Oltre la crisi

Didattica a distanza e futuro della scuola: sette punti su cui riflettere

Le sfide poste dall’odierna contingenza si sommano a difficoltà ormai croniche del sistema educativo. Ecco alcuni punti sui quali, passata la crisi, sarebbe il caso di riflettere seriamente

Pubblicato il 28 Apr 2020

Giovanni Salmeri

Università degli Studi di Roma Tor Vergata

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L’improvvisa riconversione nelle forme dell’insegnamento a distanza avvenuta in queste settimane certamente resterà tra gli episodi significativi per chi domani scriverà la storia delle istituzioni educative.

Che questa esperienza forzata conduca anche a cambiamenti durevoli è tutto da vedere.

Se cambiamenti però ci saranno, non è affatto ovvio che essi siano in meglio: le crisi possono portare anche a contraccolpi frettolosi, esagerati, o semplicemente sbagliati. Sinceramente trovo ingenue (o peggio) le previsioni di inevitabili straordinari miglioramenti, per non parlare di quelle che vedono addirittura nell’odierna situazione profilarsi le istituzioni educative del futuro.

Didattica a distanza, i punti su cui riflettere dopo la crisi

In questo caso la situazione è anzi molto complessa, perché le sfide poste dall’odierna contingenza si sommano a difficoltà ormai croniche del sistema educativo. In questi giorni, coinvolto anch’io esattamente in questi problemi, ho cercato di prendere nota di alcuni punti sui quali, passata la crisi, sarebbe il caso di riflettere seriamente. Per chiarezza, li numero.

Insegnamento a distanza, per una scuola più aperta

Chi affermasse che l’odierna crisi sta mostrando che l’educazione a distanza sostituisce benissimo quella in presenza, e che quindi può essere considerata il modello del futuro, andrebbe escluso da qualsiasi posto di responsabilità nel settore educativo: chi dice questo non ha messo mai piede in un’aula, non ha mai vissuto la scuola e l’Università, o vi è stato talmente male da non aver usato proprio quanto scuola e Università hanno da offrire di insostituibile. Detto questo, credo che la stessa sorte vada riservata a coloro che si permetteranno ancora di dire che la tecnologia è disumanizzante o cose simili: in questi giorni stiamo vedendo come la tecnologia permetta di conservare qualcosa dei rapporti educativi, anche in condizioni proibitive. Alcune cose le sta perfino migliorando: le mie lezioni a distanza sono meglio preparate di quelle in presenza, perché so che tutto ciò che avviene in un’aula in questo caso manca (una parte decisiva dell’insegnamento consiste nel guardare negli occhi le persone che ascoltano, e così capire se puoi andare avanti, se devi fermarti di più, se non sei stato chiaro: a distanza non puoi farlo, e quindi devi pensare in anticipo molto meglio). Non solo: ma ciò che sta avvenendo in questi giorni fa seriamente chiedere se le istituzioni educative non possano (e quindi debbano, per dovere morale e politico!) fare qualcosa di più: per gli studenti malati a casa, per esempio, o per tutti quelli che all’Università non possono frequentare per motivi personali, famigliari, lavorativi. L’insegnamento a distanza non può insomma mai diventare la scusa per non affrontare i problemi che impediscono la frequenza («che bisogno c’è di sostegno per i fuori sede? c’è l’insegnamento a distanza!»), ma può (e quindi deve) essere il mezzo per rendere scuola e Università più umane, più aperte.

L’informatica per facilitare il lavoro di insegnanti e studenti

L’informatica come strumento condivide con tutte le altre tecnologie questa definizione di scopi: rende possibili cose altrimenti impossibili e rende più facili cose altrimenti più difficili. È troppo augurarsi che una maggiore presenza dell’informatica spinga a facilitare il lavoro di insegnanti e studenti? La cosa non è per niente ovvia. Chi lavora nell’Università sa bene come negli ultimi anni l’informatica è lì stata usata praticamente solo per aggiungere incombenze di inutilità clamorosa (conservo gelosamente una email scrittami da persona direttamente coinvolta, che mi confessò che alcuni nuovi adempimenti erano stati inventati solo per giustificare l’esistenza di funzionari ministeriali che poi sarebbero stati occupati a controllarli).

Utilizzo di applicazioni che funzionino anche su dispositivi non nuovissimi

Il mondo degli addetti ai lavori dell’informatica è pieno di lamentele nei confronti dell’ipertrofia delle applicazioni e dei siti: e applicazioni e siti che diventano sempre più esigenti in termini di memoria e di velocità rendono artificialmente obsoleti e inutilizzabili i computer, senza portare nessun reale vantaggio. Si chieda ad un normale assiduo utente di un programma di videoscrittura quali sono le funzioni ora da lui usate che non erano presenti 25 anni fa: molto raramente sarà in grado di rispondere qualcosa. Molte volte in questi giorni è stato (giustamente) posto il problema dei bambini o ragazzi o giovani che non hanno un computer, o che lo devono condividere con i famigliari. Giustissimo, questo è un problema che va affrontato. Ma va affrontato anche il problema di bambini o ragazzi o giovani o insegnanti che hanno un computer di appena qualche anno fa, e che improvvisamente sono messi in difficoltà perché la piattaforma scelta dalla scuola o dall’Università non funziona, o funziona troppo male, sul suo dispositivo. Qui la soluzione è semplice: quando si deve scegliere una qualsiasi applicazione, controllare che funzioni adeguatamente su un computer medio di dieci anni fa. Se sì, semaforo verde.

Scegliere applicazioni open source

L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che i problemi della privacy devono essere affrontati prima che sia troppo tardi, e che non si risolvono a colpi di leggi che prescrivono inutilissimi bannerini da scacciare via o inutilissime caselle da spuntare. Un’estensione della prassi dell’insegnamento a distanza moltiplicherà (ovviamente) questi problemi. Tra i tanti modi di affrontarli ce n’è uno semplice, non infallibile ma assai efficace: scegliere solo applicazioni open source. Significa questo mettere fuori gioco Google, Microsoft e Apple? Peccato. Io comunque non uso nessuna applicazione proveniente dai grandi tre (con piccolissime eccezioni) e sopravvivo lo stesso.

Incoraggiare la disponibilità gratuita dei testi

C’è un’altra «apertura» che questi giorni hanno messo in primo piano nel settore educativo, forse ancor più dell’open source: quella dell’open access. La situazione di emergenza ha indotto per esempio biblioteche elettroniche e editori a rendere molto più ampia la disponibilità gratuita dei loro testi: ciò è stato certamente benemerito, ma non ci si può aspettare che induca a cambiamenti strutturali se non ci sarà un impegno politico. Una nazione che ha a cuore la cultura e l’educazione deve essere interessata ad incoraggiare in tutti i modi la disponibilità gratuita e per tutti di ciò che veicola la cultura e sostiene immensamente l’educazione. Le discussioni e proposte al riguardo esistono, dettagliate e realistiche: basta averne la volontà.

Strumenti per favorire il dialogo intelligente e costruttivo

Forse non tutti sanno che il primo sistema di chat sincrona venne elaborato nel 1973 nell’Università dell’Illinois: si chiamava Talkomatic ed era (sorpresa!) parte di una avveniristica piattaforma, chiamata Plato, in cui per la prima volta i computer venivano usati come strumenti didattici (per la cronaca, il sistema in sé debutta nel 1960: quindi circa 60 anni fa!). La chat viene insomma pensata come funzionale all’insegnamento, al dialogo tra insegnante e studenti e tra studenti fra di loro. Questa genesi origine nobile fa sorridere: i dialoghi che normalmente avvengono sulle chat, a base di meme, iconcine e salutini, hanno ben poco di quel dialogo con cognizione di causa, di quello scambio serio di idee, che costituisce una delle parti più preziose dell’insegnamento, dai tempi di Platone in poi. Sorte non molto diversa tocca ai forum e ai social in genere. In parte non c’è da meravigliarsi: posso riempire un foglio di carta di stupidi scarabocchi, senza nulla togliere al fatto che su un similissimo foglio di carta Giacomo Leopardi scrisse L’infinito. E però è anche vero che ci sono forme tecniche che favoriscono il dialogo intelligente e costruttivo altre che lo rendono difficile, forme tecniche che favoriscono la reazione immediata e superficiale e forme tecniche che dissuadono da essa. Se il più delle volte quando si parla di piattaforme per l’insegnamento si degna solo di un sorrisetto compiacente il fatto che «è previsto uno spazio in cui gli studenti possono dialogare» è perché si sa quanto questo sia difficile: in genere non funziona. È difficile anche in presenza, peraltro! Credo che su tutto questo bisognerà riflettere e ci vorranno studi e sperimentazioni serie. Ad una cinquantina d’anni di distanza da Talkomatic sarebbe bello se fosse ancora il mondo dell’educazione ad offrire idee nuove.

Informatica a scuola, alleata dell’umanità

Quando si è parlato dell’attuale precipitosa corsa all’uso degli strumenti informatici, è stato talvolta evocato il nome di Seymour Papert, grande pioniere dell’uso educativo dei computer. Citazione benvenuta! Salvo notare che Papert non amava per niente i computer come «strumenti per insegnare»: ciò che lui voleva era una cosa completamente diversa, cioè i computer come strumenti per sviluppare la creatività e l’intelligenza. Nelle belle immagini e filmati che testimoniano la sua attività si vede qualcosa di completamente diverso dall’insegnamento a distanza tramite computer: si vede lui insieme con bambini che esplorano le possibilità dei computer. Nelle sue parole: non il computer che programma il bambino, ma il bambino che programma il computer! L’espressione «computer che programma il bambino» è probabilmente il più delle volte esagerata, che un materiale sia funzionale all’apprendimento non significa di per sé che sia introdotta chissà quale distopia disumanizzante (se fosse così le scuole Montessori sarebbero le più disumane di tutte!). È però vero che Papert metteva l’accento su un fatto innegabile: i computer sono strumenti di una versatilità straordinaria (più esattamente si potrebbe dire: illimitata), e sarebbe sciocco lasciarsi sfuggire l’occasione di usarli come sponda (materiale) per lo sviluppo della ricchezza (spirituale) dell’uomo. Purtroppo, la stragrande maggioranza delle volte in cui si parla del «digitale a scuola» questo tema viene praticamente ignorato e le nuove tecnologie vengono sempre presentate come qualcosa solo da «usare». Se in futuro nel mondo dell’educazione i computer saranno più presenti (non so se la cosa sia augurabile, ma certamente è verosimile), sarà indispensabile ricordare e attualizzare la lezione di Papert: per esempio cominciando a prendere sul serio le proposte di insegnamento dell’informatica a scuola. Anche qui, si tratterà di considerare l’informatica come un’alleata dell’umanità.

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