“La conoscenza dei problemi fondamentali e globali necessita di legare le conoscenze separate, compartimentate, disperse”. Queste parole, che il grande vecchio Edgar Morin, vicino ai novantasei anni, scrive nel suo più recente saggio, appena uscito in traduzione per Cortina col titolo Conoscenza, ignoranza, mistero, sembrerebbero ricalcare e autorevolmente legittimare quello che ormai è diventato un luogo comune di tanta elaborazione pedagogica contemporanea. Vale a dire il fatto che la dispersione di sapere che Internet ad un tempo produce e rispecchia necessiterebbe di un forte impegno di ordinamento e ricomposizione da parte dell’insegnamento scolastico.
Morin è molto popolare qui da noi: lo mostrano l’incessante fortuna in libreria dei titoli di argomento educativo da lui prodotti negli ultimi tempi, la sua presenza in tante occasioni di dibattito pubblico, e i richiami al suo pensiero che campeggiano dentro la letteratura scolastica e accademica. Non faccio fatica ad immaginare che quella frase iniziale la troveremo ripresa in future pubblicazioni dedicate a rinforzare l’idea di una scuola che voglia e sappia ergersi a baluardo di solidità dentro un territorio in cui la rete fa circolare le conoscenze in forme liquide o gassose.
Ma nel caso che abbia la pazienza di andare avanti, il lettore affezionato al sapere disciplinato (e disciplinare) rischia di provare non poca delusione.
Il metodo della complessità
Seguiamo il maestro francese. “Ora, la nostra scuola ci insegna a separare le conoscenze, non a legarle. Tuttavia abbiamo bisogno di una conoscenza che sappia legare”. Per garantire e supportare pratiche di connessione tra gli elementi del sapere occorre, secondo Morin, un metodo: è quello che lui chiama della complessità.
Si tratta di un approccio che mostra sintonia con un’idea di sapere assai diversa rispetto a quella, di chiara matrice enciclopedica, che punta invece alla completezza. Il problema al quale non si sfugge è che le principali e tuttora indiscusse scelte di organizzazione culturale e didattica inerenti all’assetto scolastico nazionale, e non solo, riflettono l’idea di saperi-oggetto e non quella di saperi-tessuto, sono più consone insomma a far distinguere che a far intrecciare, a separare piuttosto che a legare.
Se dunque vogliamo fronteggiare seriamente questo nodo, che è filosofico e politico assieme, e che la tradizione storica dell’istituzione scolastica, da due secoli a questa parte, sembrerebbe voler tenere ben stretto non ci basterà cambiare qualche parola d’ordine, come talora sembrano suggerire i documenti scolastici ufficiali, a cominciare da quelli europei.
L’insufficienza nel sapere
Ci vuole un bella dose di spregiudicatezza. Ma questa non può essere demandata solo a chi si occupa di questioni educative. Occorrerebbe, a sostenerla, un’analisi critica, promossa almeno dalle zone più illuminate della cultura sociale, che intendesse porre in discussione i presupposti della separazione e della completezza, non per negarli o svalutarli, ma per intaccarne l’esclusività, facendo capire che ce ne possono essere altri, di parametri, ed ugualmente importanti: la sostanza liquida ha infatti prerogative di adattamento che non sono proprie della sostanza fisica, e questa presenta caratteristiche di solidità che non solo di quella. Tutto sta a capire quando è più giusto far riferimento all’una e quando all’altra, dentro i comportamenti di conoscenza.
Solo attraverso un impegno di questo tipo si potrebbe arrivare ad accettare e far accettare che la complessità, intesa come “altro” ma sempre più rilevante tratto distintivo del complesso della conoscenza, vale a dire del sapere tutto, assuma rilievo pedagogico e, con essa, emerga che all’interno del sapere stesso è impossibile “eliminare l’incertezza, l’incompletezza, l’insufficienza”. Sì, perché il merito maggiore del metodo della complessità sta proprio nel rendere evidente l’incompiutezza del nostro sapere e dunque nel mettere tutti nelle condizione di problematizzare mentre conoscono, non dopo.
Arriviamo così alle conclusioni del ragionamento, tutt’altro che tranquillizzanti.
“La dispersione e la compartimentazione delle conoscenze nelle discipline specializzate eliminano i grandi problemi che sorgono quando si associano le conoscenze chiuse nelle loro discipline. Così le interrogazioni essenziali sono eliminate. La loro ignoranza mantiene vivo un ignorantismo che regna non solo sui nostri contemporanei, ma anche su eruditi ed esperti, ignoranti della loro ignoranza”. Tutto questo, prendiamone nota, sta alla diciannovesima delle centocinquanta pagine che compongono il libretto.
Qualcuno dirà che il tema dei limiti del sapere è tutt’altro che nuovo, ed attraversa l’intera storia della riflessione filosofica. Si può ribattere che lì, nella tradizione del filosofare, riguarda più i confini tra sapere e non sapere mentre qui nell’approccio epistemologico ed antropologico di Morin riguarda le sue limitazioni interne, i dati di ignoranza e di mistero che sono costitutivi dell’attività stessa del conoscere. Ma il problema non è questo: è invece nell’uso che possiamo fare, anche a scuola, anche all’università, di una simile consapevolezza (ammesso che vogliamo condividerla).
Verso un’etologia del digitale
L’ho detto, Morin piace a chi si occupa di questioni educative. Come mai? E come mai l’attacco frontale che egli muove alle fondamenta dell’edificio scolastico non viene respinto o discusso?
Tra le ragioni del consenso, probabilmente, c’è il tono irenico del suo ragionare: chi lo segue si sente invitato a proiettarsi fuori del mondo così com’è per poterlo pensare, il mondo stesso, per come invece potrebbe essere, chissà quando chissà come. Lui, Morin, una collocazione di questo tipo se la può permettere. Chi fa scuola o università, oggi, dentro gli assetti che sappiamo, e nei modi che sappiamo, probabilmente non può garantirsi lo stesso lusso.
Insomma, Morin espone e regala a tutti noi la pars costruens di un pensiero orientato ad assumere la complessità come parametro concettuale. Noi, se crediamo in quella prospettiva, o comunque ne siamo attratti, non possiamo evitare di mettere a fuoco i contenuti e i modi di una dolorosa quanto necessaria pars destruens. Di ciò che c’è e di ciò che facciamo. Almeno in parte.
Chiariamoci, però.
Potremmo mai arrivare a collegare le conoscenze, considerato che le vie della disciplinarità e i ponti dell’interdisciplinarità, ugualmente edificati dall’ingegneria scolastica del disciplinamento conoscitivo, creano indifferenza nei confronti dei grandi problemi? Centrando azione e attenzione solo sui temi locali delle singole materie, riusciremo mai a far nascere e discutere i temi globali che l’adolescente (tecnicamente: chi sta attraversando la fase della crescita) avrebbe il diritto/dovere di affrontare dentro lo spazio rarefatto delle classi e che invece si trova proiettati addosso in quello rumoroso, opaco e conflittuale del mondo esterno?
Vengo dunque alla questione cruciale che pone questo mio libero riflettere sui contenuti scolastici iniziato in un precedente intervento: il ricorso alle culture del digitale, chiedo, può essere d’aiuto rispetto al raggiungimento dell’obiettivo di fare della scuola un luogo dove si operi anche a collegare e non solo a separare le conoscenze, e dove si arrivi a dare priorità ad un trattamento metodologicamente e scientificamente fondato (dunque non retorico e non superficiale) dei problemi generali del vivere?
La mia risposta è positiva. Ma presuppone una presa di coscienza adeguata delle caratteristiche del mondo digitale. Presuppone che la trattiamo, quella realtà “bestiale”, con un approccio etologico, più che ecologico, che insomma la pratichiamo e la valutiamo per quello che è e fa, e fa fare, dentro l’ambiente che essa stessa si e ci costruisce: un ambiente segnato e caratterizzato, appunto, da complessità.
Due vie per la conquista
Molti, anche tra quelli che discutendo di scuola danno ascolto alle istanze conoscitive che vengono dall’universo delle tecnologie di rete, preferiscono muoversi con prospettive diverse, più ecologiche che etologiche.
Sembra farlo anche Gino Roncaglia, con L’età della frammentazione: cultura del libro e scuola digitale, appena venuto alla luce per Laterza. “Occorre lavorare perché le nuove generazioni siano protagoniste nel passaggio, anche in rete e nell’ecosistema digitale, dalla frammentazione alla riconquista della complessità, dal mondo dell’artigianato e del commercio all’era delle cattedrali”. Questo trovo riportato alla fine del quinto capitolo (#ioleggodigitale, quando me lo si consente; dunque questa volta non sono in grado da dare un’indicazione di pagina!). Il presupposto che muove il pensare di Roncaglia è quello, evidenziato nel titolo, di un’epoca, la nostra, caratterizzata da un sapere di rete costituzionalmente frammentato, o perlopiù inteso e trattato in quella forma: un sapere “granulare”, come piace a lui designarlo, ossia fatto di piccole e autonome unità di conoscenza.
Su questa prima rappresentazione dello stato delle conoscenze non posso non convenire. E condivido, con Roncaglia, che questo concepire il sapere di rete solo come pulviscolo e caos sta progressivamente riducendo il tono di rappresentazione totalizzante, almeno dentro circuiti di comunicazione più elevati, dove circolano forme e formati di sapere sempre più ampi e articolati. C’è un punto però su cui non concordo, e non è marginale. Lo si può cogliere, nella frase che ho riportato (“riconquista della complessità”), in quel “ri”, che sembrerebbe rimandare (e che in tanti lettori preoccupati dal digitale inevitabilmente rimanda) ad una caratteristica della scuola di prima della rete, quella che la scuola di oggi avrebbe persa. Nell’associare tale caratteristica con la “forma libro” Roncaglia si muove e fa leva su una prospettiva sostanzialmente diversa da quella indicata da Morin. È indubbio, infatti, che il modo tuttora prevalente di intendere la “forma libro”, in ambito accademico e scolastico, sia quello di una modalità di rappresentazione completa e compiuta di un dato sapere, o di una sua specifica area. Basterà pensare al ruolo tuttora riconosciuto, e assai poco problematizzato, al libro di testo (per questo rimando a Editori digitali a scuola, da me curato).
Ritengo che, muovendo da un pensiero alla Morin, sia praticabile un’altra idea: quella che vede il sapere di rete operare come “base dati”, poggiare cioè su una infrastruttura tecnica e concettuale all’interno della quale il senso più che un già dato da riconoscere è il prodotto di una costruzione, un qualcosa cui si arriva e che in tale approdo trova una provvisoria sanzione: provvisoria in quanto nel processo e nel suo esito verità e falsità viaggiano fortemente intrecciati.
Ad una simile attività di collegamento dal basso dei frammenti di sapere, fuori dei vincoli disciplinari, la scuola potrebbe dedicare una parte del suo impegno. E, in questa prospettiva, il ricorso alle risorse del sapere interattivo, reticolare e multicodice rappresenterebbe la soluzione migliore, la più “etologicamente” fondata sia per accogliere e valorizzare il digitale sia per capire il suo portato ideologico, all’interno del quale l’attenzione per le dimensioni di falsità (le famigerate fake news), adeguatamente concettualizzata, potrebbe fungere non già da perdita ma da conquista (senza ri) di complessità.
Non si tratta di decidere quale prospettiva sia la più giusta, se quella che partendo dal digitale va a recuperare un qualcosa di smarrito o quella che ugualmente partendo da lì va a conquistare qualcosa di nuovo, se dunque il docente volonteroso debba sentirsi partecipe del tempo della frammentazione o invece del tempo della complessità (come dice il titolo del saggio di Mario Ceruti in uscita per Cortina, con prefazione di Morin).
Si tratta, io credo, di riconoscere che la prima opzione è più coerente con gli assetti scolastici del presente e sui presupposti che danno loro fondamento. Ma anche di non nascondersi che lo stato di salute in cui versano quegli assetti e quei presupposti non è oggi dei migliori. Dunque si potrebbe ipotizzare la possibilità di aprire spiragli, e non solo con le belle parole o i buoni propositi, per l’altra prospettiva, consentendo o anche promuovendo, dentro le scuole, la formazione di aree didattiche riservate in cui praticare, nelle condizioni concettuali e materiali più adeguate, la via della conquista di complessità.
Paradossalmente, dentro quelle aree non sarebbe improprio accogliere e far trattare in modo nuovo (e attuale) i contenuti classici, quelli “vecchi”. Pure I promessi sposi, perché no?