Finora, nelle aule universitarie e scolastiche, più che la DaD (didattica a distanza) è stata svolta la DiE (didattica in emergenza).
Il motto del conduttore radiofonico degli anni Cinquanta Nunzio Filogamo, “Cari amici vicini e lontani”, torna in mente all’inizio delle attuali lezioni universitarie. In aula, una netta minoranza dei frequentanti, mentre la maggior parte sceglie il meno rischioso collegamento online. Un’esperienza straniante per tutti i docenti, costretti a buttare un occhio al video e uno ai presenti; ma ancor più per gli studenti, la maggior parte dei quali, da casa, vede soltanto il volto del docente mascherato come nei rapimenti o nei filmati dei terroristi!
La pandemia è un’occasione davvero irripetibile per sviluppare nuovi modelli didattici: chi scrive fa parte della maggioranza che ritiene la didattica in presenza insostituibile; anzi, ritiene la vita universitaria dello studente un’esperienza tanto più feconda quanto più immersiva.
Tuttavia, questa forzosa schizofrenia a cui siamo sottoposti si rileverà utile se ci consentirà di riflettere su come superare un modello pedagogico, la classica lezione ex cathedra, ormai insufficiente per i nostri compositi ambienti comunicativi. Sono tante le esperienze che, negli ultimi anni, hanno permesso di sperimentare nuove formule e intraprendere nuove strade; mai, però, in modo così massiccio come negli ultimi mesi.
Sarebbe opportuno, allora, che partisse, sia nelle università che nelle scuole, una discussione che coinvolgesse attivamente anche gli studenti, per i quali risulta più naturale interagire, confrontarsi, acquisire informazioni attraverso l’ambiente digitale.
I limiti della didattica in emergenza
Finora, con modalità più o meno efficaci, è stato replicato online quanto si fa da decenni in aula. Uno sforzo enorme: dei tecnici che hanno allestito piattaforme e collegamenti in tempi record; dei docenti, segnalati da tutte le statistiche come i meno “digitalizzati” d’Europa, che hanno fatto di necessità virtù e preso rapidamente confidenza con microfoni, videocamera, nuovi ambienti di lavoro; degli studenti, che da un giorno all’altro si sono trovati a dover seguire “La Divina Commedia” e la trigonometria dalla cameretta di casa, resistendo alla tentazione (avranno realmente resistito?) di poter contemporaneamente videogiocare oppure chattare liberamente con amici e parenti.
Insomma, è stato portato a casa un risultato non scontato. Ma, per l’appunto, era (ed è) emergenza! Non può essere un modello, ma soltanto uno spunto che ha fatto intravvedere limiti e potenzialità.
Tra tutti i limiti, è stato toccato con mano il digital divide, non attribuibile soltanto alla complessa morfologia del nostro territorio, per cui abbiamo visto ragazzini dover spostare il proprio tavolino a cinquecento metri dalla propria casa di campagna per prendere il segnale.
Il digital divide è anche, e forse soprattutto, una frattura culturale. Chi non ha fratelli, sorelle o genitori che sappiano introdurli alle logiche dell’ambiente digitale resta indietro, così come le non poche persone, soprattutto donne, che trovano nell’ambiente scolastico una pausa da una serie d’incombenze familiari correlate alla numerosità della famiglia, con fratellini o nonni da assistere.
Più di un insegnante ha confidato come talune studentesse adducessero la latitanza dal web didattico per dover “caricare la lavatrice” oppure “dar da mangiare alla sorellina”. Per non dire, poi, delle fragilità economiche, di quanti non hanno l’hardware necessario oppure lo devono condividere con altri parenti.
Ma il divario principale è un altro. I docenti, anche i più giovani, sono stati preparati a svolgere la lezione classica. Sperimentazioni, giochi di ruolo sono rimessi alla buona volontà dei più dinamici e volenterosi. Figuriamoci la sintonia con l’ambiente digitale!
Come passare dalla DIE alla vera didattica a distanza
Deve essere chiaro un aspetto: se cambia il canale, cambia il contesto e la forma dei contenuti. Il passaggio principale dalla didattica d’emergenza alla didattica a distanza, online, consiste proprio nell’individuare nuove forme da dare ai contenuti, sfruttando le principali peculiarità dell’ambiente digitale.
Ad esempio, il carattere cumulativo del web, fatto di continui giochi di rimandi che rendono possibile la costruzione di ipertesti, fra i quali bisogna far muovere con destrezza gli studenti. Oppure la dialogica dei social, particolarmente adatta ad accrescere quell’intelligenza connettiva e collettiva che caratterizza la rete. E si potrebbe continuare a lungo.
Tutto questo, però, non può essere affidato agli attuali docenti che hanno ben altra impostazione pedagogica. Anche i docenti del futuro, che certamente avranno maggiore dimestichezza con il mondo digitale e dovranno essere formati verso questa propensione, non potranno completamente ribaltare il proprio ruolo.
La didattica a distanza richiede nuove professionalità, appositamente formate per ideare ciò che sarà chiamato a coadiuvare i libri di testo. Prodotti con info-architetture adeguate, accattivanti, attraenti, di facile utilizzo e, soprattutto, che assicurino di essere testi aperti, in grado di sviluppare negli studenti creatività, lavoro collaborativo e senso critico.
D’altro canto, ormai è comunemente accettato che qualsiasi lavoro intellettuale e creativo debba poggiarsi su di una proficua e continua collaborazione da parte di squadre composite di professionisti. Non si capisce il motivo per cui la scuola dovrebbe essere un’eccezione.
Soltanto attraverso tali percorsi si indirizzerà la formazione, a tutti i livelli, verso ciò che il filosofo Bernard Stiegler ha definito “economia della contribuzione”. Solo con questi percorsi si riuscirà a tradurre le enormi potenzialità della tecnologia in socializzazione alla conoscenza, attraverso rapporti più simmetrici fra i vari attori, ovviamente sempre nel rispetto dei differenti ruoli e delle conseguenti competenze e responsabilità.
La cosiddetta crisi degli esperti, che da almeno un paio di decenni sta interessando tutte le forme di mediazione culturale, non è ascrivibile soltanto alla disintermediazione propria dell’ambiente digitale, ma all’evoluzione delle forme di legittimazione della conoscenza e di attribuzione della fiducia nel sapere esperto, che va praticato in una relazione dialogica, in ciò che il sociologo Anthony Giddens ha efficacemente chiamato “autorità negoziata”.
Ormai, la maggior parte dei nostri rapporti familiari e lavorativi ha assunto queste caratteristiche. Sicuramente piene d’insidie: si pensi a tutta la vasta area dei saperi tecnici, in cui si stanno forgiando professionisti autonomi e indipendenti, ma spesso precari e mal pagati, il cosiddetto popolo delle partite IVA, e che pure non sentono questa instabilità proprio perché coinvolti nei principali processi lavorativi.
La continua negoziazione dell’autorità, e chiunque abbia avuto o abbia figli adolescenti lo sa bene, può indurre non pochi equivoci. La gestione di relazioni sociali più orizzontali non deve significare mortificazione delle differenze di ruolo, di status e di competenze ma, piuttosto, assicurare a ciascuno la libertà di offrire il proprio contributo alla soluzione di un problema oppure all’assunzione di una decisione, sentendosi conseguentemente più coinvolto e gratificato.
Metodologie didattiche che sviluppino queste potenzialità non negano l’autorità del docente; piuttosto scongiurano che ci si impigrisca in una logica meramente trasmissiva. Logica peraltro pericolosa perché, se ci si limita a essa, lo straordinario potenziale diffusivo dei principali operatori della rete porterebbe nel giro di pochi anni ad arrivare alla Facebook School e alla Google University!
C’è bisogno di metodologie che mettano alla prova le abilità nel farsi seguire, nel coinvolgere, nel tirar dentro gli studenti. Metodologie che sappiano convocare le attitudini di ciascun studente nel sapere legare fra loro le informazioni, costruendo conoscenza. Un gioco intellettuale ora praticabile attraverso maggiori possibilità di andare a pescare tali informazioni in un orizzonte aperto, per dargli poi un senso, per verificarne l’attendibilità e per catalogarle e sintetizzarle.
Ci si schiude a un repertorio sterminato di possibilità che certamente non pongono sullo stesso piano chi sa e chi non sa, annullando ulteriormente quella distanza spesso ritenuta la causa principale della perdita di legittimazione della funzione docente. Anzi, restituisce al docente il ruolo di guida, ma in un approccio di valorizzazione e responsabilizzazione degli studenti.
Al fine di transitare dalla DiE-Didattica in Emergenza alla DaD-Didattica a Distanza, potrebbe essere interessante se, fin dai prossimi mesi, i due Ministeri dell’Istruzione e dell’Università e Ricerca mettessero sui loro siti a disposizione dell’ampia platea di docenti e studenti spazi di confronto, condividendo le migliori pratiche attivate durante questo anno emergenziale, auspicando che possano essere semi di una nuova stagione formativa ormai ineludibile.
Si favorirebbe un dibattito allargato, non soltanto fra gli addetti ai lavori ma in tutto il Paese, su cosa debba essere la formazione ai tempi dell’innovazione digitale. Per una volta, l’abusato adagio di questi mesi, “niente sarà più come prima”, potrebbe inverarsi.