la simulazione

Didattica a distanza, perché è un’etichetta sbagliata: due lezioni e un compito

Quali sono i concetti veicolati da parole come “didattica” o “distanza” e in che modo quegli stessi concetti sono messi alla prova dalla chiusura delle scuole e l’apertura delle attività scolastiche in rete? Chiariamo i problemi aperti

Pubblicato il 29 Apr 2020

Roberto Maragliano

docente di Tecnologie dell'Istruzione e dell'Apprendimento, Università Roma Tre

Machine learning e giornalismo

Lo sentii subito, a pelle: “Didattica a distanza” (presto diventata DaD) non mi piaceva, trovavo inadeguata l’etichetta che il Ministero dell’Istruzione aveva adottato per accompagnare la complessa operazione, tuttora in corso, di tenere aperte le attività scolastiche mentre gli edifici erano forzatamente chiusi, per ragioni di “salute pubblica” (altra etichetta generica o utilizzata genericamente, in tempi non sospetti, e che ora sappiamo bene a cosa rimanda).

Consideravo inadeguato il ricorso a due parole (didattica, distanza) o troppo concrete o troppo ambigue.

Ma a chi mi chiedeva allora (era l’ultima settimana di febbraio, praticamente l’inizio della vicenda) quale altra dizione sarebbe stata giusta, non ero in grado di dare una risposta accettabile: tutte le parole alternativa mi sembravano, di nuovo, o troppo tecniche o troppo generiche.

Ripensandoci oggi, provo lo stesso disagio, ma in una forma diversa.

Infatti, col senno di poi e per le cose avvenute, tuttora in corso, mi è più facile rubricarlo non come la difficoltà di chi non riesce a trovare parole di grosso impatto emotivo ed operativo per descrivere una realtà nuova (ho la coscienza a posto per questa manchevolezza, visto che non faccio né il politico né il pubblicitario) ma come la carenza di chi ha difficoltà a mettere bene a fuoco i concetti con cui ha o vorrebbe avere a che fare.

Didattica a distanza: i problemi aperti

Ecco da dove venivano le perplessità.

Mi chiedevo, inconsapevolmente, e mi chiedo consapevolmente oggi: quali sono i concetti veicolati da parole come “didattica” o “distanza” e come quegli stessi concetti sono messi alla prova, perché non del tutto solidi, dalle cose e dagli avvenimenti del presente, in pratica da quel dato di realtà che ha comportato la chiusura delle scuole e l’apertura delle attività scolastiche in rete?

Voi che mi leggete obietterete: è questo il tempo per fare filologia?

Rispondo: no, ma è tempo per fare filosofia. E la filosofia si fa, anche, portando ordine nei concetti, e ancorando l’umore e il suono delle parole a un rete di significazioni.

È dunque tempo, vi chiarisco, per esplorare dei problemi inevitabilmente aperti (quello del rapporto scuola/mondo lo è) e per riconoscere che tenerli aperti è meglio che considerarli chiusi una volta per sempre, salvo poi trovarli smentiti non dico dalla storia, ma dalla cronaca.

E allora ragioniamoci assieme. Eventualmente anche ricorrendo a letture più impegnative, per chi ne ha desiderio, come il saggio di Luciano Floridi, Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Milano, Raffaello Cortina, 2020 (ora disponibile anche in versione digitale).

Sono così arrivato ad annunciare la prima delle due lezioni che intendo proporre qui, assieme all’indicazione di un compito per voi lettori.

La distanza

Questa ha come argomento “la distanza”

Inizio dunque.

Cosa vuol dire “distanza”? Distanza da che cosa?

Nella “scuola della vicinanza” l’apprendimento non avveniva sempre lì, in classe con la lezione, ma in buona parte, come ben sapete, si concretizzava fuori di quella presenza, con il compito affidato allo studio domestico. L’opposizione vicinanza/distanza aveva dunque un senso definito? Direi di no. Del resto, è proprio perché difettava sul piano dell’esattezza che si è prospettata, da più parti, l’idea di capovolgere il rapporto tra aula e casa, ridefinendone le pratiche (nonché la dislocazione dei concetti relativi del vicino e del lontano) e arrivando dunque a formulare, non fosse altro in linea di principio, la possibilità di distanziare la lezione collocandola a casa, grazie alle registrazioni, e di avvicinare il compito presenziandolo in aula. Realisticamente dovremmo riconoscere che ad un certo punto si è iniziato a pensare che dentro la presenza fisica dell’allievo potesse albergare e crescere una sua distanza mentale, psicologica, spirituale (come volete), e che a questo limite fosse possibile far fronte col portare la lezione fuori dell’aula e accoglierci dentro il compito. Giunti a questo punto, pensateci bene, è corretto vedere nell’ingresso della tecnologia sulla scena scolastica non l’occasione per rendere più univoci e praticabili i due concetti, quanto lo stimolo a problematizzarli,

Faccio ricorso ad un esempio.

Il ragazzino che in aula non segue la lezione e che, contravvenendo alla regola, gioca col cellulare o legge un fumetto o anche pensa ai fatti suoi è vicino (o presente), secondo la tecnologia/tecnica della classe e distante (o assente) dal punto di vista dell’impegno di apprendimento, ma contemporaneamente è presente in un altro luogo, il gioco online, il racconto a fumetti, la fantasticheria personale. Questa diversa dislocazione dipende dal punto di vista dell’osservatore, certamente, ma anche dalla tecnologia e dunque dal contesto materiale che egli si prende in considerazione per definire vicinanza e distanza. E allora, domandiamoci: l’allievo, in questi giorni virali, è distante per la scuola e vicino per la piattaforma, ma in che senso e con che sostanza questa nuova configurazione del rapporto tra vicinanza e lontananza si manifesta, al di là della certificazione burocratica che chiede l’amministrazione, cioè il conto di quanti sono collegati e per quanto tempo, ecc.? L’essere in piattaforma o l’essere in classe forniscono, a chi se ne occupa, strumenti diversi di acquisizione e gestione dei dati della vicinanza e della distanza dell’allievo: in che cosa sono diversi, cosa manca ad una condizione rispetto all’altra e viceversa?

Sono tutte cose su cui dovremmo iniziare a ragionare assieme, profittando dell’emergenza attuale per pensare alla grande.

Una di queste è certa, comunque: che il singolo (allievo o docente o educatore che sia) fa le sue scelte, oggi come ieri, con una qualche ineliminabile autonomia, su questo fronte; dunque chi sovraintende a tutto ciò (la scuola, il dirigente, il ministro, il sindacato, la famiglia, la comunità delle mamme WhatsApp, fate un po’ voi) dovrebbe essere consapevole della fluidità concettuale di cui ho detto, la quale, a dir poco, sta ad indicare la complessità metodologica e concettuale di ogni operazione di controllo e certificazione (di qui il problema delicatissimo della valutazione, tanto più delicato quanto più lo si scorpora della componente burocratica, come si sarebbe dovuto fare anche prima, e non s’è fatto, anzi!).

Lo dicevo prima, affrontare questi temi in chiave filosofica significa evitare l’illusione che possano rapidamente chiudersi, e disporsi a mettere in atto in noi e nei problemi con cui ci misuriamo la dialettica del chiuso e dell’aperto.

Viviamo tutti, contemporaneamente, dentro sistemi che sono ad un tempo chiusi e aperti, e che ci sembrano corrispondere più ad una caratteristica o ad un’altra a seconda dei comportamenti, dei punti di vista, delle tecniche che di volta in volta adottiamo per designarli. Può dunque capitare che l’allievo o il docente di rete siano più vicini e performativi lì, “a distanza”, di quanto non erano nella “vicinanza” della classe. Apertura e chiusura, presenza ed assenza, vicinanza e lontananza non sono dunque e tanto meno vanno intesi come degli assoluti.

Del resto, uno dei capisaldi della tradizione pedagogica del Novecento, soprattutto nel nostro paese, è stato il tema della “scuola aperta”: con quest’arma concettuale il progressismo si è battuto per anni affinché la salvaguardia della prerogativa di chiusura del sistema scuola (misura necessaria per dar luogo ad insegnamento e apprendimento in una condizione protetta) avvenisse attraverso delle prospettive di apertura al mondo esterno: alla campagna, ad esempio, secondo il modello di Mario Lodi, o alla città, seguendo la suggestione di Marshall McLuhan.

E così, procedendo per inclusione e associazione, sono arrivato a tracciare un primo schizzo dei concetti in campo.

Qui finisce la prima lezione.

Il compito

Dopo la lezione, come di consueto, c’è il compito.

Affido a voi il doppio incarico di applicare e integrare la lezione: primo passo, vi toccherà sviluppare un ragionamento su “didattica” analogo a quello che ho proposto per “distanza”; secondo passo, dovrete unire i due percorsi, sì da arrivare a disporre di una prima rete di concetti attraverso i quali dare spessore alla parola d’ordine della DaD.

Vi concedo un “aiutino”, come è da prassi.

Consiste in qualche domanda di orientamento (o forse di disorientamento) a proposito del primo termine della sigla.

In che cosa consiste quella cosa che chiamiamo “didattica”: è teoria, azione, atteggiamento, tutto questo o altro, è un fatto individuale o collettivo, è decisa tutta a monte, coincidendo con l’organizzazione generale del lavoro scolastico (gli orari, le materie, gli esami) o è qualcosa in più o di meno? Di conseguenza, il nodo concettuale “didattica” con quali altri nodi intrattiene rapporti, in quale area cerca adepti? Si sviluppa solo verso l’area delle tecniche, dove sta l’insieme delle problematiche del come insegnare e del come far apprendere, o si proietta anche sull’area dei contenuti, dove sta il tema che cosa insegnare? Per intenderci con un esempio: insegnare musica è la stessa cosa che insegnare a far musica e insegnare a far musica su una tastiera elettronica è lo stesso che insegnare a farla su un pianoforte, farla in chiave solistica o di assieme scaturiscono dalla stessa esperienza formativa? E poi, la musica e la cultura musicale che usciranno da queste diverse situazioni di insegnamento e di apprendimento avranno contenuti e soprattutto configurazioni simili?

Ecco, sono arrivato alla formulazione della prima parte del compito che vi affido: dire (e fare e pensare) come cambia il concetto di didattica, come cambiano i suoi associati, quando capita (vedi oggi) di passare da una tecnologia (la scuola, i corridoi, i laboratori, le aule, i libri ecc.) ad un’altra (la piattaforma di rete, quella tecnicamente esistente e materialmente utilizzata o quella creata autonomamente dall’insegnante con l’associare diverse funzioni di comunicazione di rete fin qui utilizzate soprattutto per attività non professionali).

Dirlo e farlo concettualizzando, mi raccomando. Potete anche copiare da Floridi. Se ci riuscite.

La prova finale di questa mio invito a simulare la simulazione della scuola, prova che sarei curioso di vedere (non per valutare, ma per imparare: si valuta, ci si valuta per imparare a insegnare, questa segnatevela!), dovrebbe consistere nella costruzione, meglio: nel disegno di una rete densa ma aperta che dia visibilità all’insieme dei concetti (corredati di esemplificazioni) attraverso cui “didattica” e “distanza” intrattengono i loro rapporti. Sarà un solo prodotto, dunque una sola mappa, se pensate che la tecnologia di rete debba ricalcare la tecnologia scolastica. Se invece ritenete che se ne differenzi, allora le mappe saranno due, o forse anche tre: la scuola propriamente detta, la scuola capovolta, la scuola di rete.

Dove fare il compito, mi chiederete. La risposta è presto detta: lo farete, lo state già facendo lì dove siete, tramite l’insieme delle esperienze che state maturando, voi assieme ai vostri allievi, da quando la scuola s’è chiusa e la rete vi s’è aperta.

A questo punto i più attenti tra di voi avranno capito dove vuole approdare l’esercizio mentale che mi sono e vi ho imposto. Torno, per spiegarlo, al punto di partenza. Non cerco parole per dire meglio l’esperienza pedagogica che tutti stiamo facendo (pure io la sto facendo, da pensionato in servizio permanente di rete). L’etichetta DaD è fuorviante, come tante etichette che utilizziamo. Ma non fa problema. Piuttosto, cerco, assieme a voi, concetti, o più correttamente reti di concetti che aiutino a capire meglio cosa ci sta capitando, ora. E soprattutto cosa ci potrà capitare dopo, quando saremo fuori dell’emergenza del virus e ci troveremo, come del resto era prima, ma questa volta sapendo qualcosa in più, nell’emergenza di una scuola da ricostruire o costruire su nuove fondamenta (problema che si porrà ugualmente in ambito economico, politico, civico, ecc.).

Si tratta, l’ho anticipato, di pensare alla situazione che stiamo vivendo come ad una simulazione di scuola.

Il concetto di simulazione

La seconda lezione, inevitabilmente più breve della prima, è dunque dedicata al concetto di simulazione.

Muovo dalla parola per mostrare come essa rimandi, anche nell’uso quotidiano, a due accezioni: una in cui prevale la dimensione della finzione, del non vero, l’altra in cui prevale la dimensione dell’artificio, della costruzione. Lo studente che interrogato simula una preparazione sta nelle stesse condizioni del pilota che opera con un simulatore di volo? Sì e no. È falso che quello sia un aereo così come è falso che lo studente abbia studiato. Ma è vero che se il primo fallisce non ne paga le conseguenza mentre il secondo sì. A meno che il fallimento di questo non gli valga da monito per evitare un nuovo fallimento, e allora si troverebbe nella condizione del pilota che simula l’errore per vederne l’effetto. Che dire? Anche qui siamo di fronte ad un problema complesso, dove finzione e costrutto si mescolano.

Vedere la DaD come un simulatore di scuola può aiutarci. Soprattutto se evitiamo di cadere nella rigidità dello schema vero/falso, e di considerare la scuola fisica come l’unica vera e la scuola di rete come falsa, in parte o tutta (c’è chi ancora lo pensa).

Come si sosteneva in un saggio prezioso di anni fa (Domenico Parisi, Simulazioni. La realtà rifatta nel computer, Bologna, Il Mulino, 2001) la simulazione è uno strumento scientifico importante per conoscere, capire, praticare la realtà. Rispetto ad altri strumenti ha il vantaggio di essere antidisciplinare, perché fa riferimento ad un metodo di trattamento dei dati e di uso della teoria che può essere adottato in tutti i contesti e non conosce i limiti e le cesure tra i diversi saperi, più o meno istituzionalizzati. Inoltre consente di fare previsioni su cosa comporterà optare per determinate scelte piuttosto che per altre. La realtà è una, complessa sì, ma una. La simulazione prova a riprodurla non per parti ma nel suo complesso, acquisendo una dose massiccia di dati e lavorandoli in base a modelli. Dunque, la simulazione non è solo teoria della realtà, è essa stessa realtà, ma, come dire?, è una realtà dotata di un grado di costrizione inferiore rispetto a quello della “realtà reale”.

Il venire meno oggi, per cause di forza maggiore, di alcuni dei vincoli classici della scuola (e della didattica) a cominciare dagli orari e passando per le prove Invalsi e l’alternanza scuola/lavoro, e l’attenuarsi in buona parte dello spauracchio (quanto reale?) dell’esame conclusivo, in breve: lo sfarinamento, inevitabile, della realtà di scuola come apparato burocratico di controllo e il recupero, fenomeno dovuto alla condizione esistenziale che stiamo vivendo, e l’investimento che tanti stanno facendo su un’immagine e una realtà di scuola come comunità di cultura fattiva e solidale, inducono tutti noi a vivere da piloti questa simulazione di volo scolastico. Se ci riusciamo, sono sicuro che toccheremmo terra arricchiti e desiderosi di ripartire.

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