla Evidence Based Medicine.